Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.30677 del 27/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16588-2014 proposto da:

UNIPOL BANCA SPA, (P.IVA *****), in persona del legale rapp.te pt, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FARAVELLI 22, presso lo studio dell’Avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende, anche disgiuntamente, con gli Avvocati LUIGI MONTUSCHI e RAFFAELE TOMMASINI, giusta delega in atti.

– ricorrente –

contro

C.F. – (CF. *****), elettivamente domiciliato in MESSINA, VIA LENZI 5, presso lo studio dell’Avvocato FABIO ZANGHI’

che lo rappresenta e lo difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 639/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 28/04/2014, RG N. 1787/2011.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/06/2018 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso ed in subordine per il rigetto;

udito l’Avvocato ROBERTO ROMEI.

FATTI DI CAUSA

1. Con la sentenza n. 639, depositata il 28.4.2014, la Corte di appello di Messina, in riforma della pronuncia n. 3015/2010 emessa dal Tribunale della stessa città, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento irrogato a C.F. con lettera del 23.2.2004, per sopravvenuta impossibilità a rendere la prestazione lavorativa anche in via residuale, e ha condannato la Unipol Banca spa a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno conseguente pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento all’effettiva reintegra da determinarsi sulla base dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonchè al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per lo stesso periodo.

2. A fondamento della decisione la Corte di merito ha rilevato che: 1) non vi era alcun obbligo per il datore di lavoro di ricorrere ad enti pubblici o istituti specializzati al fine di accertare l’idoneità fisica del lavoratore, ben potendo il motivo di recesso fondarsi sulla valutazione medico-legale di un organo comunque dotato di terzietà, in quanto di natura pubblica; 2) le censure all’elaborato peritale di prime cure erano fondate anche alla luce della consulenza tecnica, espletata in appello, da cui era risultato che la patologia da cui era affetto il C. (“Linfoma non Hodgkin di derivazione dai linfociti B periferici 4^ Stadio a verosimile localizzazione extranodale-gastrica” aveva determinato solo nella sua fase iniziale un grave stato di invalidità con temporanea riduzione delle sue capacità lavorative, tenuto conto dell’ottima risposta al trattamento antiblastico praticato, dal periodo trascorso dalla diagnosi (*****), dall’attuale assenza di complicanze locali e/o sistemiche e della valutata entità della ricaduta sulle condizioni generali psico-fisiche; 3) il licenziamento era, pertanto, illegittimo, con conseguente tutela reintegratoria e risarcitoria L. 20 maggio 1970, n. 300, ex art. 18 ratione temporis vigente; 4) non poteva accogliersi l’eccezione di aliunde perceptum che, non costituendo eccezione in senso stretto rilevabile di ufficio, necessitava che le relative circostanze di fatto risultassero ritualmente acquisite al processo, anche per iniziativa del lavoratore, mentre ciò era da escludersi nel caso concreto ove la richiesta formulata sul punto da Unipol aveva natura meramente esplorativa.

3. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la Unipol Banca spa affidato a quattro motivi, illustrati con memoria.

4. C.F. ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo la ricorrente denunzia la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., a causa dell’omessa pronuncia, da parte della Corte di merito, sulla improcedibilità dell’appello proposto dal C. e per violazione dell’art. 435 c.p.c., comma 2, in quanto l’atto di appello non sarebbe stato notificato entro il termine di gg. 10 dal deposito del decreto di fissazione dell’udienza.

3. Con il secondo motivo si censura la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c., a causa dell’omessa pronuncia sull’eccepita inammissibilità della modifica delle conclusioni prese in grado di appello, in violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, con cui era stata introdotta in seconde cure una nuova domanda rappresentata dalla richiesta di accertamento in ordine alla circostanza che l’intimato licenziamento fosse privo di giustificato motivo oggettivo per asserita violazione del periodo di comporto.

4. Con il terzo motivo la Unipol Banca spa lamenta la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione ai rapporti tra la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, e le regole legali in tema di responsabilità civile ex art. 1218, 1227, 1256, 1463 e 2087 cc, con specifico riferimento all’obbligo di risarcire i danni conseguenti, per essere stato erroneamente determinato dalla Corte di merito il risarcimento del danno oltre la misura minima delle cinque mensilità senza considerare che la Banca non aveva avuto alcuna colpa ad intimare il licenziamento essendosi basata su documentazione medica utilizzata dal lavoratore e mai contestata e/o impugnata dallo stesso.

5. Con il quarto motivo la ricorrente si duole dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentato dalla detraibilità del cd. “aliunde perceptum” ed “aliquid percepiendum”, nonchè della violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1227 c.c. e alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42 per avere erroneamente la Corte di merito rigettato le richieste di ordine di acquisizione dei redditi presuntivamente percepiti dal C. a qualsiasi titolo, come risultanti dalla documentazione in atti, dal comportamento processuale del lavoratore e dalla circostanza della pensione di invalidità da questi percepita annualmente a carico dell’INPS.

6. Con riguardo al primo motivo appare preclusivo all’accoglimento della censura di omessa pronuncia sulla doglianza proposta in appello il rilievo, al quale la Corte può procedere in via diretta trattandosi di fatto processuale, che la violazione del termine di cui all’art. 435 c.p.c., comma 2 di dieci giorni entro il quale l’appellante deve notificare il ricorso, non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte perchè non incide su alcun interesse dell’appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435 c.p.c., commi 3 e 4, deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione (Cass. 16.1.2013 n. 23426; Cass. 29.2.2016 n. 3959).

7. Secondo l’orientamento di questa Corte, qui condiviso (cfr. Cass. n. 13609/2015; Cass. n. 2313/2010) fondato sui principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, ai sensi dell’art. 111 Cost. nonchè su una lettura dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello la Corte di Cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello, determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito (sempre che si tratti di questione, come nel caso di specie, che non richieda ulteriori accertamenti di fatto preclusivi in sede di legittimità).

8. Il secondo motivo è inammissibile perchè non conferente alla ratio decidendi della impugnata pronuncia che ha ritenuto l’illegittimità del licenziamento in quanto irrogato sul presupposto errato della inidoneità fisica totale e permanente al momento del recesso datoriale e non per il superamento del periodo di comporto, di talchè detta ultima tematica, con la connessa ammissibilità della domanda asseritamente formulata solo in appello, si palesa non pertinente a quello che è stato l’iter logico-giuridico seguito dai giudici del merito.

9. Il terzo motivo non è meritevole di pregio.

10. Giova precisare che la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, copmma 4 ratione temporis vigente, nel testo sostituito dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1 nel prevedere, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione “iuris tantum” di lucro cessante. Presupposto indefettibile per l’applicabilità di tale disposizione, che costituisce una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale, è l’imputabilità al datore di lavoro dell’inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa (cfr. Cass. 3.5.2004 n. 8364; Cass. 15.7.2002 n. 10260).

11. Orbene, nel caso in esame, per vincere la suddetta presunzione occorreva che in grado di appello fosse stata articolata una precisa e completa deduzione idonea a sollecitare i giudici del merito sulla imputabilità dell’inadempimento al datore di lavoro e sulla incolpevolezza di esso.

12. Tale articolazione di circostanze, che non poteva limitarsi all’assunto che il datore di lavoro non avesse l’obbligo di ricorrere ad enti pubblici o istituti specializzati al fine di accertare l’idoneità fisica del lavoratore ben potendo fondare la propria decisione sulla valutazione di un organo comunque dotato di terzietà, si rendeva necessaria al fine di analizzare l’eventuale comportamento colposo o doloso del datore di lavoro: comportamento che si pone su di un piano successivo a quello della acquisizione del parere medico e si sostanzia in un accertamento di fatto affidato al giudice del merito e non censurabile in sede di legittimità se non sotto il profilo della logicità e correttezza della motivazione.

13. In altri termini, nella fattispecie, per valutare la non imputabilità del licenziamento al datore di lavoro e la sua mancanza di colpa occorreva che fossero stati dedotti specifici elementi in fatto per consentire il sindacato sulla sua incolpevolezza e sollecitare in tale prospettiva il giudizio dei giudici di merito.

14. La società, invece, non ha precisato nel motivo se in appello abbia provveduto a tale prospettazione e neanche in questa sede ha riportato e trascritto gli accertamenti medici (primo certificato ed esiti della ctu) onde acclarare se effettivamente fosse ravvisabile una condizione di colpa datoriale.

15. Ne consegue, pertanto, l’infondatezza della censura.

16. Il quarto motivo, infine, è anche esso infondato.

17. Non sussiste il vizio di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia – cfr. Cass. Sez. Un. n. 8053/2014). Nè l’omesso esame di elementi istruttori integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. 22.9.2014 n. 19881).

18. Nel caso de quo, la questione dell’aliunde perceptum è stata presa in considerazione dalla Corte di merito e, con valutazione non sindacabile in cassazione perchè logicamente e congruamente motivata, le richieste istruttorie della società sono state ritenute di natura esplorativa (cfr. in termini Cass. 16.11.2010 n. 23120; Cass. 23.2.2010 n. 4375) e, quindi, non ammesse.

19. Non è, altresì, ravvisabile alcuna violazione di legge perchè correttamente la Corte territoriale si è attenuta al principio che la possibilità di detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore l’aliunde perceptum è legata alla presenza in giudizio di elementi di prova, specifici e puntuali, attestativi di una diversa fonte reddituale, il cui onere allegatorio incombe sul datore di lavoro (cfr. Cass. n. 2499/2017; Cass. 9616/2015; Cass. n. 6895/2018).

20. Infine, va rimarcato per completezza che, in caso di illegittimo licenziamento del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commisurato all’importo delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere diminuito degli importi che egli abbia eventualmente ricevuto a titolo di pensione, in quanto non può considerarsi compensativo del danno arrecatogli con il licenziamento (quale “aliunde perceptum3 un qualsiasi reddito percepito dal medesimo, bensì solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa (ex aliis Cass. 20.2.2003 n. 2529).

21. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.

22. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

23. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie della misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018

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