Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.30462 del 23/11/2018

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3672/2015 R.G. proposto da:

S.A., rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Vitolo, con domicilio eletto in Roma, Lungotevere Mellini n. 17;

– ricorrente –

contro

S.C.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 3426/2014, depositata il 28.7.2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11.9.2018, dal Consigliere Giuseppe Fortunato.

FATTI DI CAUSA

S.C. ha adito il tribunale di Salerno, chiedendo, con azione possessoria, la condanna di S.A. alla rimozione di una canna fumaria apposta sulla parete condominiale, posizionata lungo il muro perimetrale a circa cm 90 da una finestra dell’unità abitativa dell’attrice, in violazione della distanza dalle vedute e lesiva del decoro architettonico dell’edificio.

Il Tribunale ha accolto la domanda e l’appello proposto da S.A. è stato dichiarato inammissibile dalla Corte territoriale di Salerno, per il fatto che l’appellante si era limitato a dedurre la nullità della sentenza di primo grado senza sollevare censure di merito.

La decisione è stata cassata da questa Corte e la causa è stata riassunta dinanzi alla Corte d’appello di Napoli, che ha confermato la condanna della ricorrente alla rimozione del manufatto.

Ha ritenuto il giudice del rinvio che, essendo applicabile anche al condominio la disciplina dell’art. 907 c.c., l’opera costituisse una costruzione e che fosse stata realizzata a distanza illegale; che essa ostacolava l’esercizio della veduta obliqua, sporgendo dalla parete per la sua estensione verticale, ledendo – infine – il decoro architettonico dell’edificio, producendo un “risultato esteticamente sgradevole”.

Per la cassazione della sentenza S.A. ha proposto ricorso in due motivi.

S.C. non ha svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo censura la violazione degli artt. 890,906,907 e 1102 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, sostenendo che la canna fumaria non poteva considerarsi una costruzione agli effetti della disciplina delle distanze, costituendo un mero accessorio di un impianto, e che comunque, in ambito condominiale, l’art. 907 c.c. riceva un’applicazione residuale, nei limiti di compatibilità con le previsioni che disciplinano l’uso delle cose comuni da parte dei condomini. Lamenta, inoltre, il ricorrente che la canna fumaria non aveva leso il decoro architettonico dell’edificio, già di per sè di modesta fattura, era posta sul muro retrostante il fabbricato, non era visibile dalla strada principale ed era stata realizzata nel pieno rispetto della disciplina urbanistica locale e delle facoltà concesse ai singoli proprietari dall’art. 1102 c.c..

Il motivo è infondato.

La Corte distrettuale ha ordinato la rimozione della canna fumaria, ritenendo che essa costituisse costruzione ai sensi della normativa sulle distanze legali (e segnatamente dell’art. 907 c.c.) e che ledesse il decoro architettonico dell’edificio, poichè, per i materiali da cui era composta, per le sue dimensioni e per la sua innegabile evidenza, non si inseriva nell’aspetto armonico della facciata, producendo un “risultato esteticamente sgradevole” (cfr. sentenza pag. 10 e 11).

Pur considerando che l’opera era stata impiantata su un prospetto secondario del fabbricato, ha però stabilito che ne alterava la sagoma modificando l’aspetto del muro condominiale in violazione dell’art. 1120 c.c., essendo inoltre in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico locale, che vietava l’apposizione di canne fumarie esterne alle murature.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’appoggio di una canna fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale sostanzia una modifica della cosa comune conforme alla sua destinazione, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a sue cure e spese, ma a condizione che non impedisca l’uso paritario delle parti comuni, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico, ipotesi – quest’ultima – che si verifica non già quando si mutano le originali linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta negativamente sull’insieme dell’aspetto armonico dello stabile (Cass. 17072/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 6341/2000).

Non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, nè rileva che tale decoro sia stato già compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano pregiudicate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (Cass. 10350/2011; Cass. 14455/2009; Cass. 8830/2008; Cass. 27551/2005; Cass. 6496/1995).

Non esclude l’illegittimità dell’opera il fatto che essa sia stata apposta su una parete retrostante o in modo non visibile dalla strada principale, venendo in rilievo la violazione oggettiva dell’estetica del fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile e gli imprimono una determinata fisionomia ed una specifica identità, mentre il rilievo da attribuire al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, muta da caso a caso, e non esclude di per sè la violazione, configurabile anche riguardo ad opere interne al fabbricato, fermo che il relativo apprezzamento è rimesso al giudice di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass. 1718/2016; Cass. 851/2007; Cass. 10350/2011).

Infine, la circostanza che l’opera fosse stata autorizzata dall’amministrazione comunale non ne impediva la demolizione, poichè la regolarità dell’opera da punto di vista urbanistico non poteva incidere negativamente sui diritti degli altri condomini (Cass. 20985/2014; Cass. 1936/1977).

Non sussistendo quindi la denunciata violazione di legge e risultando l’opera comunque illegittima riguardo alla lesione del decoro architettonico, è superfluo stabilire se potesse operare in ambito condominiale la disciplina di cui all’artt. 907 c.c., così come ritenuto dalla decisione impugnata, non potendone comunque conseguire la cassazione di detta pronuncia.

2. Il secondo motivo censura la violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che siano state poste a carico del ricorrente le spese del primo giudizio di appello e quelle di legittimità, benchè la Corte di appello di Salerno avesse compensato le spese con pronuncia non impugnata e quindi passata in giudicato, mentre nel giudizio di legittimità la resistente era stata soccombente per cui le relative spese processuali andavano poste a suo carico.

Il motivo è infondato.

La pronuncia con cui la Corte di appello di Salerno ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dal ricorrente, compensando le spese di giudizio, è stata cassata da questa Corte con decisione che ha travolto anche le statuizioni sulle spese, impedendo che su tale capo si formasse il giudicato (Cass. 9783/2003).

Il giudice del rinvio, cui la causa era stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si è correttamente attenuto al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato.

In tali ipotesi non è consentito liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma deve tenersi conto dell’esito finale della lite, potendosi legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione, totale o parziale, ovvero, alla condanna della parte vittoriosa nel giudizio di cassazione (ma complessivamente soccombente) al rimborso delle spese in favore della controparte sia per il grado di legittimità che per i gradi precedenti (Cass. 15506/2018; Cass. 20289/2015; Cass. 7246/2006).

Il ricorso è quindi respinto.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva. Sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

rigetta il ricorso.

Si dà atto che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472