Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21242 del 23/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9269/2017 proposto da:

M.A., Finionica S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, Via Felice Grossi Gondi n. 62, presso lo Studio Legale Foti, rappresentati e difesi dall’avvocato Abiuso Gabriella, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via di San Valentino n. 21, presso lo studio dell’avvocato Carbonetti Francesco, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Carbonetti Fabrizio, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 207/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 02/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/03/2021 dal cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato in data imprecisata (da entrambe le parti e dalla sentenza impugnata), M.A., M.C. e Finionica s.r.l. convennero in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., chiedendo la rescissione per lesione, ai sensi dell’art. 1448 c.c., del contratto di compravendita delle azioni rappresentative del 68% del capitale sociale della Banca Lezzi & M. s.p.a., concluse tra gli attori e la Banca del Salento s.p.a. (in seguito incorporata nella suddetta banca) il 7 luglio 1995, con la condanna della convenuta alla restituzione delle azioni medesime.

In relazione al mancato rispetto del diritto di prelazione nella suddetta compravendita, peraltro, intervenne giudicato in altro giudizio, conclusosi con sentenza di declaratoria di nullità del contratto, pronunciata dalla Corte d’appello di Lecce il 16 maggio 2001; tale sentenza dichiarò, altresì, nulla la deliberazione di fusione per incorporazione della Banca Lezzi & M. s.p.a. nella controllante Banca del Salento s.p.a.

Pertanto, con distinto atto di citazione notificato il 2 dicembre 2002, i medesimi attori convennero in giudizio la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., incorporante la Banca 121 s.p.a., denominazione nelle more assunta dalla Banca del Salento s.p.a., ponendo ulteriori domande, fra cui (per quanto ancora rileva) la condanna della convenuta al risarcimento del danno: a) per la mancata disponibilità delle azioni dal momento della cessione a quello della restituzione o, in subordine, la consegna del corrispondente proporzionale numero di azioni della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. in cui si erano convertite le azioni cedute, o, infine, dell’equivalente in denaro; b) alla vita di relazione; c) derivante dall’esecuzione della deliberazione di fusione dichiarata nulla.

Riuniti i due giudizi, il Tribunale di Lecce, con sentenza del 14 febbraio 2011, dopo aver rilevato il sopravvenuto giudicato esterno relativo alla nullità della vendita, come pure della deliberazione di fusione della Banca Lezzi & M. s.p.a. nella controllante Banca del Salento s.p.a., dichiarò il difetto d’interesse sulla domanda di rescissione e respinse la domanda di restituzione dei titoli, dichiarando “compensati tra le parti i crediti derivanti dagli obblighi restitutori conseguenti alla declaratoria di nullità del contratto compravendita di titoli”, rigettando le domande di risarcimento del danno e compensando le spese processuali fra le parti.

La Corte d’appello di Lecce con sentenza del 2 marzo 2016 ha respinto gli appelli, principali ed incidentali, condannando gli appellanti al pagamento delle spese di lite in favore della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.

Avverso questa sentenza propongono ricorso per cassazione M.A. e la Finionica s.r.l, affidato a sei motivi.

Si difende con controricorso la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., che ha depositato anche la memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I sei motivi del ricorso sono così articolati:

1) nullità della sentenza “per travisamento del fatto”, violazione e falsa applicazione degli artt. 2033,2037 e 2038 c.c., oltre ad “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: infatti, la corte territoriale ha ritenuto applicabile l’art. 2033 c.c. agli obblighi restitutori reciproci fra le parti, laddove invece solo l’acquirente compie un “pagamento”, ma non l’alienante, cui si possono applicare solo gli artt. 2037 e 2038 c.c.; l’intervenuta fusione implica “la trasformazione delle azioni della società originaria acquirente in azioni di altra società che quella ha incorporato” e ciò integra la nozione di “alienazione” ex art. 2038 c.c.; erra la corte territoriale a qualificare come azione di arricchimento senza causa quella volta ad ottenere dalla controparte quanto ricevuto, trattandosi sempre di un obbligo restitutorio del corrispettivo così conseguito;

2) nullità della sentenza “per travisamento del fatto”, “violazione e falsa applicazione di legge”, “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: la corte territoriale ha negato il diritto degli attori di ricevere dalla Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. un quantitativo di azioni della medesima banca, di valore corrispondente alle azioni oggetto dell’originaria compravendita; il motivo richiama gli argomenti contenuti nell’atto di appello, chiedendo alla Corte di adattarli “mutatis mutandis” al giudizio di legittimità, aggiungendo solo come sia ben possibile ordinare all’incorporante la restituzione di un numero di proprie azioni di pari valore “secondo il tasso di concambio” di quelle compravendute;

3) nullità della sentenza “per travisamento del fatto”, “violazione e falsa applicazione di legge”, “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: la corte territoriale ha errato nel ritenere equivalenti le reciproche obbligazioni restitutorie, per le ragioni indicate nell’atto di appello, che i ricorrenti “reiterano e fanno proprie anche in questa sede, e dunque esse sono da intendersi rivolte anche alla sentenza di appello”, chiedendo quindi alla Corte di adattarli “mutatis mutandis” al giudizio di legittimità; a ciò, aggiungono solo che la corte territoriale ha errato nel ritenere il valore delle azioni pari al prezzo pagato, ed, anzi, un poco inferiore, come accertato dalla Ernst & Young Corporate Finance s.p.a., in quanto occorreva considerare il premio di maggioranza, fatto integrativo del valore stesso e non costituente domanda nuova; ha altresì errato, violando l’art. 345 c.p.c., nel ritenere nuovo il documento prodotto in appello, consistente in una perizia di parte, redatta con i tempi a ciò necessari, laddove non veritieri sono i risultati della c.t.u. espletata in primo grado, e nel non disporre una nuova c.t.u.; inoltre, il debito restitutorio dell’alienante è di valuta, mentre quello dell’acquirente, laddove non possa restituire la res, è di valore, onde andava calcolata la rivalutazione monetaria e non rileva che i ricorrenti fossero in possesso della somma sin dalla data della compravendita;

4) nullità della sentenza “per travisamento del fatto”, “violazione e falsa applicazione di legge”, “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: la corte territoriale non ha motivato il rigetto della domanda risarcitoria, onde la motivazione è assente, per le ragioni esposte nell’atto di appello, quali “deduzioni e contestazioni” che “i ricorrenti richiamano, reiterano e fanno proprie anche in questa sede, e dunque esse sono da intendersi rivolte anche alla sentenza di appello”, chiedendo alla Corte di adattarle “mutatis mutandis” al giudizio di legittimità;

5) “violazione e falsa applicazione di legge”, “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: la corte territoriale avrebbe dovuto accogliere le istanze istruttorie, come indicato nell’atto di appello, nuovamente chiedendo il motivo alla S.C. di recepire quei rilievi;

6) violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., oltre ad “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in quanto la corte territoriale non ha compensato le spese di appello, sebbene abbia respinto sia l’appello principale, sia l’incidentale, con difetto assoluto di motivazione.

2. – La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che, una volta dichiarata la nullità della compravendita azionaria per violazione del diritto di prelazione da parte degli alienanti (in forza di giudicato esterno), ne residuano i reciproci obblighi restitutori, ai sensi dell’art. 2033 c.c. – reputato inapplicabile l’art. 2038 c.c., perché l’azione non è res – aventi ad oggetto da una parte le azioni e, dall’altra, il prezzo pagato.

Peraltro, non essendo più possibile la restituzione delle azioni in natura – in ragione dell’operata fusione in altra società incorporante, né essendo giuridicamente possibile la “restituzione” di azioni della incorporante stessa, quali titoli nuovi ed originari – deve procedersi alla determinazione del loro valore di mercato al momento della compravendita, indicato dalla Ernst & Young Corporate Finance s.p.a., senza contestazioni delle parti, in misura di poco inferiore al prezzo pagato; né, aggiunge la corte, rileva il c.d. premio di maggioranza, comunque questione nuova introdotta solo in appello.

Ha concluso dunque al riguardo che, come già opinato dal primo giudice, i due obblighi reciproci trovino tra loro compensazione, dovendo reputarsi sostanzialmente di pari importo il prezzo pagato ed il valore delle azioni restituende, senza nessuna rivalutazione monetaria di quest’ultimo, essendo stato disponibile per gli acquirenti il prezzo ricevuto sin dal momento della compravendita; mentre la pretesa di restituzione di un maggior importo rispetto al prezzo, relativo a quanto ottenuto dalla controparte (c.d. surplus), è qualificabile come domanda di arricchimento senza causa, non proposta.

Quanto alla domanda di risarcimento del danno – patrimoniale, non patrimoniale, biologico ed esistenziale – ha ritenuto che ne manchi la prova, che non sussista il danno in re ipsa per il mancato possesso delle azioni liberamente cedute e che la nullità sia derivata, in definitiva, dallo stesso fatto dei venditori, i quali violarono la clausola statutaria di prelazione.

3. – Tutti i motivi sono affetti, in tutto od in parte, dal medesimo vizio di inammissibilità, nella parte in cui denunziano “nullità per travisamento del fatto” ed “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”: posto che nessuna delle due censure si inquadra nel disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, onde la relativa declaratoria di inammissibilità si impone.

E’ noto, invero, che, secondo i principi consolidati enunciati da questa Corte, il ricorso per cassazione è ancorato ad uno dei cinque vizi del provvedimento impugnato, previsti dall’art. 360 c.p.c., cui ciascuna doglianza deve poter essere agevolmente ricondotta; la legge esige, altresì, l’indicazione delle norme violate ed ogni motivo deve essere autosufficiente, ossia intellegibile da solo, senza il ricorso ad elementi esterni.

Pertanto, il ricorrente ha l’onere di indicare puntualmente, a pena di inammissibilità, le norme asseritamente violate e l’esatto capo della pronunzia impugnata, prospettando altresì le argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, secondo l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (e multis: Cass., sez. un., n. 25392/2019; Cass. n. 635/2015; Cass. n. 26307/2014; Cass. n. 16038/2013; Cass. n. 22348/2007; Cass. n. 5353/2007; Cass. n. 4178/2007; Cass. n. 828/2007); ove rilevanti, devono essere indicati anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione, al fine di consentire alla Corte la corretta sussunzione del fatto nelle norme che si assumono violate o erroneamente applicate (Cass. n. 16872/2014; Cass. n. 15910/2005).

I ricorrenti, altresì, hanno censurato un vizio non più previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134: la norma, per espressa previsione dell’art. 54, comma 3D.L. n. cit., “si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (avvenuta il 12 agosto 2012).

I singoli motivi, pertanto, potranno essere esaminati solo nella parte in cui non incorrano in tale a loro comune ragione di inammissibilità.

4. – Il primo motivo, nella sua parte ammissibile, deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2033,2037 e 2038 c.c.

Si duole parte ricorrente che la corte del merito abbia applicato alla vicenda restitutoria l’art. 2033 c.c., mentre la fattispecie rilevante è quella degli artt. 2037 e 2038 c.c., presupponendo la prima disposizione unicamente un pagamento pecuniario: e sostiene che, ai sensi dell’art. 2038 c.c., gli alienanti abbiano diritto alla restituzione di tante azioni della incorporante Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., quante corrispondano al valore delle azioni compravendute, pretesa che non costituiva un’azione di arricchimento senza causa, come invece opinato dalla sentenza impugnata, ma un’azione di restituzione.

Il motivo e’, nel suo complesso, inammissibile, anche se deve sul punto correggersi parzialmente la motivazione della corte del merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

4.1. – Erra, invero, la corte territoriale laddove afferma che la disciplina del pagamento indebito avente ad oggetto la dazione di una cosa determinata, di cui agli artt. 2037 e 2038 c.c., sia inapplicabile in sé alla cessione delle azioni di società, e ciò per l’argomento che queste non sarebbero qualificabili come res.

Al contrario, l’azione di società è titolo di credito, come espressamente prevedono, a tacer d’altro, gli artt. 2346,2354,2355 e 2355-bis c.c., che discorrono di “titoli”, nel contempo prevedendo “l’utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e circolazione”.

Pertanto, essendo le azioni dei titoli di credito, esse partecipano del relativo meccanismo economico-giuridico, che permette la incorporazione nella res dei diritti afferenti, con le conseguenze che ne derivano: dalle modalità di circolazione alla costituzione dei diritti reali sulle stesse, dall’ammortamento al principio del possesso vale titolo, e così via (cfr., per le varie evenienze, Cass. 20 gennaio 2017, n. 1588; Cass. 24 giugno 2008, n. 17088; Cass.17 marzo 1989, n. 1319; Cass. 6 aprile 1982, n. 2103); donde l’applicazione, per tale profilo, delle norme in tema di disciplina dell’indebito concernenti la consegna di cose determinate.

Dunque, ferma la disposizione generale dell’art. 2033 c.c. in tema di indebito oggettivo – secondo cui chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato – anche alla restituzione di azioni di società trovano applicazione, trattandosi di cosa determinata, gli artt. 2037 e 2038 c.c.

4.2. – Da ciò non deriva, tuttavia, nella specie il diritto dei ricorrenti di ricevere in consegna, a titolo di adempimento dell’obbligazione di restituzione dell’indebito gravante sulla controparte, altrettante azioni, o comunque azioni di pari valore, rappresentative del capitale sociale di un diverso soggetto, la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., seconda incorporante rispetto alle azioni in origine compravendute.

4.2.1. – In punto di fatto, non è invero contestata la vicenda societaria nella specie occorsa, nella quale la Banca Lezzi & M. s.p.a., le cui azioni furono oggetto della compravendita inter partes, è stata incorporata dalla Banca del Salento s.p.a., la quale, dopo essere stata acquistata da Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., mutò la propria denominazione in Banca 121 s.p.a. e fu, in seguito, incorporata nella controllante Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.

I ricorrenti, peraltro, omettono di chiarire gli esatti termini della complessa e ripetuta operazione di fusione societaria, come era loro l’onere, anche al fine della migliore individuazione degli obblighi restitutori vantati.

4.2.2. – Giova ricordare che la fusione è l’operazione societaria in cui, secondo la definizione dell’art. 2501 c.c., viene costituita una nuova società, oppure si opera l’incorporazione di una o più società in un’altra preesistente.

Pertanto, dal momento che i soci della incorporata o fusa vedono annullate le loro partecipazioni sociali, si prevede un “rapporto di cambio” tra le azioni dell’incorporata e quelle della incorporante, da indicare nel progetto di fusione, nella relazione dell’organo amministrativo e nella relazione degli esperti (cfr. artt. 2501-ter, 2501-quinquies, 2501-sexies c.c.).

Tale rapporto consiste nella proporzione matematica fra la partecipazione del socio nella società incorporata e la partecipazione al medesimo assegnata nella società incorporante o risultante dalla fusione, operandosi il conseguente annullamento della prima, sostituita dalla seconda (la cd. conversione), onde dalla determinazione di tale rapporto dipende il valore della partecipazione finale, assegnata al socio, nella società incorporante o risultante dalla fusione (cfr. Cass. 21 luglio 2016, n. 15025; e v., di recente, Cass. 20 aprile 2020, n. 7920).

Non e’, peraltro, indispensabile sia deliberato ad opera dell’incorporante l’aumento del capitale sociale, potendo essa utilizzare altre modalità (ad esempio ove disponga già delle azioni necessarie per il concambio, oppure si proceda mediante annullamento di tutte le azioni dell’incorporante e sostituzione con altre di valore nominale inferiore o prive di valore nominale, in proporzione al rapporto di cambio determinato dagli amministratori).

In ogni caso, la c.d. conversione delle partecipazioni è elemento naturale, ma non essenziale della fusione, che non sempre è quindi accompagnata dalla determinazione di un rapporto di cambio.

Nella fusione per incorporazione di società interamente posseduta, infatti, non si determina uno scambio di partecipazioni, non avendo la società incorporata altri soci all’infuori dell’incorporante, onde manca la necessità di procedere alla determinazione del rapporto di cambio (così Cass. 28 settembre 2007, n. 20423, nel regime previgente al 1 gennaio 1995, data di entrata in vigore della L. 23 dicembre 1994, n. 724, il cui art. 27 ha introdotto il principio di neutralità fiscale delle fusioni: ciò, al fine di decidere sulla legittima iscrizione in bilancio, alla voce avviamento, del disavanzo di fusione; v. pure Cass. 22 gennaio 2013, n. 1434 e Cass. 22 gennaio 2014, n. 1233; in tal senso, già Cass. 22 novembre 2000, n. 15093).

Dalla stessa nozione di rapporto di cambio deriva, invero, la superfluità del medesimo in talune ipotesi. Nel caso più semplice, in cui l’incorporante è socia al 100% dell’incorporata, non v’e’, dunque, concambio e non vi sono differenze da concambio. L’art. 2504-ter c.c., pertanto, espressamente pone il divieto di assegnazione di azioni o quote alla società incorporante “in sostituzione di quelle delle società incorporate possedute”.

4.2.3. – Se le azioni vengono annullate, questo significa che le res in questione non esistono più: onde il fenomeno, ai fini che ci occupano, può essere assimilato al perimento della res, di cui discorre l’art. 2037 c.c.

Il regime delle restituzioni della res perita o alienata, ai sensi dell’art. 2037 c.c., comma 2 e 3, e art. 2038 c.c., mal si attaglia alle restituzioni da caducazione di contratto, né potrebbe comunque legittimare la pretesa delle ricorrenti di ottenere una cosa diversa in restituzione.

Sono note le questioni teoriche maturate al riguardo, derivanti dalla mancata previsione di una disciplina specifica per i contratti che, una volta caducati ex tunc, non costituiscano più titolo delle prestazione effettuate, con i conseguenti obblighi restitutori, cui poco si adatta la disciplina codicistica sulla buona o mala fede dell’accipiens, ai sensi degli art. 2033 c.c. e ss., essendo i contraenti soggetti che, in ogni caso, avevano diritto a quella prestazione in forza del negozio stipulato; tantomeno tale disciplina, in particolare proprio quella dell’art. 2037 c.c., commi 2 e 3 e art. 2038 c.c., si coordina con la regola generale della rimessione in pristino post contratto caducato.

Nel caso in esame, da un lato certamente il soggetto, titolare del diritto alla restituzione della cosa, neppure secondo le norme sull’indebito ex art. 2037 c.c. avrebbe diritto alla sostituzione con un’altra cosa: quali sono, a tutti gli effetti, le azioni rappresentative del capitale della società incorporante nella fusione. E’ vero, infatti, che, all’esito dell’operazione di fusione, i soci dell’incorporante ex se beneficiano dell’incremento di valore della loro partecipazione, che “incorpora” anche il valore aggiunto eventualmente apportato dal patrimonio della società incorporata: ma resta che le azioni della incorporata vengono annullate e, quindi, non esistono più, in una con l’incorporazione della società-figlia ed all’esito della complessa operazione di fusione societaria.

Dall’altro lato, l’art. 2038 c.c., nel solo caso di mala fede dell’accipiens, prevede che il solvens può “esigere il corrispettivo dell’alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo”; ma le ricorrenti, come osservato, non hanno dedotto, inammissibilmente, neppure i precisi connotati delle fusioni societarie operate, al fine di poter individuare la fattispecie rilevante in cui sussumere la vicenda.

Orbene, la corte territoriale, pur dichiarando di applicare la disciplina sul pagamento dell’indebito, non discorre di buona o mala fede; essa correttamente ritiene, in ogni caso, che non possano formare oggetto dell’obbligo restitutorio le azioni della incorporante Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. – seconda operazione di fusione che caratterizzò la vicenda, dopo l’incorporazione di Banca Lezzi & M. s.p.a. nella Banca del Salento s.p.a. – attribuendo, quindi, agli originari alienanti il diritto al controvalore delle azioni al momento dell’atto. Essa afferma che il controvalore della res al momento della vendita, come accertato dall’esperto, è dovuto in favore della parte alienante, alla luce della disciplina sulla nullità negoziale, dichiarata nel precedente giudicato, pur senza esplicitare la previsione normativa applicata: di fatto, attribuisce però all’alienante il diritto di ricevere il pieno valore della res compravenduta, non solo un importo corrispondente al comprovato arricchimento dell’accipiens, dunque facendo esattamente prevalere la regola del ripristino dello status quo ante, proprio del contratto dichiarato, come nella specie, nullo.

A fronte di tale argomentazione, i ricorrenti si limitano ad insistere nel loro diritto a ricevere, e nell’obbligo di controparte di consegnare, una cosa ormai non più esistente o una cosa affatto diversa: pretese che non sono sorrette da nessuna argomentazione giuridica nell’apodittico motivo.

Ne deriva che resta generica ed inidonea la censura proposta ad attaccare la decisione della corte distrettuale, allorché questa ha negato la fondatezza della pretesa – in nessun modo dai ricorrenti giuridicamente argomentata, tantomeno sviluppando ragionamenti sugli effetti delle operazioni straordinarie di fusione – tesa all’assegnazione ai venditori, una volta caducata la compravendita, di tante azioni della Banca seconda incorporante, che risultino dal valore corrispondente a quello dei titoli in origine compravenduti ed ormai annullati in virtù della duplice ed intangibile fusione sopravvenuta delle società coinvolte (art. 2504-quater c.c.).

5. – Il secondo, il quarto ed il quinto motivo sono affetti tutti da radicale vizio di inammissibilità, consistente nella tecnica redazionale del tutto inadeguata.

Essi, invero, in luogo che proporre censure specifiche alla sentenza impugnata, si limitano a riprodurre le difese del precedente grado, demandando alla S.C. di cogliere fior da fiore ciò che essa potrà reputare utile ad accogliere il ricorso (“mutatis mutandis”).

L’assoluta assenza di motivi che abbiano i connotati di cui all’art. 360 c.p.c., anche in ragione della grave violazione in tal modo operata del precetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 induce alla declaratoria di inammissibilità.

6. – Il terzo motivo è del pari inammissibile, per tutte le ragioni sin qui esposte (cfr. p.p. 3 e 5); potendo esso reputarsi costituire un motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1 solo per la parte in cui viene dedotta la violazione dell’art. 345 c.p.c., per avere la corte territoriale qualificato come nuova la produzione in appello di una perizia di parte, che gli appellanti avrebbero inteso ivi depositare, e ritenuto di non disporre una nuova c.t.u..

Peraltro, entrambe le deduzioni sono manifestamente inammissibili: la prima, in quanto il solo argomento speso dalla parte ricorrente, che in tal modo ricade nell’aspecificità ex art. 366 c.p.c., consiste nella necessità di disporre di molto tempo al fine di una valutazione peritale, senza che essa spenda, invece, neppure una parola per illustrare l’integrazione della fattispecie dell’art. 345 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, il quale ammetteva le prove nuove indispensabili nella valutazione del collegio o non prodotte per causa non imputabile; la seconda, in quanto costituisce principio consolidato la piena discrezionalità del giudice del merito nel disporre una c.t.u., pur ove sollecitata in tal senso da una parte, con conseguente inammissibilità della deduzione, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., comma 1.

7. – Il sesto motivo – per la parte in cui, ancora, esso non richiama la disposizione abrogata del previgente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – è manifestamente inammissibile ex art. 360-bis c.p.c.

Lamentano i ricorrenti l’omesso uso, da parte della corte d’appello, del potere di compensazione delle spese di lite, che sono state liquidate a carico degli appellanti, sebbene anche l’appello incidentale sia stato respinto, avendo la corte del merito operato riferimento alla soccombenza prevalente degli appellanti.

Tuttavia, anche questo motivo non tiene conto della giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui il potere di compensare o no le spese di lite, ravvisandone le ragioni, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. 26 aprile 2019, n. 11329; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24718).

8. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15% sui compensi ed agli accessori di legge.

Ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021

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