LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRO Massimo – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9539/2020 R.G. proposto da:
T.I., rappresentato e difeso dall’Avv. Immacolata Marra, con domicilio eletto in Roma, viale A. Manzoni, n. 81, presso lo studio dell’Avv. Antonella Consolo;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di Salerno depositato il 27 gennaio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 luglio 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.
FATTO E DIRITTO
Rilevato che T.I., cittadino del Mali, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, illustrati anche con memoria, avverso il decreto del 27 gennaio 2020, con cui il Tribunale di Salerno ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;
che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
CONSIDERATO
che:
e’ inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);
l’infondatezza delle censure proposte dal ricorrente, giustificando il rigetto del ricorso, in applicazione del criterio della ragione più liquida, esclude la necessità di soffermarsi, in questa sede, sulla questione concernente l’invalidità della procura ad litem per mancanza di certificazione della data di rilascio, segnalata nella proposta del Relatore in conformità ad una recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 1/06/2021, n. 15177), seguita dalla rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, introdotto dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46 (cfr. Cass., Sez. III, 23/06/2021, n. 17970);
con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, e art. 19, del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, e art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19 e degli artt. 2 e 117 Cost., censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria sulla base della medesima valutazione compiuta in riferimento a quella di riconoscimento della protezione sussidiaria, senza acquisire informazioni in ordine al rispetto dei diritti fondamentali nel suo Paese di origine, in relazione alle condizioni di vulnerabilità personale da lui prospettate, e segnatamente alla perdita di ogni riferimento sociale, familiare ed affettivo in conseguenza dell’espatrio, alle violenze fisiche e psichiche subìte durante il soggiorno in Libia ed all’inserimento sociale e lavorativo raggiunto in Italia;
con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, degli artt. 3, 8 e 13 della CEDU e degli artt. 2 e 117 Cost., ribadendo che, nell’escludere la sussistenza di una condizione di vulnerabilità personale, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, il decreto impugnato ha omesso di valutare le violenze fisiche e psichiche da lui subite durante il soggiorno in Libia;
i due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, sono infondati;
ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, il decreto impugnato ha infatti rilevato che il ricorrente non aveva allegato ragioni di particolare vulnerabilità soggettiva né gravi ed oggettivi motivi di carattere umanitario, diversi ed ulteriori rispetto a quelli emergenti dalla vicenda personale da lui riferita a sostegno delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e ritenuta inattendibile;
tale rilievo si pone perfettamente in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, pur postulando una condizione di vulnerabilità personale, la cui configurabilità deve costituire oggetto di una valutazione autonoma rispetto a quella dei presupposti richiesti per l’applicazione delle altre forme di protezione, non richiede specifici approfondimenti istruttori da parte del giudice di merito allorquando quest’ultimo abbia già escluso la credibilità della vicenda personale allegata dal richiedente, e non siano state fatte valere ragioni di vulnerabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte a sostegno della domanda di riconoscimento delle forme di protezione c.d. maggiori (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29624; Cass., Sez. I, 7/08/ 2019, nn. 21123 e 21129);
alla stregua del predetto principio, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, la ritenuta inattendibilità della vicenda personale e familiare narrata a sostegno della domanda, rimasta incensurata, deve ritenersi nella specie sufficiente a giustificare l’omissione di una distinta valutazione della stessa ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, mentre la mancata considerazione delle violenze subite durante il soggiorno in Libia trova la sua giustificazione nella genericità della relativa allegazione, non accompagnata dall’indicazione delle conseguenze traumatiche asserita-mente derivanti dai maltrattamenti subiti;
come ripetutamente precisato da questa Corte, la protezione umanitaria non può essere infatti accordata automaticamente per il solo fatto che il richiedente abbia subito violenze o maltrattamenti nel paese di transito, dal momento che, dovendo il rimpatrio essere disposto verso il Paese di origine (o verso quello di dimora abituale, ove si tratti di un apolide), è in riferimento a quest’ultimo che occorre accertare l’esposizione del richiedente al rischio di persecuzioni o danni gravi (cfr. Cass., Sez. III, 5/06/2020, n. 10835; Cass., Sez. I, 6/12/2018, n. 31676; Cass., Sez. VI, 20/11/2018, n. 29875);
conseguentemente, l’allegazione di gravi violazione dei diritti umani in atto in un paese di transito in tanto può assumere rilievo, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, in quanto risulti dedotto e dimostrato che tali violenze, per la loro gravità o per la durevolezza dei loro effetti, si sono tradotte in una condizione di vulnerabilità personale, nel senso inteso dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 (cfr. Cass., Sez. I, 16/12/2020, n. 28781; 3/07/2020, n. 13758);
l’integrazione sociale e lavorativa raggiunta dal richiedente nel territorio italiano non è infine configurabile come una condizione di vulnerabilità personale idonea a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria, costituendo invece uno dei due termini da porre a confronto nell’ambito della valutazione richiesta ai fini dell’applicazione della predetta misura, la cui isolata e astratta considerazione, in difetto di attendibili allegazioni relative alla situazione personale e familiare in cui il richiedente versava prima di allontanarsi dal Paese di origine, deve ritenersi insufficiente a far emergere la grave violazione dei diritti fondamentali asseritamente conseguente al rimpatrio (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/2019, n. 29459; Cass., Sez. II, 17/07/2020, n. 15319; Cass., Sez. I, 23/05/2018, n. 4455);
con il terzo motivo il ricorrente censura il decreto impugnato per aver escluso il diritto alla protezione, in considerazione dell’esistenza di una situazione di grave pericolo limitata a una parte soltanto del suo Paese di origine e della conseguente possibilità di trasferirsi in una zona più sicura, senza tener conto del mancato recepimento nel nostro ordinamento dell’art. 8 della direttiva 2004/83/CE;
il motivo è inammissibile, in quanto, presupponendo che il riconoscimento della protezione sia stato negato in virtù dell’esistenza di aree del Mali nelle quali, a differenza di quanto accade nella regione di origine del ricorrente, non si registra una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato, non attinge la ratio decidendi del decreto impugnato, il quale, nell’escludere la configurabilità della predetta situazione, ha fatto riferimento all’area meridionale del Paese, e segnatamente alla regione di Keyes, dalla quale il ricorrente ha dichiarato di provenire;
il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dello stesso art. 13 comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021