LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5694/2015 proposto da:
Unione Nazionale Industria Conciaria – UNIC, Unic Servizi S.r.l. in liquidazione, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in Roma, Via della Vite n. 58, presso UNIC, rappresentate e difese dall’avvocato Geminiani Gian Piero, giusta procure in calce alla memoria di nomina di nuovi difensori;
– ricorrenti –
contro
Federation des Enseignes de la Chassure – FEC (già Syndicat National du Commerce Succursaliste de la Chaussure), Federation Francaise de la Chassure – FFC, Federation Francaise des entreprises de gros, importations, exportations, chassures, jouet et textile – FOT, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in Roma, Via delle Quattro Fontane n. 15, presso lo studio dell’avvocato Scapicchio Claudia, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato Camusso Alberto, De Cesero Chiara, giusta procure autenticate da: Notaio B.O. di Parigi del 30.3.2015, Notaio O.G. di Parigi del 25.3.2015 e Notaio R.J. di Parigi del 19.3.2015;
– controricorrenti –
contro
Chaussures Eram S.a.r.l.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2636/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/07/2014;
letta la memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., depositata dalla ricorrente UNIC;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/06/2018 dal Cons. Dott. VELLA PAOLA.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Milano – Sezione specializzata in materia d’impresa ha respinto l’appello proposto dalla Unione Nazionale Industria Conciaria – UNIC e dalla Unic Servizi S.r.l. (ora in liquidazione) avverso la sentenza parziale del 19/01/2013 con cui la Sezione specializzata Proprietà industriale e intellettuale del Tribunale di Milano, adito con citazione del 10/12/2009 da Chaussures Eram S.a.r.l., Syndicat National du Commerce Succursaliste de la Chaussure (ora Federation des Enseignes de la Chassure – FEC), Federation Francaise de la Chassure – FFC e Federation Francaise des entreprises de gros, importations, exportations, chassures, jouet et textile – FCJT per far dichiarare la nullità, ovvero la decadenza, di vari marchi figurativi collettivi, registrati ed in corso di registrazione, di titolarità delle convenute Unic Servizi S.r.l. ed Unic Società Cooperativa (già cessata e cancellata dal registro delle imprese) nonchè della terza chiamata in causa Unione Nazionale Industria Conciaria – UNIC, “aventi quale cuore il segno grafico della pelle di animale stilizzata (c.d. vacchetta) solo o accompagnato da locuzioni quali “VERA PELLE” e “VERO CUOIO” – aveva: a) dichiarato l’estinzione del giudizio con riferimento alle domande di nullità e decadenza relative ad alcuni marchi collettivi internazionali (*****); b) dichiarato la nullità del marchio collettivo nazionale n. ***** depositato il 28/03/1997 e concesso in data 02/09/1999 (rinnovo della precedente registrazione n. *****, con ulteriore domanda di rinnovo del 31/01/2007 per le classi 16, 18, 21, 25, 28), costituito dal simbolo di “pelle di animale stilizzata” (c.d. vacchetta) registrato nel 1977, per carenza di novità e coincidenza con i requisiti legali; c) rigettato la domanda di nullità dei restanti marchi litigiosi; d) disposto la prosecuzione dell’istruttoria sulle domande di nullità, invalidità e decadenza dei marchi in corso di registrazione, sulle ulteriori domande di invalidità nonchè decadenza (per non uso, omissione dei controlli da parte del titolare e volgarizzazione) relative al menzionato marchio n. ***** e sulle domande di violazione degli artt. 101 e 102 (già artt. 81 e 82) del Trattato CE.
2. Dalla sentenza gravata risulta che la UNIC e la Unic Servizi s.r.l. avevano proposto due motivi di appello avverso la sentenza parziale di primo grado, lamentando:
2.1 che il Tribunale aveva “errato nell’escludere la validità del marchio “vacchetta” per difetto del requisito della novità ex art. 12 del Codice di Proprietà Industriale, per essere divenuto segno di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio”, trattandosi in realtà di “un marchio collettivo, un “segno significativo” tale da comunicare in sè un’informazione, che esprime ex art. 2570 c.c. e art. 11 CPI l’esistenza di caratteristiche comuni a tutti i prodotti, appartenenti a determinate classi merceologiche per le quali il marchio è stato registrato, realizzati da una molteplicità di produttori”, con la specifica funzione di “garantire che il bene messo sul mercato abbia determinate caratteristiche e non, come accade per il marchio di proprietà, individualizzare e distinguere i prodotti di una determinata impresa”, essendo perciò “irrilevante l’elemento della capacità distintiva”; del resto, il D.Lgs. n. 131 del 2010, aveva adeguato la legislazione interna a quella comunitaria collocando il divieto di registrare come marchi segni divenuti di uso comune, a pena di nullità del marchio, nell’art. 13 del Codice della Proprietà Industriale, come elemento inerente al difetto di capacità distintiva, e non della novità (come in precedenza nell’art. 12 C.P.I.); in altri termini, secondo la legislazione comunitaria “la volgarizzazione del segno esclude l’elemento della capacità distintiva e non quello della novità rispetto alle antecedenze”; d’altro canto, ciò che si era volgarizzato era l’uso di un concetto figurativo simbolico del cuoio e della pelle, mentre la figura stilizzata adottata costituiva un unicum inconfondibile e precisamente determinato, diverso da tutti i segni grafici antecedenti, trattandosi di una stilizzazione grafica elementare adottata per la prima volta da UNIC nel 1977, in assenza di precedenti;
2.2 che il Tribunale aveva errato anche nell’affermare l’invalidità del marchio in questione “sotto il profilo dell’art. 14, comma 1, lett. a CPI per confliggenza con le norme imperative della Direttiva 94/11 CE in materia di obblighi di etichettatura delle calzature e di indicazione dei materiali di composizione delle varie parti”, poichè “la disciplina comunitaria, emanata nel 1994 e recepita in Italia con il D.M. 11 aprile 1996, avrebbe, a dire delle appellanti, efficacia ex nunc e non retroattiva”; inoltre, “l’art. 4.2 della Direttiva 94/11 non prevedrebbe come obbligatorio, ai fini dell’etichettatura delle calzature, l’uso dei simboli (come il segno “vacchetta” per la pelle o quello delle fibre intrecciate per indicare il materiale tessile) ma consentirebbe al produttore di scegliere tra l’uso dei simboli e quello delle indicazioni scritte nella lingua d’uso del Paese in cui il bene viene venduto”, sicchè lo scopo perseguito dalla Direttiva non sarebbe incompatibile con il monopolio di UNIC”.
3. La Corte territoriale ha rigettato entrambe le censure, osservando:
3.1 che “il simbolo “vacchetta” è divenuto di uso comune, coincide sostanzialmente con i segni grafici che già fin dall’inizio del secolo scorso venivano utilizzati dagli operatori del settore nella lavorazione dei pellami; tale sistematico ed esteso sfruttamento del segno distintivo in esame lo ha reso elemento ampiamente riconosciuto in un periodo anteriore a quello di registrazione del marchio UNIC nel 1977" (v. documenti indicati a pag. 8 della sentenza a riscontro di “una congerie di anteriorità rilevanti nel caso di specie, utilizzate sia nel panorama Europeo ed italiano… sia in quello extraEuropeo per indicare la natura di pelle o cuoio ma anche per individuare le attività tecniche di lavorazione delle pelli”); in effetti, “le anteriorità rispetto al marchio registrato… sono più elaborate, maggiormente ricche di particolari e con alcune diversità grafiche rispetto alla stilizzazione del marchio UNIC; tuttavia, sia il marchio collettivo sia le anteriorità possono essere ricondotti al medesimo nucleo individualizzante, allo stesso “cuore” di linee e forme ossia la “pelle distesa di animale” o “vacchetta”, già in uso nel settore molto tempo prima della domanda di registrazione di marchio collettivo”; inoltre, “alla fattispecie in esame non si applica il D.Lgs. n. 131 del 2010”, avente “efficacia ex nunc e non retroattiva”, bensì “la normativa vigente all’atto della richiesta di registrazione (1977 Legge Marchi) o, al più, nel momento in cui è stato incardinato il giudizio di primo grado (2009 – Codice della proprietà Industriale precedente alla riforma)” in base alla quale “l’utilizzo come marchi di segni divenuti di uso comune esclude l’elemento della novità, non quello della capacità distintiva”, con conseguente nullità del marchio collettivo mancante del carattere della novità ai sensi dell’art. 11 C.P.I. (corrispondente alla nullità per difetto di elemento essenziale ex art. 12, comma 1, lett. a), C.P.I. ante riforma del 2010);
3.2 che invece alla disciplina comunitaria sulla etichettatura (Direttiva 94/11 CE) deve essere riconosciuta in via eccezionale efficacia retroattiva, in quanto “necessaria per lo scopo da raggiungere” (v. Corte giust., C-120/08, Bavaria N.V. c. Bayerische Brauerbund, per cui “le norme dell’Unione devono essere interpretate come applicabili a situazioni createsi anteriormente alla loro entrata in vigore soltanto nei limiti in cui dalla lettera, dallo scopo e dallo spirito di tali norme risulti chiaramente che deve essere loro attribuita tale efficacia”), essendo sia la Direttiva 94/11 CE che il D.M. 11 aprile 1996, diretti ad “introdurre un sistema nel quale venga indicata la natura esatta dei materiali impiegati”, onde fornire informazioni ai consumatori nel modo più semplice, chiaro ed efficace, lasciando anche la possibilità, tra le varie opzioni, di utilizzare simboli già in uso, come la “vacchetta”; invero, un diritto di privativa sul segno grafico “vacchetta” sarebbe incompatibile con lo scopo della Direttiva, perchè costringerebbe i produttori ad usare “un macchinoso sistema di etichettatura mediante l’uso di parole in varie lingue a seconda del mercato di riferimento, laddove, invece, il simbolismo consente di superare le diversità linguistiche”; d’altro canto, “le modalità di comunicazione delle informazioni al consumatore sui materiali delle calzature sono cogenti e sono quelle tassativamente previste dall’art. 4.2 della Direttiva CE e dal D.M. 11 aprile 1996, art. 4”, in base ai quali, rispettivamente, “il fabbricante o il suo rappresentante… può scegliere simboli o informazioni scritte almeno nella lingua che può essere determinata nello Stato membro di consumo” e “deve apporre un’etichetta che può contenere o simboli o informazioni scritte in lingua italiana”; la monopolizzazione del marchio “vacchetta” menomerebbe quindi la libertà di scelta garantita da tali norme, costringendo gli operatori “ad utilizzare esclusivamente la descrizione scritta per non dover pagare le royalties alla UNIC per la licenza d’uso del simbolo grafico “vacchetta””.
4. Avverso la sentenza d’appello la Unione Nazionale Industria Conciaria – UNIC e la Unic Servizi S.r.l. in liquidazione hanno proposto ricorso affidato a sette motivi, cui la Federation des Enseignes de la Chassure – FEC (già Syndicat National du Commerce Succursaliste de la Chaussure), la Federation Francaise de la Chassure – FFC e la Federation Francaise des entreprises de gros, importations, exportations, chassures, jouet et textile – FCJT hanno resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 2)” si censura l’avere il giudice a quo identificato il titolo di proprietà industriale per cui è causa, genericamente, nella “pelle distesa di animale” o “vacchetta” – verosimilmente in relazione alla descrizione del titolo, che recita “un’etichetta raffigurante una pelle di animale stilizzata” – quando invece il marchio in questione riguardava la “specifica formulazione grafica” riprodotta a pag. 20 del ricorso, essendo oggetto di tutela l’ambito rivendicativo del titolo, non già la sua parte descrittiva.
2. Con il secondo “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 2,7 e 11)” ci si duole del fatto che, pur avendo riconosciuto le differenze del marchio rispetto alle anteriorità, la Corte d’appello avrebbe poi escluso il requisito della novità solo sulla base del suo “nucleo individualizzante” – il “cuore di linee e di forme” – che “costituisce semmai il quadro evocativo del segno, mentre esattamente le differenti formulazioni grafiche con le quali quel quadro evocativo può essere composto e realizzato costituisce l’elemento distintivo del marchio”, commettendo così un “errore nella valutazione dei requisiti di proteggibilità”.
2.1. I primi due motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
2.2. In primo luogo, il fatto che la Corte di appello abbia valutato il marchio in questione facendo riferimento (anche) alla sua parte descrittiva non significa che essa non lo abbia esattamente identificato nella sua portata evocativa, come anzi si evince dagli espliciti riferimenti ai relativi “segni grafici”, “linee e forme” (v. pag. 8 e 9 della sentenza impugnata). Allo stesso modo, il riferimento fatto al “nucleo individualizzante” (o “cuore”) del marchio – ossia la “pelle distesa di animale” o “vacchetta” – non significa che il giudice di secondo grado non abbia tenuto conto della “specifica formulazione grafica” (o stilizzazione) del marchio, tanto che a pag. 8 della sentenza vi è specifico rinvio ad una serie di documenti relativi ai “segni grafici che già fin dall’inizio del secolo scorso venivano utilizzati dagli operatori del settore”, rispetto ai quali i giudici di entrambi i gradi del giudizio hanno riscontrato l’assenza di novità, nonostante la maggiore elaborazione e ricchezza di particolari grafici caratterizzanti le anteriorità; il che integra indubbiamente una valutazione di merito, insindacabile in questa sede. Nè il richiamo alla necessaria portata evocativa del marchio collettivo induce ad una diversa conclusione, posto che occorre pur sempre una comparazione in concreto delle diverse caratterizzazioni grafiche di un medesimo quadro evocativo (come si evince dallo stesso esempio visualizzato a pag. 8 delle memorie di parte ricorrente, ove il nucleo individualizzante della mela viene accompagnato da segni grafici del tutto diversi).
2.3. Può dunque affermarsi il principio di diritto per cui, in tema di marchio collettivo, non viola gli artt. 2,7 e 11 C.P.I. il giudice di merito il quale, nell’esaminare un marchio figurativo – nella specie collettivo – usi per contraddistinguerlo un termine (peraltro diffuso nell’ambiente dei produttori e commercianti) idoneo a definirlo sinteticamente – nella specie “pelle distesa di animale” o “vacchetta” – così facendo riferimento, anche ai fini comparativi, alla descrizione evocativa del titolo di proprietà intellettuale anzichè alla specifica formulazione grafica astratta, di cui alla registrazione, atteso che il riferimento alla formula ellittica e figurata non esclude la univoca riferibilità al segno e l’esame comparativo con i segni anteriori usati da altri imprenditori nel tempo non è pregiudicato dall’uso delle parole descrittive del simbolo grafico, ben efficaci per richiamare la realtà raffigurata da esso.
3. Il terzo “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 7 e art. 12, comma 1, lett. a))” è articolato in tre profili, segnatamente: 1) “il segno di UNIC non può essere considerato di uso comune perchè i segni appartenenti a tale categoria non sono costituiti dalle denominazioni generiche o dalle indicazioni descrittive bensì da quelli, ben diversi, comunemente adoperati nel commercio per distinguere tipologie diverse di medesimi prodotti o servizi, con cancellazione dell’originario significato in funzione appunto dell’uso generalizzato” (c.d. trasversalità merceologica); 2) anche prima della riforma di cui al D.Lgs. n. 131 del 2010 (che ha traslato la nullità del marchio relativo a segni distintivi diventati di uso comune dal profilo della “novità” ex art. 12 a quello della “capacità distintiva” di cui all’art. 13 C.P.I.), il combinato disposto dell’art. 7 e art. 12, comma 1, lett. a), C.P.I. consentiva di riferire il difetto di novità del marchio proprio alla mancanza di capacità distintiva, capacità che invece era riscontrabile nel caso di specie tenendo conto della “particolare stilizzazione del segno”, da intendersi come “nucleo individualizzante invece erroneamente riferito dalla Corte alla componente evocativa del segno”; 3) “l’art. 12, comma 1, lett. a), (così come ora l’art. 13, comma 1, lett. a) c.p.i.), si riferiscono ai marchi che consistono “esclusivamente” in segni divenuti d’uso comune”, mentre la Corte d’appello avrebbe applicato la norma “senza preoccuparsi del fatto che il marchio sia costituito esclusivamente da un segno divenuto d’uso comune”, ed anzi affermando, al contrario, “che esso si caratterizza per una soluzione grafica differente rispetto alle cosiddette anteriorità”.
3.1. Le censure, che in gran parte ripropongono quanto già contestato con i primi due motivi di ricorso, sono infondate.
3.2. Alle osservazioni già svolte nell’esaminare i primi due mezzi da intendersi qui integralmente richiamate, in uno al principio di diritto formulato sub 2.3 – è sufficiente aggiungere che le norme che stabiliscono le ipotesi di nullità o decadenza del marchio registrato non operano, in realtà, alcuna distinzione in ordine alla tipologia del segno considerato, sicchè in astratto anche un simbolo grafico come quello della c.d. “vacchetta” può essere qualificato come segno di uso comune (si veda il caso analogo del “cono” per contraddistinguere il gelato, citato a pag. 19 del controricorso); non è dato perciò riscontrare la lamentata violazione dell’art. 7 e art. 12, comma 1, lett. a), C.P.I., anche per avere i giudici di merito correttamente applicato quest’ultima disposizione nel testo vigente ratione temporis (anteriormente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 131 del 2010), secondo il quale il marchio – anche collettivo – è nullo se privo del requisito di novità, a prescindere dalla possibile continguità concettuale riscontrabile, in concreto, tra quest’ultimo profilo e quello della capacità distintiva, con riguardo ai segni divenuti di uso comune (ciò che giustifica il riferito mutamento diacronico del relativo inquadramento normativo).
4. Con il quarto “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 12, comma 1, lett. a) e art. 13, comma 3)” si deduce che, in base al combinato disposto delle norme citate, il marchio non avrebbe potuto essere dichiarato nullo per avere il segno acquistato comunque con l’uso – prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità – il carattere distintivo di cui in denegata ipotesi fosse stato ritenuto privo in origine (c.d. riabilitazione del marchio), e ciò grazie ad “un uso molto consistente e continuato, con formidabili investimenti di carattere promo-pubblicitario e con un conseguente, eccezionale, accreditamento presso il mercato e gli operatori” (c.d. secondary meaning).
5. Con il quinto “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” si assume che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare “il fatto decisivo relativo alla preclusione della possibilità della dichiarazione di nullità del marchio in ragione del caricamento di significato di cui esso è stato oggetto”.
5.1. Dette censure, che in quanto connesse possono essere esaminate congiuntamente, presentano profili di inammissibilità prima ancora che di infondatezza.
5.2. In primo luogo, del tema della riabilitazione del marchio e del c.d. “secondary meaning” non vi è traccia nemmeno nella parte espositiva della pronuncia impugnata, sicchè, non essendo stato dedotto il vizio di omessa pronuncia (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), non è dato comprendere quale sarebbe la parte della sentenza d’appello inficiata dal vizio di violazione di legge veicolato dal quarto motivo; d’altro canto, le relative argomentazioni risultano contenute nella comparsa conclusionale e – assai genericamente – nell’atto di citazione delle ricorrenti in sede di appello (v. brani trascritti a pag. 34-37 del ricorso), oltre che nella memoria di replica alla loro comparsa conclusionale in primo grado (v. brano trascritto a pag. 19 della memoria di parte ricorrente), sicchè è verosimile che la Corte territoriale le abbia incluse tra le semplici “questioni” espressamente dichiarate assorbite dalle motivazioni fondanti “il rigetto del gravame e la conferma della sentenza di prime cure”.
5.3. Il vizio di omesso esame veicolato dal quinto motivo risulta a sua volta del tutto generico, in quanto prospetta come fatto decisivo, il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte d’appello, “il caricamento di significato di cui esso (il marchio) è stato oggetto”, verosimilmente sempre con riguardo agli ingenti investimenti pubblicitari che sarebbero desumibili “dalla documentazione dimessa dalle qui ricorrenti”; e ciò senza minimamente affrontare nè il tema della (dubbia) configurabilità del c.d. “secondary meaning” ai fini della riabilitazione del marchio collettivo – stanti le peculiarità della relativa capacità distintiva – nè il carattere preminente della coesistenza con l’altrui uso del medesimo simbolo della “vacchetta”, rilevato dalla Corte d’appello come “già in uso nel settore molto tempo prima della domanda di registrazione di marchio collettivo”.
6. Con il sesto “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 14, comma 1, lett. a), art. 14, comma 2, lett. b) e art. 25, comma 1, lett. b))” si censura il capo della sentenza di appello con cui è stata dichiarata la nullità del marchio in questione per “conflitto con le norme di cui alla Direttiva CE 94/11 in materia di obblighi di etichettatura delle calzature e di indicazione dei materiali di composizione delle parti delle stesse”, non potendo tale Direttiva “operare retroattivamente, nel senso dell’espropriazione del diritto esclusivo stabilito anteriormente”, e comunque non potendo configurarsi un’ipotesi di nullità, ma, semmai, di decadenza.
6.1. La censura è inammissibile per difetto di interesse, in quanto colpisce la seconda ratio decidendi che sorregge la decisione impugnata, a fronte di una prima ratio di cui è stata già predicata in questa sede la validità.
7. Con il settimo “Motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 4.2 Direttiva CE 94/11 e 4.2. D.M. 11 aprile 1996 ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato)” si lamenta che la Corte territoriale avrebbe “completamente frainteso la portata della Direttiva” menzionata, sia perchè essa “non individua in un marchio come quello di UNIC un elemento di obbligatoria adozione”, sia – e in ogni caso – perchè “il segno illustrato dalla direttiva non è affatto il marchio di UNIC n sè considerato, bensì una articolata etichetta in cui esso può essere compreso”.
7.1. La censura soffre delle medesime ragioni di inammissibilità del sesto motivo, alle quali può aggiungersi che proprio l’alternativa offerta tra simboli e informazioni scritte richiede quella libertà di scelta valorizzata a pag. 13 della sentenza impugnata.
8. Al rigetto del ricorso segue la condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi liquidati in Euro 200,00 ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 8 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018
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