Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.3901 del 18/02/2010

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – rel. Consigliere –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11932/2005 proposto da:

S.E., *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo studio dell’avvocato DI PIERRO Nicola, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CASELLATI FRANCESCO, BRESSAN GIORGIO giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M. o M.D., *****, L.I., *****, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G.B. VICO 1, presso lo studio dell’avvocato PROSPERI MANGILI Lorenzo, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati BALDON FRANCESCO, VANGELISTI SILVIA giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

S.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2147/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, Sezione Seconda Civile, emessa il 22/06/2004, depositata il 20/12/2004; R.G.N. 146/2002.

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/12/2009 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO;

udito l’Avvocato Nicola DI PIERRO;

udito l’Avvocato Lorenzo PROSPERI MANGILLI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 22 giugno-20 dicembre 2004, la Corte di appello di Venezia rigettava l’appello principale proposto da S.E. avverso la decisione del Tribunale di Padova n. 1658 del 2001, che aveva respinto la sua domanda di riscatto del fondo agrario sito in Comune di *****, di are 13,77 venduta da S.G. a L.I., C.M. ( M.D.).

Il primo giudice aveva rigettato la domanda di riscatto, rilevando che S.E. non coltivava direttamente il proprio fondo, esercitando invece l’allevamento del bestiame e che, in ogni caso, il consulente tecnico nominato dall’ufficio aveva accertato che il fondo – del quale era stato richiesto il riscatto – aveva perduto la sua destinazione agricola anche in epoca anteriore alla compravendita.

La Corte territoriale condivideva integralmente tali conclusioni, richiamando gli accertamenti compiuti dal consulente tecnico di ufficio, che non erano stati contestati in alcun modo dall’appellante.

La Corte territoriale rigettava l’appello principale di S. E., accogliendo invece l’appello incidentale proposto da S.G., relativo alla compensazione delle spese disposta dal giudice di primo grado (che i giudici di appello ponevano a carico di S.E.).

Avverso tale decisione S.E. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da tre motivi, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso C.M. (o M.D.) e L.I..

A seguito dell’intervenuto fallimento di questi ultimi, dichiarato dal Tribunale di Padova in data 6 novembre 2008, in forza di autorizzazione 19 ottobre 2009 del giudice delegato, si è costituito il curatore del fallimento Al Magico s.n.c. di Cappeller & Lago e dei soci in proprio, C.M.D. e L.I..

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

Le conclusioni del consulente tecnico di ufficio (che aveva escluso la destinazione agricola del fondo in questione) erano state specificamente contestate in sede di appello.

Unico presupposto oggettivo richiesto dalla legge è l’esistenza di un “fondo” avente destinazione agricola, indipendentemente dalla sua estensione, dalla presenza di fabbricati rurali insistenti su di essa e dal fatto che esso sia – o meno – coltivato nell’attualità.

Valgono ad escludere la configurabilità di tale requisito la perdita dell’attitudine alla coltivazione agricola in conseguenza della irreversibile trasformazione del suolo e la presenza di una superficie così esigua da escludere ogni possibilità di sfruttamento.

Nessuna di questa ipotesi era ravvisabile nel caso di specie, nel quale non assumeva valore discriminante nè la dimensione nè la presenza o meno di fabbricati rustici, bensì unicamente l’attitudine alla coltivazione agricola, al fine della formazione – mediante l’accorpamento con il fondo confinante – di una più efficiente azienda agricola.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha deciso che, siccome la L. n. 817 del 1971, non opera, ai fini del diritto di prelazione (e di riscatto) del confinante – essendo volta a favorire la formazione della piccola e inedia proprietà contadina – alcuna discriminazione in relazione all’estensione dei fondi, sia di quello da riscattare sia di quello confinante, purchè si tratti di fondi agricoli, riconoscendo tale diritto al coltivatore diretto l. n. 590 del 1965, ex art. 31, tutti i fondi agricoli sono possibili oggetto di prelazione (e di riscatto) e tutti i fondi confinanti danno al suo proprietario-coltivatore detto diritto, con l’unico limite costituito dall’impossibilità di concreto sfruttamento o addirittura della non coltivabilità del terreno, condizioni queste da accertarsi in relazione ad entrambi i fondi, accorpati e non, con apprezzamento di fatto incensurabile in Cassazione, se correttamente motivato (v. Cass. nn. 759 del 1995, 5456 del 1991, 2610 del 1987).

Pertanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, oggetto del diritto di prelazione agraria è un “fondo rustico”, definito non in funzione di una determinata estensione o misura minima dello stesso, ma della sua suscettibilità di essere oggetto di attività produttiva agraria; sicchè il diritto di prelazione del coltivatore resta precluso soltanto nel caso che siano accertate dimensioni del fondo talmente esigue da escludere ogni possibilità di coltivazione (Cass. 2 febbraio 1995 n. 1244). j?Cass. 7769 del 2003).

Nella specie, fermi i principi sopra esposti, sui quali in definitiva sembra essere d’accordo anche il ricorrente, volgendo le proprie censure principalmente all’applicazione di detti principi al caso concreto (ed in particolare alla ritenuta perdita della destinazione agricola del fondo in questione, in conseguenza della sua minima estensione) l’indagine si sposta necessariamente nel campo del vizio di motivazione, l’unico effettivamente dedotto con il primo motivo di ricorso, non essendo le valutazioni di fatto altrimenti censurabili in questa sede di legittimità.

Con motivazione del tutto adeguata, che sfugge pertanto a tutte le censure di violazione di legge e di vizi motivazionali, i giudici di appello hanno concluso che il fondo del quale era stato chiesto il riscatto non aveva, nè al momento della decisione nè a quello della compravendita, destinazione agricola, con la conseguenza che lo stesso non poteva essere oggetto del diritto di riscatto agrario, a norma della L. n. 590 del 1965 e L. n. 817 del 1971.

Era stato lo stesso ricorrente a richiamare (pag. 14) le dimensioni assai ridotte del fondo (1000 mq.) precisando che l’area di possibile coltura, al netto del sedime degli edifici e degli ostacoli sparsi, sarebbe limitata a quella, indicata con retinatura sullo schema allegato 4, della superficie di mq. 300.

Questo rilievo appare del tutto assorbente, e tale è stato ritenuto, in effetti, dalla Corte territoriale, la quale non ha preso in esame l’altra censura contenuta nel primo motivo di appello, relativo alla sussistenza dei requisiti soggettivi in capo al riscattante (con il quale si contestava che S.E. fosse dedito esclusivamente all’allevamento del bestiame).

Sulla base della giurisprudenza di questa Corte, con autonoma “ratio decidendi” (anche essa, tuttavia, censurata dall’attuale ricorrente in sede di appello) il primo giudice aveva confermato che la qualità di coltivatore diretto, legittimante alla prelazione e al riscatto agrari, deve essere intesa in senso restrittivo ai sensi della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 31, e perciò non sussiste in capo a chi si dedica esclusivamente al governo e all’allevamento del bestiame.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 91 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

Il giudice di appello era incorso in una ulteriore violazione, condannando l’attuale ricorrente, S.E., al pagamento delle spese sostenute anche da S.G. nel corso del giudizio di primo grado – accogliendo l’appello incidentale proposto su questo punto.

S.G. (parte venditrice del fondo) era stato evocato in giudizio dagli acquirenti L.- C., i quali avevano chiesto di essere tenuti indenni in ipotesi di accoglimento delle domande formulate dal retraente, S.E..

Questo ultimo, dal canto suo, non aveva spiegato alcuna domanda nei confronti del venditore.

Con il terzo, ed ultimo, motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il capo della sentenza con il quale la Corte d’appello aveva accolto l’appello incidentale di S.G. – ad avviso del ricorrente – si pone in contrasto con l’art. 112 c.p.c., che impone al giudice di pronunciarsi entro i limiti della domanda proposta.

Il primo giudice aveva compensato integralmente le spese del giudizio tra S.G. ed i convenuti, chiamanti in causa, L. e C..

S.G. aveva impugnato il capo della sentenza, chiedendone la riforma e la contestuale condanna dei chiamanti L. e C., alla rifusione delle spese di lite.

In tal modo, conclude il ricorrente, accogliendo la impugnazione incidentale, la Corte d’appello aveva finito per pronunciare oltre i limiti segnati dalla domanda proposta.

I due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, non sono fondati.

La Corte territoriale ha spiegato l’accoglimento dell’appello incidentale proposto da S.G. richiamando il principio della soccombenza, in base a quale la liquidazione delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia, va posta a carico della parte soccombente, che abbia dato causa alla chiamata, a nulla rilevando la (eventuale) mancanza di una istanza di condanna in tal senso (Cass. 21 marzo 2008, n. 7674, n. 4958 del 2007, 19181 del 2003, 6757 del 2001). La decisione dei giudici di appello è, in tutto, conforme al consolidato indirizzo di questa Corte, secondo il quale il regolamento delle spese è consequenziale ed accessorio alla definizione del giudizio, per cui la condanna al pagamento delle spese di lite, in difetto di una esplicita dichiarazione di volontà della parte risultata vittoriosa diretta a rinunziarvi – legittimamente può essere emessa dal giudice anche di ufficio, in mancanza di una esplicita richiesta di parte (Cass. 7639 del 2003, Cass. S.U. 9859 del 1997).

Nel caso di specie, come ha sottolineato il giudice di appello, S.E. – con la proposizione della domanda di riscatto agrario – aveva dato causa al presente giudizio ed alla chiamata in causa di S.G. da parte dei convenuti, per cui, essendo stata rigettata tale domanda, egli era risultato soccombente, con la conseguenza che doveva essere condannato a rimborsare le spese del giudizio di primo grado anche a S.G..

Deve dunque escludersi non solo la violazione di norma di legge ed il vizio motivazionale, ma anche quello di ultrapetizione formulati con gli ultimi due motivi di ricorso.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese nei confronti dei due controricorrenti, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 3.200,00 (tremiladuecento/00), di cui Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari di avvocato, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2010

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