LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14016/2019 proposto da:
C.C., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Murgese Angelo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nonché contro Z.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via Fulcieri Paolucci De’ Calboli n. 5, presso lo studio dell’avvocato Buzzelli Dario, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale condizionato;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 386/2019 del TRIBUNALE di ANCONA, pubblicata il 26/02/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/03/2021 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.
FATTI DI CAUSA
1.- La signora C.C. conveniva in giudizio la Dott.ssa Z.S. per chiederne la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa del trattamento, ritenuto illecito, dei propri dati personali, in relazione ad un giudizio proposto dal Dott. M.A. contro l’Azienda Sanitaria ASL di ***** e la stessa Z..
Il Dott. M., medico psichiatra che aveva in cura la signora C.C., aveva agito dinanzi al Tribunale di *****, sezione lavoro, per sentire dichiarare il proprio diritto a mantenere la qualifica di Direttore della Unità Operativa Complessa di Psichiatria, incarico cui aspirava anche la Dott.ssa Z., la quale, in tale giudizio, aveva presentato tramite il proprio difensore una istanza di ricusazione del magistrato titolare della causa, il Dott. Co.Ca. (padre dell’attrice), corredandola di informazioni riservate concernenti dati sensibili della signora C.C., circa le sue precarie condizioni di salute psichiatrica e relativi ricoveri ospedalieri.
2.- Il Tribunale di Ancona (adito dopo una declinatoria di competenza del Tribunale di Fermo), con sentenza del 26 febbraio 2019, giudicava illeciti l’acquisizione e il trattamento dei dati sensibili relativi a C.C. che ne aveva fatto la Z., in violazione delle procedure previste a garanzia della riservatezza dell’interessata, ma rigettava la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale. A tal fine riteneva che il nesso causale tra il suddetto trattamento e il danno non patrimoniale lamentato si fosse interrotto per l’intervento di un fatto sopravvenuto, autonomo e imprevedibile, qual era la condotta di Co.Ca. che, violando il dovere di riserbo proprio del suo ufficio, aveva rivelato alla figlia le ragioni a sostegno dell’istanza di ricusazione, consentendole di venire a conoscenza dell’illecito trattamento dei propri dati sensibili che era causa dei pregiudizi lamentati. Ad avviso del tribunale, comunque, non era stata offerta prova di tali pregiudizi, in termini di aggravamento della patologia di cui C.C. soffriva da anni, essendo inadeguati i documenti offerti al riguardo.
3.- Avverso questa sentenza C.C. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui si oppone la Z. che propone ricorso incidentale condizionato, affidato a tre motivi. Le parti hanno presentato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,2043,2010 c.c., artt. 40 e 41 c.p., artt. 2 e 24 Cost., in relazione al D.Lgs. n. 30 giugno 2003, n. 196, artt. 1, 4, 7, 20 e 167 (codice privacy), per avere il tribunale erroneamente considerato interrotto il nesso causale tra la condotta della Dott.ssa Z., consistita nell’illecito trattamento dei dati personali della signora C.C., e l’evento dannoso consistito nei pregiudizi non patrimoniali sofferti da quest’ultima, in conseguenza della sopravvenuta condotta del Dott. Co.Ca. che aveva rivelato alla figlia fatti di cui non sarebbe venuta a conoscenza, omettendo il tribunale di valutare lo stretto rapporto affettivo e la relazione di convivenza esistente tra padre e figlia.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 183,184 e 244 c.p.c., in relazione al D.Lgs. n. 2003, art. 26, comma 4, artt. 60 e 167 per avere il tribunale considerato non violata la privacy della signora C.C., in conseguenza della formulazione dei capitoli di prova nell’interesse di Dott.ssa Z. e dell’espletamento della prova (con la deposizione del teste T.F.) nel giudizio dinanzi al Tribunale di Fermo, che rivelavano le manifestazioni patologiche di cui soffriva C.C., sull’erroneo presupposto che tale prova fosse strumentale all’esercizio del diritto di difesa della Z. in replica alle prove dedotte dalla controparte.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2050,2059 c.c., art. 185 c.p., artt. 183,184 e 244 c.p.c., in ordine al rigetto della domanda risarcitoria, per avere ritenuto mancante la prova documentale idonea a dimostrare il danno non patrimoniale subito da C.C., in conseguenza delle condotte della Z., per l’aggravamento delle patologie di cui ella soffriva.
2.- I predetti motivi sono inammissibili per le ragioni che si diranno, sebbene la motivazione della sentenza impugnata sia inficiata da un errore di diritto che deve essere corretto, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 4, non incidendo sul dispositivo che è corretto.
L’errore consiste nell’avere esaminato la condotta tenuta dalla Z. in sede processuale rispetto alla disciplina in materia di trattamento dei dati personali, giungendo alla conclusione, da un lato, dell’illiceità del suddetto trattamento quanto al procedimento di ricusazione nei confronti di Co.Ca. (pur disconoscendo l’esistenza di danni risarcibili per mancanza di prova) e, dall’altro, della non illiceità del trattamento quanto alle concrete modalità in cui si era svolta l’attività istruttoria in relazione alle istanze probatorie delle parti.
In entrambi i casi il tribunale non ha tenuto conto del principio, cui si deve dare continuità, secondo cui non costituisce violazione della disciplina in tema di privacy l’utilizzo di dati personali mediante lo svolgimento di attività processuale, giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 193 del 2003, artt. 7, 24 e 46-47 (cd. codice privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e, in tale sede, vanno composte, ricorrendo al codice di rito, le diverse esigenze di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo medesimo (Cass. n. 8459 del 2020, SU n. 3034 del 2011).
La Z., in effetti, era tenuta ad esporre le ragioni a sostegno dell’istanza di ricusazione proposta nei confronti del magistrato che doveva decidere la controversia che la riguardava, anche utilizzando dati personali di terzi, in via strumentale alla tutela dei diritti azionati in causa ed esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario (cfr. Cass. n. 21612 del 2013), come avvenuto nel caso concreto, a prescindere dall’esito (di fondatezza o infondatezza) dell’istanza.
3.- Venendo all’esame dei singoli motivi, il primo è inammissibile: la valutazione della esistenza e portata del fatto sopravvenuto idoneo ad interrompere la relazione causale tra la condotta della Z. (erroneamente ritenuta illecita dal tribunale) e il danno lamentato da C.C. è comunque incensurabile in sede di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 25 del 2010, n. 24549 del 2013).
Inammissibili sono anche gli altri motivi, i quali postulano l’illiceità di un trattamento di dati che non è riscontrabile nella specie per le ragioni esposte; difettano di specificità, non riportando il contenuto dei capitoli di prova e delle dichiarazioni verbalizzate dei testimoni contenenti informazioni sensibili e, comunque, mirano ad una rivisitazione di apprezzamenti di fatto incensurabilmente compiuti dai giudici di merito.
4.- In conclusione, il ricorso è inammissibile; il ricorso incidentale proposto in via condizionata è assorbito.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
PQM
La Corte dichiara il ricorso principale inammissibile e assorbito il ricorso incidentale; condanna la ricorrente alle spese, liquidate in Euro 4200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.
Così deciso in Roma, il 24 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021