LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 991/2015 proposto da:
L.R.M., e P.G., rappresentati e difesi dall’avvocato TERESA DENTAMARO e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione;
– ricorrenti –
contro
T.L., LA.MA., L.L., LA.AN., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA n. 2, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentati e difesi dall’avvocato ROBERTO AMODIO;
– controricorrenti –
e contro
la.al. e L.V.L.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1518/2013 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 18/11/2013;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/09/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ex art. 703 c.p.c., depositato il 17.10.2001 L.L. e L.A. evocavano in giudizio L.R.M. e P.G., chiedendo al Tribunale di Bari di vietare la demolizione del muro perimetrale del cortile comune e lo spostamento del cancello di accesso a detto cortile, nonchè di disporre la reintegrazione o, in subordine, la manutenzione del possesso. A sostegno della loro domanda, le ricorrenti esponevano di essere comproprietarie, insieme alla sorella L.R.M., di un complesso immobiliare sito in *****, ricevuto dalle tre germane L. per successione della defunta madre te.lu.; deducevano che la sorella R.M. ed il marito P.G. erano a loro volta proprietari di un confinante fabbricato; allegavano che il cortile interno era rimasto in comune tra i vari comproprietari; lamentavano che i resistenti, in occasione di alcuni lavori di straordinaria manutenzione, avevano demolito due piccoli locali facenti parte della comunione ereditaria, avevano parzialmente abbattuto il muro di confine del cortile e avevano colmato le sottostanti cisterne e pozzo nero con il materiale di riporto; inoltre, denunziavano che i due resistenti avevano manifestato l’intenzione di spostare il cancello di accesso alla corte comune.
Resistevano alla domanda L.R.M. e P.G. allegando che tra le parti era pendente distinto giudizio, sempre dinanzi il Tribunale di Bari, per lo scioglimento della comunione ereditaria; che in quel contesto le due ricorrenti avevano riconosciuto che la sorella R.M. aveva l’uso esclusivo del bene comune; che i due locali non erano stati demoliti, ma erano crollati durante i lavori; che non si era potuto procedere alla loro ricostruzione in conseguenza di un provvedimento di sequestro relativo ad altra controversia; che il muro perimetrale, il cortile ed i sottostanti locali erano in realtà di proprietà esclusiva dei resistenti, come da loro titolo di acquisto, e comunque erano sempre stati da loro posseduti in via esclusiva; che l’interro dei locali già adibiti a cisterne e pozzo nero era stato eseguito a seguito di ordinanza sindacale. Si costituiva in giudizio anche T.L., zia delle tre germane L., allegando a sua volta di essere proprietaria di alcune porzioni affaccianti sul cortile comune e comproprietaria del predetto.
Il Tribunale concedeva l’interdetto inibendo ogni ulteriore intervento edilizio. Nel giudizio di merito interveniva anche S.G., che a sua volta si affermava comproprietario e compossessore del cortile. All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Bari riteneva ammissibili gli interventi di cui anzidetto e rilevava una contraddizione tra l’atto di acquisto esibito dai convenuti e la pianta catastale allegata in atti, che confermavano la proprietà esclusiva dei beni di cui è causa (muro e cortile), e la circostanza che la loro dante causa fosse T.R., figlia dell’originario stipite T.V., che nel dividere il compendio immobiliare tra le tre figlie Lu., L. e R. aveva espressamente indicato la sua volontà di lasciare in comune il cortile e le sue pertinenze. Il primo giudice osservava poi che le cisterne erano state interrate a seguito di ordinanza sindacale urgente del 7 agosto 2003 e riteneva sul punto cessata la materia del contendere. Accoglieva invece la domanda delle ricorrenti limitatamente al muro di confine, ordinandone la riduzione in pristino stato. Respingeva infine la domanda relativamente ai due locali diruti. Interponevano appello P.G. e L.R.M. e la Corte di Appello di Bari, con la sentenza impugnata n. 1518/2013, respingeva il primo motivo di gravame, con il quale gli appellanti avevano allegato di aver agito nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 1102 c.c., evidenziando la contraddittorietà di tale tesi rispetto a quella prospettata in prime cure, posto che i coniugi L. – P. avevano allegato in origine di essere i proprietari esclusivi del muro di confine e del cortile; ed affermando tuttavia che la reintegrazione del compossesso del cortile e del muro avrebbe potuto essere assicurata mediante consegna delle chiavi di accesso del nuovo cancello, nel frattempo spostato rispetto alla sua originaria sede.
La Corte pugliese osservava ancora, quanto alla seconda doglianza -relativa all’ammissibilità dell’intervento del S. – che in atti era stato versato atto di transazione intervenuto tra lo stesso e i due appellanti, in conseguenza del quale il primo aveva rinunciato al giudizio. Su tali considerazioni, rigettava l’impugnazione dichiarando cessata la materia del contendere nei confronti di S.G.. Propongono ricorso per la cassazione di tale decisione L.R.M. e P.G. affidandosi a due motivi.
Resistono con controricorso L.L., La.An., La.Ma. e T.L., mentre la.al. e L.V.L. sono rimasti intimati.
Ambedue le parti costituite hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano genericamente la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, allegando che la Corte di Appello avrebbe dovuto tener conto del fatto che essi avevano in animo di eseguire opere di mera conservazione del muro, che aveva subito un cedimento anche a causa della voragine apertasi nel cortile interno, ove insistevano le vecchie cisterne e il pozzo nero oggetto del reinterro di cui è causa. Ad avviso dei ricorrenti, quindi, non si era configurato alcuno spoglio, posta l’assenza della loro intenzione di pregiudicare in alcun modo l’altrui diritto di uso sulla cosa controversa. In buona fede, ritenendosi proprietari esclusivi del cortile e del muro di confine, essi avevano solo eseguito opere conservative che, di fatto, avevano anticipato quanto poi ordinato dal Comune con l’ordinanza sindacale dell’agosto 2003.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano l’omesso esame da parte della Corte territoriale delle risultanze della nota del Direttore dei Lavori geom. Pe. del 27.8.2001, con la quale costui avrebbe comunicato al Comune l’intenzione di interrare i volumi vuoti scoperti casualmente nel corso dei lavori al di sotto del cortile e in prossimità del muro di confine, nonchè del verbale della Polizia municipale del 3.9.2001, nel quale sarebbe indicato che sul muro perimetrale lato strada era stato praticato un taglio. Ad avviso dei ricorrenti, tali documenti dimostrerebbero che essi non avevano eseguito alcun intervento sul muro di confine, che era stato interessato da un crollo parziale per effetto delle voragini venutisi a creare nel cortile.
Ambedue le doglianze sono inammissibili.
La prima, infatti, non coglie la ratto della decisione impugnata, posto che il giudice di seconda istanza aveva rilevato la novità della prospettazione, allegata dai ricorrenti solo in appello, secondo cui comunque il loro operato sarebbe rientrato nei limiti dell’art. 1102 c.c.. Con motivazione non attinta dai motivi di ricorso, la Corte territoriale aveva rilevato la insanabile contraddittorietà esistente tra tale ipotesi, che postula la proprietà comune del muro di recinzione della corte, e quanto sostenuto dagli appellanti in prime cure, posto che in quel grado i predetti si erano dichiarati proprietari esclusivi del manufatto in discussione.
Inoltre, ambedue le censure attengono al merito della vicenda e si risolvono in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. S.U. n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).
Inoltre, per giurisprudenza consolidata “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595: conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330; Cass. Sez. L, Sentenza n. 11933 del 07/08/2003, Rv. 565755; Cass. Sez. L, Sentenza n. 322 del 13/01/2003, Rv. 559636). Di conseguenza, non può essere utilmente richiesto alla Corte di Cassazione di procedere ad un riesame critico del compendio istruttorio acquisto nel corso dei gradi di merito.
Inoltre, va osservato che i documenti indicati nel secondo motivo non vengono riportati, nè si deduce in quale momento processuale essi sarebbero stati acquisiti agli atti del fascicolo, con conseguente ulteriore profilo di inammissibilità della censura per difetto della necessaria specificità.
Ed infine, va evidenziato che – a tutto voler concedere – detti documenti sembrerebbero attenere alla questione del reinterro delle cisterne, sulla quale già il primo giudice aveva dichiarato cessata la materia del contendere, con statuizione non attinta dai motivi di appello. Di conseguenza, si configura anche, sul punto, il giudicato interno e – comunque – carenza di interesse in concreto all’impugnazione.
Da quanto precede consegue l’inammissibilità del ricorso.
Le spese del presente giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1-quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 4.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15%, Iva e cassa avvocati come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 12 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018