LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4068/2017 proposto da:
R.V., elettivamente domiciliata in Roma, Via Appia Nuova n. 96, presso lo studio dell’avvocato Rolfo Paolo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Luppi Alberto, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
nonché contro P.C., C.A., A.A., Ar.Ro., Ci.Ma., elettivamente domiciliati in Roma, Via Calabria n. 56, presso lo studio dell’avvocato Zampaglione Aristide, che li rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
contro
G.N., M.N., Co.Ma., Ga.Ro., Pi.Al., elettivamente domiciliati in Roma, Via dei Banchi Nuovi n. 39, presso lo studio dell’avvocato Jannetti Del Grande Giuseppe, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Onofri Francesco, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
contro
Studio Soluzione Piccola Società Cooperativa a r.l.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 678/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, pubblicata il 07/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/03/2021 dal cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Brescia con sentenza del 7 luglio 2016 ha parzialmente accolto, aumentando la somma dovuta di Euro 8.387,45, l’appello principale, respinti gli incidentali, avverso la decisione del Tribunale della stessa città, con la quale i convenuti sono stati condannati pro quota a pagare all’attrice R.V., acquirente delle loro partecipazioni sociali, la somma complessiva di Euro 79.035,67 oltre interessi dalla domanda, a titolo di rimborso delle sopravvenienze passive accertate relative ai precedenti esercizi sociali, come previsto nella clausola di garanzia apposta al contratto di compravendita concluso il 12 marzo 2002, avente ad oggetto le partecipazioni rappresentative, nel loro insieme, del 75% del capitale sociale della San Luigi s.r.l.
Avverso questa sentenza propone ricorso R.V., affidato a cinque motivi, illustrato da memoria.
Si difendono con distinti controricorsi gli intimati P.C. ed altri, proponendo ricorso incidentale per un motivo, nonché G.N. ed altri, questi ultimi con deposito anche della memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – I motivi del ricorso principale vanno così riassunti:
1) violazione degli artt. 1362,1363,1366 e 1369 c.c., avendo la sentenza impugnata, in violazione di tali criteri interpretativi, ritenuto che la clausola del contratto di compravendita – secondo cui “Eventuali sopravvenienze passive, anche di natura fiscale, ed eventuali inesattezze o falsità di bilancio relative ad atti o fatti anteriori alla data odierna restano a totale ed esclusivo carico dei cedenti, in proporzione alle quote di partecipazione rispettivamente cedute, dandosi atto che l’Amministratore Unico Dott…. produce una situazione contabile al 31 dicembre 2001…” – escludesse dalla garanzia le sopravvenienze passive la cui probabile esistenza era già conosciuta dalle parti, qual’era il debito risarcitorio gravante sulla società per responsabilità medica in relazione ad un fatto occorso nei locali della società nel 1998: invece, il criterio dell’interpretazione letterale ex art. 1362 c.c. è primario, mentre l’interpretazione complessiva del contratto ex art. 1363 c.c. e la causa concreta dell’accordo non avrebbero in nessun modo potuto indurre l’interpretazione resa (dato il riferimento alla situazione patrimoniale predetta, mentre anche la fissazione del prezzo era correlata alla dichiarata “condizione di veridicità e fedeltà dei bilanci presentati… negli ultimi due anni, 1999 e 2000”); il canone della buona fede, dalla sentenza richiamato, è coerente proprio con l’inclusione nell’oggetto della garanzia negoziale di tutte le sopravvenienze emerse, purché riferibili al periodo ante cessione, né la garanzia avrebbe potuto riguardare i soli “fatti o rischi ignoti” alle parti; infatti, all’epoca del contratto concluso nel 2002 era già avvenuto il sinistro, risalente al *****, del quale dunque pacificamente le parti erano a conoscenza, al pari della circostanza che l’acquirente era l’amministratrice della società, e, tuttavia, esse non esclusero affatto detto evento dall’operatività della garanzia omnicomprensiva, al contrario volendovelo includere, pur consci della natura non ancora attuale e quantificabile del debito; anzi, proprio l’impossibilità di determinare il quantum dell’eventuale futuro risarcimento indusse a non contemplarlo nel prezzo, ma a prevedere i meccanismi correttivi detti;
2) omesso esame di fatto decisivo con motivazione illogica, in quanto la sentenza, dapprima, riconosce che la clausola di garanzia era tale da coprire tutte le inesattezze di bilancio e le sopravvenienze passive, ma poi esclude quelle non ignote al momento della cessione: senza considerare che nel marzo 2002, quando l’accordo fu concluso, la controversia risarcitoria per l’evento occorso nel ***** non era stata ancora intrapresa (l’atto di citazione fu notificato il 3 aprile 2002), onde si trattava di un debito potenziale ed incerto, nell’an e nel quantum, con la conseguente sua logica collocazione proprio nell’ambito della clausola di garanzia;
3) omesso esame di fatto decisivo, con motivazione incomprensibile, laddove la sentenza impugnata afferma non essere stata raggiunta la prova del debito de quo, senza considerare che esso era sorto con la sentenza di condanna al risarcimento del danno, pronunciata dal Tribunale di Mantova il 30 gennaio 2007, tanto da potersi a pieno titolo iscrivere nel concetto di sopravvenienza passiva; né tale debito sociale avrebbe potuto essere escluso per la mera considerazione, operata invece dalla corte territoriale, sulla possibile azione di regresso della s.r.l. verso il medico responsabile e sulle possibili azioni di responsabilità verso gli amministratori della società per non avere stipulato apposita assicurazione (che, al contrario, era stata stipulata, mentre l’assicuratore negò la copertura): invero, tali situazioni adombrano, semmai, delle eccezioni proponibili da controparte, ma non sono fatti, per la loro astrattezza ed improbabilità, che possano escludere l’attuale operatività della clausola di garanzia per una sopravvenienza, invece, certa e liquida;
4) omesso esame di fatto decisivo e violazione dell’art. 244 c.p.c., laddove la corte del merito non ha ammesso la prova testimoniale articolata, la quale – nei capitoli che il motivo riporta per esteso – era volta non a far esprimere valutazioni ai testi, ma a sentirli riferire sulle trattative che condussero alla cessione delle quote ed alla ratio della clausola di garanzia apposta;
5) omesso esame di fatto decisivo, laddove la sentenza impugnata afferma che le spese legali sostenute dalla società nel giudizio di responsabilità medica sono, del pari, escluse dalla garanzia, avendo al riguardo esposto le medesime argomentazioni contraddittorie ed incomprensibili, utilizzate per escludere il debito risarcitorio dal novero delle sopravvenienze passive da rimborsare in forza della clausola di garanzia.
2. – Con il proprio ricorso incidentale, P.C. ed altri articolano un unico motivo, con il quale lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, per la compensazione integrale delle spese di appello, operata dalla sentenza impugnata, quando solo uno su quattro motivi del gravame è stato da essa accolto.
3. – La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che la clausola di c.d. garanzia per le sopravvenienze societarie, prevista nel contratto di trasferimento delle partecipazioni sociali concluso inter partes, sopra riportata, fosse tale da limitare la medesima ai soli “rischi ignoti”, non coprendo la garanzia quelli – come il debito sociale derivante dall’azione di risarcimento del danno per responsabilità medica intrapresa, dopo la vendita, dagli eredi di una paziente deceduta nel ***** nei locali del poliambulatorio della società, all’esito della quale la società ed il sanitario furono condannati al risarcimento del danno nella misura di oltre Euro 560.000,00, con sentenza passata in giudicato – che le parti e la stessa cessionaria conoscevano e che, quindi, sarebbero stati già considerati nel prezzo della cessione. Ciò, secondo la corte d’appello, in base ad una interpretazione “del complessivo testo contrattuale valutato in base al principio di buona fede”.
Ha, dunque, presunto che l’esistenza di tale potenziale debito sociale, per un evento occorso prima del contratto, fosse stata valutata al momento della determinazione del prezzo, attesa la qualità di amministratrice della società in capo all’acquirente, R.V.; ha aggiunto come non fosse obbligatoria l’emersione del debito nei bilanci ante cessione in un apposito fondo rischi, alla stregua delle considerazioni del consulente tecnico d’ufficio, in quanto non era affatto certa la responsabilità della San Luigi s.r.l. e vi era apposita polizza assicurativa.
Infine, “per completezza di motivazione” ha ritenuto non provata l’entità del debito risarcitorio gravante sulla società in relazione al detto evento, la cui determinazione è difficoltosa, rendendone impossibile anche l’appostazione in bilancio, e ciò: a) sia perché esso è “perfettamente controbilanciato” dal credito di rivalsa verso il sanitario che eseguì l’intervento, onde, al più, si tratta del pregiudizio gravante sulla società in ragione dello sfasamento temporale tra la data del pagamento ai creditori ed il conseguimento del rimborso da parte del medico; quanto alle circostanze della mancata proposizione dell’azione di rivalsa da parte della società verso il medico nel corso del giudizio intrapreso dagli eredi della paziente, e della mancata richiesta di provvedimenti cautelari a carico dello stesso, sono evenienze ascrivibili a scelte difensive della società che non possono porsi a carico dei cedenti; b) sia perché è sempre possibile un’azione di responsabilità sociale contro gli amministratori, ivi compresa l’attuale ricorrente, che non stipularono apposita assicurazione per simili eventi.
In ogni modo, precisa la corte, già nel bilancio *****, quando la ricorrente ricopriva la carica di consigliere di amministrazione, avrebbe potuto se del caso appostare il fondo rischi relativo al sinistro occorso.
Quanto alla prova testimoniale, ha ritenuto che i capitoli dal 23 al 27, vertenti sulle trattative intercorse, contenessero valutazioni, mentre per i rimanenti il motivo non indicava le ragioni contrapposte alla decisione di non ammissione, operata dal primo giudice.
La corte territoriale, invece, ha accolto il motivo di appello, con il quale si chiedeva di includere nella garanzia una sopravvenienza passiva pari ad Euro 8.387,45, relativa ad una diversa controversia giudiziaria, mentre ha disatteso il motivo concernente la somma di Euro 15.615,22, pagata dalla società a titolo di spese legali nella causa relativa al predetto sinistro sanitario, richiamando le precedenti ragioni.
Infine, ha compensato per intero le spese del grado fra le parti.
4. – Il primo, il secondo ed il quinto motivo del ricorso principale, che possono essere trattati congiuntamente, perché sotto profili distinti mirano a censurare le medesime argomentazioni della sentenza impugnata, sono fondati.
4.1. – Nella compravendita di partecipazioni sociali si riscontra la nota caratteristica per cui, avendo il negozio ad oggetto l’azione o la quota di una società, che è titolare – essa sola – del suo patrimonio, l’oggetto immediato presenta propri caratteri e conferisce alcuni diritti ed obblighi (l’obbligo di eseguire i versamenti relativi al conferimento, il diritto patrimoniale ai dividendi, i diritti partecipativi di intervento e voto in assemblea, ecc.), che non attengono in sé al patrimonio sociale; sebbene, poi, ciò che determina il valore delle azioni sia appunto il valore del patrimonio e dell’azienda sociale.
La fattispecie negoziale della vendita della partecipazione, tuttavia, produce effetto immediato esclusivamente sulla partecipazione sociale in sé considerata.
Di qui, l’elaborazione nella pratica degli affari di apposite clausole, atte a superare l’indifferenza del patrimonio sociale nell’ambito dell’oggetto proprio del contratto e la ritenuta inapplicabilità diretta dei rimedi ex art. 1490 c.c. e ss. c.c., quale effetto naturale del negozio, ma anche degli artt. 1453 c.c. e ss., ove li si voglia riferire ai beni compresi nel patrimonio sociale (cfr. Cass. 9 settembre 2004, n. 18181; Cass. 18 dicembre 1999, n. 14287; Cass. 21 giugno 1996, n. 5773; Cass. 28 marzo 1996, n. 2843), mediante la pattuizione di un’autonoma obbligazione (Cass. 24 luglio 2014, n. 16963; Cass. 19 luglio 2007, n. 16031; Cass. 13 dicembre 2006, n. 26690).
Scopo della clausola e’, appunto, quello di tenere indenne l’acquirente da eventuali sopravvenienze passive, che si siano concretizzate dopo la cessione azionaria ed in riferimento, secondo il testo usuale di tali clausole, alla percentuale compravenduta.
4.2. – Questa Corte ha già osservato come l’interpretazione del contratto costituisca giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, incensurabile in cassazione se non per vizi attinenti ai criteri legali di ermeneutica o ad una motivazione carente o radicalmente contraddittoria (tra le tante, Cass. 12 maggio 2020, n. 8810; Cass. 22 gennaio 2019, n. 1547; Cass. 8 aprile 2016, n. 6924; Cass. 15 aprile 2013, n. 9070; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 13 febbraio 2002, n. 2074).
Ne’ la parte, che con il ricorso per cassazione intenda denunciare la violazione delle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. può limitarsi alla mera contrapposizione tra la propria interpretazione e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. 20 febbraio 2020, n. 4460; Cass. 28 ottobre 2016, n. 21888; Cass. 15 novembre 2013, n. 25728; Cass. 20 novembre 2009, n. 24539).
Ne deriva che non sono utilmente deducibili in sede di legittimità errores in iudicando, che si risolvano nella mera denuncia della violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., occorrendo invece che tale denuncia specifichi in qual modo detto giudice, nel ricostruire la portata degli accordi delle parti, abbia deviato dal canone interpretativo che si assume violato.
Ma resta fermo che le norme che governano l’interpretazione contrattuale sono regole di diritto: e proprio dalla corretta interpretazione del testo dipendono la qualificazione del contratto, la sua validità ed efficacia, la valutazione del dedotto inadempimento ed, in definitiva, ogni vicenda giuridica del negozio (cfr. Cass. 5 luglio 2019, n. 18182).
Proprio la violazione delle regole di interpretazione negoziale, pertanto, può essere sottoposta al giudice di legittimità, ove inappropriatamente applicate od in presenza di una motivazione cd. apparente o intrinsecamente così contraddittoria da risultare mancante.
Resta parimenti fermo che, per il necessario rispetto dell’art. 366 c.p.c., anche tale ordine di censure deve essere specifico, in quanto la denuncia della violazione, con il ricorso per cassazione, degli artt. 1362 c.c. e ss. deve essere accompagnata dalla trascrizione delle clausole all’esame, al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa (Cass. 13 maggio 2016, n. 9888; Cass. 4 giugno 2010, n. 13587).
4.3. – Nell’interpretazione del contratto, dall’originario richiamo assoluto al principio in claris non fit interpretatio – secondo cui l’interprete dovrebbe arrestare la propria attività interpretativa alla lettera del negozio, ove questa appaia univoca – si è progressivamente affermato il principio secondo cui è necessario pur sempre indagare sulle reali intenzioni delle parti e sull’effettiva portata delle clausole all’interno del testo, con valorizzazione dei canoni degli artt. 1362 c.c., comma 2 e art. 1363 c.c., al fine di consentire l’accertamento del significato dell’accordo, in coerenza con la relativa ragione pratica o causa concreta.
In contrapposizione ad un meno recente orientamento, secondo cui una lettera chiara impedirebbe ogni ricorso ad altri criteri complementari (cfr., tutte in materia di lavoro, Cass. 16 agosto 2004, n. 15949; Cass. 22 ottobre 2003, n. 15814; Cass. 9 agosto 2003, n. 12054; Cass. 13 giugno 2003, n. 9484; Cass., 16 aprile 2002, n. 5472; 26 luglio 2001, n. 10265; 20 novembre 2000, n. 14974; 18 novembre 2000, n. 14934; 9 marzo 2000, n. 2722), questa Corte ha infatti raggiunto l’approdo secondo cui la comune volontà dei contraenti va ricostruita sulla scorta di due elementi principali, il senso letterale delle espressioni usate e la causa concreta perseguita dal regolamento negoziale, come emergente dalla condotta delle parti e dall’intero testo; tali criteri sono, dunque, destinati ad integrarsi a vicenda, dovendo i mezzi di interpretazione fondersi ed armonizzarsi nell’apprezzamento dell’atto negoziale (cfr., in motiv., Cass. 17 ottobre 2019, n. 26461; Cass. 5 agosto 2019, n. 20893; Cass. 6 luglio 2018, n. 17718; Cass. 4 luglio 2018, n. 17500; Cass. 19 marzo 2018, n. 6675; Cass. 28 marzo 2017, n. 7927; Cass. 19 dicembre 2016, n. 26191; Cass. 22 novembre 2016, n. 23701; Cass. 13 marzo 2015, n. 5102; Cass. 9 dicembre 2014, n. 25840; Cass. 3 giugno 2014, n. 12360; Cass. 8 marzo 2007, n. 5287; ma, già prima, v. Cass. 23 agosto 2003, n. 12389).
Dunque, certamente, la lettera dell’accordo resta primaria, ma essa si affianca ai criteri della valorizzazione dei complessivi testo e senso dell’accordo: sebbene l’elemento letterale sia certo centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, esso deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, di quello funzionale, che attribuisce rilievo alla “ragione pratica” del contratto, in conformità agli interessi che le parti hanno inteso tutelare mediante la stipulazione negoziale.
Nel compiere questa esegesi negoziale, pertanto, il giudice, alla luce del principio enunciato dall’art. 1363 c.c., non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del senso letterale delle parole, poiché anche questo va necessariamente riferito all’intero testo della dichiarazione negoziale, di modo che le varie espressioni che in essa figurano siano coordinate fra loro e ricondotte ad armonica unità e concordanza (Cass. 30 gennaio 2018, n. 2267; e v. Cass. 5 agosto 2019, n. 20893, non massimata); anche quando il significato letterale del contratto sia apparentemente chiaro il giudicante, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, deve verificare se quest’ultimo sia coerente con la causa del contratto e con le dichiarate intenzioni delle parti (Cass. 9dicembre 2014, n. 25840).
Il fine della ricerca ermeneutica è il significato oggettivo del testo; onde la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione del testo (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi fra loro legati da un rapporto di implicazione, necessario al procedimento ermeneutico.
4.4. – Il ricorso ai criteri d’interpretazione soggettiva, di cui agli artt. 1366 e 1369 c.c., dal suo canto mira ad escludere – mediante comportamento improntato a lealtà ed a salvaguardia dell’altrui interesse – interpretazioni cavillose deponenti per un significato in contrasto con gli interessi che le parti hanno voluto tutelare mediante la stipulazione negoziale (Cass. 19 marzo 2018, n. 6675; Cass. 28 marzo 2017, n. 7927).
Ma se il canone della buona fede oggettiva, in particolare, resta importante, dovendo il contratto intendersi secondo ciò che il destinatario possa ragionevolmente attendersi, esso però non può essere utilizzato per offrire una soluzione equitativa della controversia, addirittura svincolata dalla scrupolosa applicazione degli altri criteri.
4.5. – Nella specie, la corte territoriale non ha fatto corretta applicazione delle norme positive, avendo appunto utilizzato il criterio della buona fede, di cui all’art. 1366 c.c., per offrire una valutazione che, in realtà, ha finito per risolvere in via equitativa la controversia, in violazione dei criteri ermeneutici invocati dalla parte ricorrente.
Nella motivazione della sentenza impugnata, invero, non risulta chiaro come il giudice del gravame abbia proceduto a ricercare la comune volontà delle parti.
In particolare, non viene in nessun modo spiegato come possa attribuirsi alle espressioni utilizzate nella clausola di garanzia, concernente “eventuali sopravvenienze passive” che “restano a totale ed esclusivo carico dei cedenti”, il significato di includervi solo eventi affatto ignoti al momento della conclusione dell’accordo; né la sentenza menziona l’eventuale non univocità della clausola, altri patti ad essa contrari o l’espressa esclusione convenzionale di debiti noti nella loro eziologia, oppure mostra di aver ricercato il senso complessivo dell’accordo o la ragion pratica, vuoi della clausola stessa, vuoi dell’accordo nel suo insieme.
Non integra, del pari, una motivazione effettiva della sentenza impugnata quel passaggio argomentativo, nel quale si afferma che, senz’altro, di detta indeterminata ed indeterminabile posta passiva le parti tennero conto nel fissare il corrispettivo dell’alienazione. Invero, se il debito risarcitorio a carico della società per l’increscioso evento non era, al momento della stipula del negozio, né esistente, né tantomeno quantificabile in ragione della sua totale incertezza nell’an e nel quantum – come è pacifico tra le parti e come lo stesso c.t.u. aveva affermato, onde, ricorda la sentenza impugnata, il consulente escluse la possibilità e la necessità di indicare in bilancio tale posta passiva (cfr. art. 2424-bis c.c., comma 3) – non si comprende allora il ragionamento della corte territoriale, laddove ritiene che tuttavia le parti lo inclusero nel prezzo.
La pronuncia della corte territoriale appare, pertanto, del tutto apodittica nel richiamo alla buona fede interpretativa: il quale, però, non costituisce un usbergo dato al giudice per offrire interpretazioni arbitrarie o di pura equità al testo contrattuale; restando, dunque, la sentenza oscura e contraddittoria, laddove trae dalla pacifica preesistenza all’accordo dell’evento increscioso accaduto nel poliambulatorio della società, dunque sicuramente noto a tutte le parti, anche motivo di concludere che il relativo debito – benché solo in seguito accertato giudizialmente in capo alla società – sia stato certamente considerato dalle parti già ai fini della determinazione del prezzo e, quindi, escluso di contro dalla garanzia per le sopravvenienze.
Non viene affatto chiarito infatti – di là del generico ed astratto richiamo alla buona fede interpretativa – come dalla lettura della clausola contrattuale di garanzia, di per sé omnicomprensiva, potesse trarsi l’esclusione del debito per cui è causa; laddove, al contrario, il testo della clausola non avrebbe potuto essere interpretato in modo avulso dal contesto negoziale, ma avrebbe dovuto essere riferito ad ogni altra clausola idonea a chiarire il senso complessivo dell’accordo ed alla luce della funzione pratica di essa, volta a tenere indenne l’acquirente da ogni debito gravante sulla società afferente al periodo pregresso.
5. – Il terzo motivo è inammissibile, in quanto si appunta sopra una motivazione resa ad abundantiam della sentenza impugnata: la quale, dopo aver ritenuto inoperante la garanzia, ha anche aggiunto come, quando pure essa fosse stata efficace, sarebbe comunque mancata la prova del credito preteso.
6. – Il quarto motivo è assorbito, attenendo a profilo istruttorio da rivalutare per intero dalla corte del merito.
7. – Il ricorso incidentale è assorbito.
8. – In accoglimento dei motivi predetti, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, la quale è chiamata a stabilire – tenuto conto delle espressioni usate nella clausola di garanzia, dell’esame complessivo dell’atto e della funzione dalla clausola sulla copertura dalle sopravvenienze nella compravendita delle partecipazioni sociali – se il debito per cui è causa, accertato dopo la cessione a carico della società ed attribuibile a causa eziologica radicata in eventi occorsi prima della vendita, sia coperto, in proporzione alle quote cedute, dalla predetta clausola di garanzia negoziale.
Ad essa si demanda anche la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo, il secondo e il quinto motivo del ricorso principale, inammissibile il terzo, assorbito il quarto e il ricorso incidentale; cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021
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