LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1170/2015 proposto da:
B.G.M., C.D., C.G. (questi ultimi due quali eredi di M.R.), P.M.L., S.A. e AZIENDA AGRICOLA SOL s.a.s. (già s.r.l.), rappresentati e difesi dagli Avvocati ORESTE GIAMBELLINI, ANNA MARIA CORNA e PAOLO ZUCCHINALI ed elettivamente domiciliati presso lo studio Trifirò
& Partners in ROMA, P.ZZA MAZZINI 27;
– ricorrenti –
contro
AGENZIA del DEMANIO, il persona del Direttore in carica, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, presso i cui uffici è legalmente domiciliata in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1292/13 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 22/11/2013;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 14/09/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione del 23.3.1996, B.G.M., C.D., C.G., M.R. (alla quale subentravano, quali eredi, C.D. e C.G.), P.M.L., S.A. e l’AZIENDA AGRICOLA SOL s.a.s. convenivano in giudizio davanti al Pretore di Brescia il MINISTERO delle FINANZE, deducendo che i terreni a foglio *****, mappali ***** del Comune di San Daniele Po si erano formati per alluvione e, non facendo più parte dell’alveo del Po, erano divenuti di proprietà degli attori, secondo le porzioni indicate negli allegati dell’atto di citazione; chiedevano l’emissione di una sentenza che accertasse tale proprietà e che costituisse titolo per la trascrizione sui registri immobiliari, nonchè per la voltura catastale.
Si costituiva il Ministero, eccependo l’incompetenza del Giudice adito e sostenendo nel merito l’infondatezza della domanda, posto che i terreni in questione si erano formati non per fatto naturale, ma per opera dell’uomo.
Il Pretore di Brescia, con sentenza n. 239/1999, dichiarava la propria incompetenza; il giudizio veniva riassunto davanti al Tribunale di Cremona, e, come parte convenuta, si costituiva l’AGENZIA del DEMANIO, subentrata al Ministero delle Finanze. Il Giudice di Cremona, ritenutosi a sua volta incompetente, sollevava regolamento di competenza, che questa Corte, con sentenza n. 13342/2002, dichiarava inammissibile.
Con sentenza n. 525/2008, il Tribunale di Cremona, ritenendo fondata la domanda ex art. 941 c.c., proposta dagli attori, in quanto dalle prove raccolte e dalla CTU era emerso che i terreni in questione si erano formati per alluvione naturale e non in conseguenza dell’opera dell’uomo, accoglieva la domanda, accertando che gli attori, per le porzioni di rispettiva competenza, erano proprietari dei terreni in questione, per alluvione ex art. 941 c.c. e ordinava la trascrizione della sentenza sui registri immobiliari, compensando le spese di lite.
Avverso detta sentenza proponeva appello l’Agenzia del Demanio, deducendo che dovevano essere dimostrati dagli attori i requisiti dell’acquisizione, mentre tale prova non era stata data essendosi limitata la CTU a fotografare il fenomeno alluvionale, senza indagare le cause dello stesso; e che si evidenziava la mancanza di un’analisi da parte del Tribunale in ordine alla valutazione dell’opera dell’uomo. Chiedeva, dunque, previa rinnovazione della CTU, la riforma della sentenza impugnata con il rigetto delle domande degli attori.
Si costituivano in giudizio gli appellati che eccepivano l’inammissibilità dell’appello, sia per violazione del principio della specificità dei motivi di cui all’art. 342 c.p.c., sia per l’introduzione in appello di fatti e argomenti nuovi, in violazione dell’art. 345 c.p.c.. Gli appellati proponevano, altresì, appello incidentale, chiedendo che l’accertamento della proprietà in capo ad essi dei terreni in questione fosse effettuato con riferimento all’anno 1972; in via di appello incidentale subordinato, chiedevano la declaratoria della inammissibile produzione, da parte dell’Avvocatura, di una CT di parte e l’accertamento della sua inutilizzabilità.
La Corte d’Appello di Brescia, disponeva una nuova CTU.
Con sentenza n. 1292/2013, depositata il 22.11.2013, la medesima Corte accoglieva l’appello, rigettando le domande proposte in primo grado dagli appellati e ponendo a loro carico le spese di lite dei due gradi di giudizio e le spese delle CTU disposte in primo e secondo grado.
Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione gli appellati sulla base di due motivi, illustrati da memoria; resiste l’Agenzia del Demanio con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la “Nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, osservando, in primo luogo, che la Corte d’appello ha ritenuto fondata la doglianza dei medesimi diretta all’esclusione della CT di parte prodotta dall’Avvocatura dello Stato davanti al Tribunale, della quale la Corte di merito, a suo dire, non avrebbe tenuto conto nel disporre la CTU. Tuttavia, l’Agenzia del Demanio ha trasfuso tale documento nei propri scritti conclusivi del giudizio di primo grado, nonchè nell’atto di appello, ponendolo a fondamento della richiesta di rinnovazione della CTU. Inoltre, il CTU nominato ha iniziato le operazioni peritali senza la partecipazione del CT nominato da essi ricorrenti, avendo questi fissato i nuovi incontri, ma nelle more svolgendo le operazioni peritali in totale violazione del principio del contraddittorio, ed inoltre depositando la CTU fuori dal termine fissato e dalla proroga concessa. In secondo luogo, i ricorrenti sotengono che il giudizio di secondo grado sarebbe nullo anche per illegittimità e nullità delle varie ordinanze emesse nel corso di esso; e più precisamente dell’ordinanza collegiale del 22.7.2011 (con cui la Corte d’appello ha accolto l’istanza istruttoria dell’Agenzia di rinnovazione della CTU, senza valutare le ragioni di inammissibilità delle argomentazioni avversarie), dell’ordinanza del 28.9.2011 (che ha ritenuto tardiva l’istanza di pari data proposta dagli attori per la revoca dell’ordinanza collegiale del 22.7.2011) e della ordinanza del 3.2.2012 (con la quale ha ritenuto di essersi già pronunciata sulla richiesta con la precedente ordinanza, mentre la nuova istanza aveva oggetto diverso a quella depositata nel settembre 2011). I ricorrenti lamentano che, in tal modo, il CTU avrebbe esteso l’indagine a temi nuovi, e che la Corte di merito – formulando un quesito che postulava l’applicazione dell’art. 947 c.c., nel nuovo testo e non in quello anteriore applicabile nella fattispecie – avrebbe mutato l’identificazione dell’azione, nonchè sollevato l’Agenzia dall’onere di provare il nesso causale tra l’opera dell’uomo e la formazione dei terreni alluvionali de quibus.
1.1. – Il motivo è inammissibile.
1.2. – Ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata. Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).
Così, dunque, i motivi di impugnazione che prospettino una pluralità di questioni sono altrettanto inammissibili in quanto, da un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza delle argomentazioni, le parti concernenti le separate censure (Cass. n. 18021 del 2016).
1.3. – Il motivo di ricorso, così come formulato, si connota viceversa per una confusa articolazione di una pluralità di censure eterogenee – riferite congiuntamente ed indistintamente a vizi in procedendo per asserita erronea applicazione di non meglio indicate regole procedurali riguardanti la rinnovazione e lo svolgimento della CTU in grado di appello – prive di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il preciso contenuto ed analizzarne la rispettiva fondatezza o meno. Tanto più che, in riferimento alla deduzione di un error in procedendo e, particolarmente, con riguardo alla deduzione della violazione di una norma afferente allo svolgimento del processo nelle fasi di merito, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, il rispetto dell’esigenza di specificità non cessa di essere necessario per il fatto che, com’è noto, la Corte di Cassazione, essendo sollecitata a verificare se vi è stato errore nell’attività di conduzione del processo da parte del giudice del merito, abbia la possibilità di esaminare direttamente l’oggetto in cui detta attività trovasi estrinsecata, cioè gli atti processuali; giacchè per poter essere utilmente esercitata tale attività della Corte presuppone che la denuncia del vizio processuale sia stata enunciata con l’indicazione dei singoli passaggi dello sviluppo processuale nel corso del quale sarebbe stato commesso l’errore di applicazione della norma sul processo, di cui si denunci la violazione, in modo che la Corte venga posta nella condizione di procedere ad un controllo mirato sugli atti processuali in funzione di quella verifica. L’onere di specificazione in tal caso deve essere assolto tenendo conto delle regole processuali che presiedono alla rilevazione dell’errore ed alla sua deducibilità come motivo di impugnazione (Cass. n. 4741 del 2005; cfr. Cass. 15604 del 2007; Cass. n. 6184 del 2009).
1.4. – Nella specie, viceversa, le censure appaiono contraddistinte dall’evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione, in partibus quibus, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018). Laddove, invece, l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova (nella specie CTU) con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 2 agosto 2016, n. 16056).
In particolare, è principio consolidato che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (Cass. n. 17693 del 2013; Cass. 22799 del 2017); e che la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre addirittura la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti, e l’esercizio di un tale potere (così come il mancato esercizio) non è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 8355 del 2007; cfr. Cass. n. 17906 del 2003; Cass. n. 5777 del 1998).
Relativamente poi al profilo secondo cui la Corte di merito – formulando un quesito che postulava l’applicazione dell’art. 947 c.c., nel nuovo testo, e non in quello anteriore applicabile nella fattispecie – avrebbe mutato l’identificazione dell’azione, nonchè sollevato l’Agenzia dall’onere di provare il nesso causale tra l’opera dell’uomo e la formazione dei terreni alluvionali de quibus, esso va esaminato e risolto nell’ambito del secondo motivo.
2. – Con il quale, i ricorrenti censurano la “Violazione e falsa applicazione di legge con riferimento agli artt. 941 e 947 c.c.in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, per avere la Corte di merito escluso la sussistenza delle caratteristiche del fenomeno alluvionale, come definito dall’art. 941 c.c., ritenendo che la totale emersione dei terreni in questione fosse stata causata dall’opera dell’uomo, quando l’Agenzia del Demanio, nel corso del giudizio di primo grado, non aveva mai svolto contestazioni circa la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 941 c.c., limitandosi a opporre l’eccezione di cui all’art. 947 c.c., senza fornire alcuna prova a sostegno delle proprie doglianze. La Corte di merito avrebbe omesso di considerare tale circostanza. Anzi la Corte territoriale, nell’ammettere la nuova CTU, ha errato due volte, ritenendo da un lato che l’onere probatorio di cui all’art. 947 c.c., fosse a capo degli odierni ricorrenti, e dall’altro, ritenendo che la CTU di primo grado non avesse indagato sull’efficacia delle “opere dell’uomo”, con particolare riferimento alla “attività umana di costruzione e prolungamento della curva di navigazione n. 35”. Inoltre, il nuovo CTU avrebbe introdotto nella relazione temi del tutto nuovi, con particolare riferimento ai fatti della “escavazione attuata a partire dagli anni 60”, della “fusione di isole”, del “piano di regimazione” e delle “relative opere”.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – La Corte di merito (quanto all’assunto secondo cui l’Agenzia del Demanio, nel corso del giudizio di primo grado, non avrebbe svolto contestazioni circa la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 941 c.c., limitandosi a opporre l’eccezione di cui all’art. 947 c.c., senza fornire alcuna prova a sostegno delle proprie doglianze) precisa che le ragioni dell’Avvocatura dello Stato, per resistere alla domanda degli attori, diretta al riconoscimento dell’acquisto a titolo originario della proprietà dei terreni in questione per alluvione, fossero chiarissime e ben delineate fin dall’inizio della causa, e che le tesi dell’ente convenuto non costituissero neanche delle eccezioni in senso tecnico, in quanto riguardanti la contestazione dei presupposti stessi per l’esercizio del diritto fatto valere configurando pertanto una questione rilevabile d’ufficio.
La questione centrale non attiene alla (non contestata) applicabilità ratione temporis – per i pregressi fenomeni di inalveamento – della disciplina di cui agli artt. 941,942 e 947 c.c., nel testo previgente alle modifiche apportate dalla L. 5 gennaio 1994, n. 37, prive peraltro di efficacia retroattiva (in tal senso, Cass. n. 11101 del 2002).
In particolare dell’art. 942 c.c., comma 1 (che, nel testo vigente, prevede che “I terreni abbandonati dalle acque correnti, che insensibilmente si ritirano da una delle rive portandosi sull’altra, appartengono al demanio pubblico, senza che il confinante della riva opposta possa reclamare il terreno perduto”) disponeva che “Il terreno abbandonato dall’acqua corrente, che insensibilmente si ritira da una delle rive portandosi sull’altra, appartiene al proprietario della riva scoperta, senza che il confinante della riva opposta possa reclamare il terreno perduto”. A sua volta l’art. 947 (che, nel testo vigente, prevede che “Le disposizioni degli artt. 942, 945 e 946, si applicano ai terreni comunque abbandonati sia a seguito di eventi naturali che per fatti artificiali indotti dall’attività antropica, ivi comprendendo anche i terreni abbandonati per fenomeni di inalveamento”) disponeva che “Le disposizioni degli artt. 941, 942, 945 e 946, non si applicano nel caso in cui le alluvioni e i mutamenti nel letto dei fiumi derivano da regolamento del loro corso, da bonifiche o da altre simili cause”.
2.3. – Orbene, la Corte d’appello del tutto correttamente afferma che “i soggetti che agiscono per ottenere il riconoscimento dell’acquisto della proprietà a titolo originario di terreni per alluvione (…) devono dimostrare due requisiti: che le unioni di terra e gli incrementi si siano formati in modo naturale e impercettibile, come richiesto dalla legge, e che le formazioni non abbiano come causa l’opera dell’uomo” (sentenza impugnata pag. 12).
In tema di accessione fluviale, il presupposto per cui potesse originarsi il diritto di proprietà dell’alveo derelitto di un fiume o torrente, ai sensi del previgente dettato degli artt. 942 e 947 c.c., si basava, come detto, sul fatto che il corso d’acqua avesse abbandonato il suo letto per cause naturali, ossia per forza spontanea, e non per intervento antropico, cioè derivante dall’opera dell’uomo. Perciò, risulta ripetutamente affermato che il presupposto per il verificarsi del diritto di accessione a favore dei proprietari confinanti con l’alveo derelitto di un fiume o di un torrente, secondo il disposto degli artt. 942-947, anteriore alla novella del 1994, era che questo avesse abbandonato il letto per una forza spontanea, naturale, non per l’opera dell’uomo (Cass. n. 1916 del 2011; Cass. n. 2314 del 2008; Cass. sez. un. n. 11101 del 2002; Cass. n. 4753 del 2002; Cass. n. 300 del 1997; così pure, Tribunale superiore delle acque pubbliche n. 163 del 2013).
2.4. – Il fatto costitutivo della domanda di accessione proposta dal privato è rappresentato non solo dalla sussistenza fattuale di un materiale apporto di terreno che accrescesse la superfice del fondo del privato istante, ma dalla peculiare genesi di quell’emersione di terreno, che doveva rinvenirsi in cause naturali, ossia non derivanti dall’intervento dell’uomo. Gli attori avrebbero, dunque, dovuto provare non solo la formazione dei terreni alluvionali ma anche che tale formazione non fosse dovuta all’opera dell’uomo, atteso che, diversamente, non poteva configurarsi alcun acquisto di proprietà in capo a privati.
Sicchè, lungi dal determinare il lamentato sovvertimento dell’onere probatorio in danno dei ricorrenti, l’espletamento della nuova CTU ha fornito un contributo, necessariamente tecnico, all’accertamento della configurabilità dei fatti costitutivi della domanda. Infatti, benchè le parti non possano sottrarsi all’onere probatorio a loro carico invocando, per l’accertamento dei propri diritti, una consulenza tecnica di ufficio, non essendo la stessa un mezzo di prova in senso stretto, è tuttavia consentito al giudice fare ricorso a quest’ultima per acquisire dati la cui valutazione sia poi rimessa allo stesso ausiliario (c.d. consulenza percipiente) purchè la parte, entro i termini di decadenza propri dell’istruzione probatoria, abbia allegato i corrispondenti fatti, ponendoli a fondamento della sua domanda, ed il loro accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. n. 20695 del 2013; cfr. Cass. 1190 del 2015).
3. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 8.000,00 per compenso professionale, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2018
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