Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.21251 del 23/07/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12258/2020 R.G. proposto da:

I.W., rappresentato e difeso dall’Avv. Donatella Laureti, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di L’Aquila depositato il 28 gennaio 2020.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 15 luglio 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che I.W., cittadino del Pakistan, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso il decreto del 28 gennaio 2020, con cui il Tribunale di L’Aquila ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;

che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

CONSIDERATO

che:

e’ inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in Camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);

l’infondatezza delle censure proposte dal ricorrente, giustificando il rigetto del ricorso, in applicazione del criterio della ragione più liquida, esclude la necessità di soffermarsi, in questa sede, sulla questione concernente l’invalidità della procura ad litem per mancanza di certificazione della data di rilascio, segnalata nella proposta del Relatore in conformità ad una recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass., Sez. Un., 1/06/2021, n. 15177), seguita dalla rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, introdotto dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46 (cfr. Cass., Sez. III, 23/06/2021, n. 17970);

con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3, 5, 6 e 7, e della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, artt. 1 e 2, anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando il decreto impugnato per aver ritenuto non credibile la vicenda personale allegata a sostegno della domanda, senza esaminare la documentazione da lui prodotta, e per aver escluso la configurabilità di una violazione dei diritti umani, in relazione alle persecuzioni da lui subìte per motivi politici, in virtù della mera affermazione secondo cui egli avrebbe potuto sottrarvisi cessando di svolgere attività politica;

il motivo è inammissibile;

nella parte riflettente l’omesso esame della documentazione prodotta, le censure proposte dal ricorrente risultano infatti prive di specificità, non essendo accompagnate dall’indicazione dei documenti trascurati, dalla trascrizione delle parti salienti del loro contenuto e dalla precisazione della fase del giudizio di merito in cui sono stati prodotti (cfr. Cass., Sez. I, 10/12/ 2020, n. 28184; 7/03/2018, n. 5478; Cass., Sez. V, 15/07/2015, n. 14784);

l’omessa o inadeguata valutazione di elementi di prova non è d’altronde deducibile come motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, a tal fine occorrendo la pretermissione di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto del dibattito processuale e risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 3/10/2018, n. 24035);

nella parte concernente il giudizio d’inattendibilità espresso in ordine alla vicenda personale allegata a sostegno della domanda, le censure non attingono invece la ratio decidendi del decreto impugnato, il quale ha dato atto dell’abbandono dell’attività politica da parte del ricorrente, in collegamento con il tempo trascorso dall’epoca dei fatti narrati e con l’intervenuto mutamento del quadro politico del Paese di origine, al solo scopo di evidenziare il venir meno della prospettata esposizione al rischio di persecuzione o di danno grave, rilevando per altro verso la non corrispondenza della vicenda riferita con le informazioni disponibili in ordine alla situazione politica esistente all’epoca in Pakistan e la conseguente illogicità delle ragioni addotte dal ricorrente a sostegno della decisione di espatriare;

con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 6, 7 e art. 14, lett. b) e c), e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e art. 27, comma 1-bis, osservano che, nell’escludere la configurabilità di un pericolo individuale per la vita o la persona derivante da una situazione di violenza indiscriminata, a causa dell’insussistenza di un conflitto armato nella sua regione di provenienza, il Tribunale ha omesso di valutare tutti i fatti pertinenti e la documentazione prodotta, avendo richiamato fonti d’informazione non aggiornate e non avendo tenuto conto di altre più recenti e di precedenti giurisprudenziali, attestanti il clima d’insicurezza esistente nel ***** pakistano, a causa della attività di gruppi terroristici e dell’incapacità delle forze governative di garantire la sicurezza pubblica;

nel valutare la credibilità delle dichiarazioni da lui rese, il Tribunale ha omesso di prendere in esame la documentazione da lui prodotta e di acquisire informazioni specifiche ed attuali in ordine al suo Paese di origine, non avendo tenuto conto delle persecuzioni in atto nel Pakistan e dell’incapacità delle forze dell’ordine e della magistratura di garantire adeguata tutela ai diritti fondamentali;

nell’escludere la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 14 cit., lett. b), il decreto impugnato non ha considerato che gli atti di persecuzione o il danno grave che giustificano il riconoscimento della protezione possono essere ascrivibili anche a soggetti non statuali, avendo omesso di verificare se le istituzioni fossero in grado di tutelare la vita e i diritti fondamentali delle persone;

il motivo è infondato;

ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), interpretato in conformità della giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 30/01/2014, in causa C-285/12), il conflitto armato interno che giustifica il riconoscimento della protezione sussidiaria, in quanto tale da comportare una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona, ricorre infatti in situazioni nelle quali le forze armate governative di uno Stato si scontrino con uno o più gruppi armati antagonisti, o nelle quali due o più gruppi armati si contendano tra loro il controllo militare di un dato territorio, a condizione che i contrasti ascendano ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da indurre fondatamente a ritenere che un civile, se rinviato nella regione di provenienza, resti esposto al rischio descritto dalla norma per la sua sola presenza sul territorio, avuto riguardo all’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili o direttamente mirano ai civili, alla diffusione di tali metodi o tattiche tra le parti in conflitto, alla generalizzazione o alla localizzazione del combattimento ed al numero di civili uccisi, feriti, o sfollati a causa degli scontri (cfr. Cass., Sez. I, 2/03/2021, n. 5675; Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306).

ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria non è quindi sufficiente l’accertamento di una mera situazione d’instabilità politico-sociale o d’insicurezza, fonte di disordini e violenze anche diffuse, a men che non risulti dedotto e dimostrato che, a causa della frequenza e dell’intensità degli scontri e dell’incapacità delle forze dell’ordine di assicurare un’adeguata tutela alla popolazione estranea ai contrasti, la situazione sia completamente sfuggita al dominio delle autorità statali o delle organizzazioni che controllano il territorio;

la configurabilità della predetta situazione è stata coerentemente esclusa dal decreto impugnato attraverso il richiamo d’informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, sulla base delle quali il Tribunale ha escluso che nella regione di provenienza del ricorrente sia in atto un conflitto armato, osservando che, nonostante la situazione generale di precarietà sociale e politica e le diffuse violazioni dei diritti umani esistenti nel Pakistan, il Paese non è caratterizzato da scontri armati estesi all’intero territorio, ma solo da contrasti localizzati in alcune regioni interessate dall’attività dei gruppi terroristici di matrice islamica e da una perdurante situazione di tensione internazionale con l’India, limitata alla regione del Kashmir;

il predetto apprezzamento, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass., Sez. II, 29/10/2020, n. 23942; 15/07/2020, n. 15047; Cass., Sez. I, 21/11/ 2018, n. 30105), non può ritenersi inficiato dalle informazioni desumibili dalle fonti invocate dal ricorrente, le quali, pur confermando la gravità della situazione in atto nell’intero territorio del Pakistan con riferimento alla sicurezza pubblica, ed in particolare i pericoli derivanti dal ripetersi degli attentati terroristici, non risultano idonee ad orientare in senso diverso la decisione documentando gli sforzi compiuti dal Governo e dalle forze armate per eliminare o quanto meno contenere il predetto fenomeno;

inappropriato deve ritenersi altresì il richiamo a precedenti giurisprudenziali riguardanti cittadini pakistani ai quali, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, è stata riconosciuta la protezione sussidiaria, dal momento che i motivi della decisione in tanto possono considerarsi viziati, in quanto risultino di per sé erronei, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, e non in quanto si pongano eventualmente in contrasto con quelli addotti in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (cfr. Cass., Sez. II, 26/06/ 2017, n. 15846; Cass., Sez. lav., 17/03/1980, n. 1772);

ai fini dell’esclusione della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 14 cit., lett. b), il giudizio negativo in ordine alla credibilità soggettiva del richiedente, espresso in conformità dei criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, deve ritenersi invece sufficiente a dispensare il giudice dal compimento di approfondimenti officiosi in ordine alla situazione del Paese di origine, non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925).

con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, e del D.Lgs. n. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, rilevando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, il decreto impugnato non ha tenuto conto del quadro generale di violenza diffusa ed indiscriminata esistente in Pakistan e dell’incapacità del Governo di assicurare la tutela dei diritti fondamentali, avendo omesso di verificare se, nonostante la genericità delle dichiarazioni da lui rese, fosse configurabile una situazione di vulnerabilità idonea a giustificare l’applicazione della predetta misura;

il motivo è infondato;

correttamente, infatti, il decreto impugnato ha ritenuto sufficiente, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, il giudizio d’inattendibilità espresso in ordine alla vicenda personale riferita dal ricorrente, escludendo il proprio dovere di compiere approfondimenti ufficiosi in ordine alla situazione esistente nel suo Paese di origine, in assenza dell’attendibile allegazione di specifiche ragioni di fatto, legate alla condizione concreta ed individuale dell’ I.;

secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in favore del cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, postula un confronto tra la situazione soggettiva ed oggettiva in cui il richiedente versava prima dell’allontanamento dal Paese d’origine e il livello d’integrazione da lui raggiunto in Italia, volto a verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. Cass., Sez. I, 14/08/2020, n. 17130; 23/02/2018, n. 4455);

la natura comparativa della predetta valutazione, da condursi caso per caso e con riferimento alla situazione personale del richiedente, esclude la possibilità sia di prendere in considerazione uno solo dei due aspetti, isolatamente ed astrattamente, sia di valorizzare il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di origine, in quanto, diversamente, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il paradigma normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 28/06/2018, n. 17072);

sotto il profilo processuale, ciò comporta la necessità che la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria sia sorretta dall’attendibile allegazione di circostanze di fatto, riguardanti la vita personale e familiare del richiedente, tali da indurre a ritenere, anche alla luce della situazione politica, economica e sociale esistente nel Paese di origine, che il rimpatrio potrebbe pregiudicare la titolarità o l’esercizio di diritti fondamentali;

trattandosi di fatti costitutivi del diritto alla protezione, la relativa allegazione spetta al richiedente, in qualità di attore, non potendo l’individuazione degli stessi costituire oggetto di indagini esplorative affidate al giudice, il cui dovere di cooperazione istruttoria officiosa opera esclusivamente sul versante della prova dei fatti che giustificano la protezione, postulando pertanto l’intervenuto adempimento da parte del richiedente dell’onere posto a suo carico (cfr. Cass., Sez. 2/07/2020, n. 13573; 29/10/2018, n. 27336);

il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472