Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.31502 del 05/12/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22612-2013 proposto da:

M.S., *****, domiciliato come in atti, rappresentato e difeso dall’avvocato AGATINO CARIOLA;

– ricorrente –

contro

ASSESSORATO ALLA SANITA’ DELLA REGIONE SICILIANA – GESTIONE LIQUIDATORIA USL/***** DI ADRANO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AZIENDA UNITA’ SANITARIA PROVINCIALE DI CATANIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 631/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 11/06/2013 R.G.N. 1438/2006.

FATTO E DIRITTO

RILEVATO CHE:

1. I dottori M.S. e V.A. adivano il Giudice del lavoro di Catania e, premesso di avere prestato attività di quali medici convenzionati del Servizio Sanitario Nazionale fino a quando nel settembre 1994 la convenzione era stata sospesa a motivo della pendenza di un procedimento penale a carico degli stessi, esponevano che, a seguito dell’assoluzione con formula piena da ogni accusa, avevano chiesto alla Asl n. ***** di Catania, a titolo di restitutio in integrum, la corresponsione del trattamento economico non percepito nel periodo di sospensione.

2. Il Giudice adito, per quanto ancora qui rileva, accoglieva la domanda e per l’effetto dichiarava il diritto dei ricorrenti alla corresponsione del trattamento economico dovuto nel periodo di sospensione corrente dal luglio al settembre 1994 per il M. e limitatamente al mese di luglio 1994 per il V., oltre accessori.

3. L’Assessorato Regionale alla Sanità – Gestione liquidatoria della Usl n. ***** di Adrano proponeva appello censurando la soluzione interpretativa seguita dal Giudice di primo grado, che aveva ritenuto applicabile in via analogica il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 97, mentre tale disciplina è propria e peculiare dei rapporti di pubblico impiego, nel cui novero non rientra il rapporto dei medici convenzionati con il Servizio sanitario Nazionale.

4. La Corte di appello di Catania accoglieva l’impugnazione e, per l’effetto, riformando la sentenza di primo grado, rigettava integralmente le domande proposte dagli originari ricorrenti.

4.1. Premesso che i dottori M. e V., medici convenzionati con la USL, avevano subito l’applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio della professione medica per mesi due, ai sensi dell’art. 291 c.p.p., irrogata in esecuzione di un provvedimento l’autorità giudiziaria e quindi atto dovuto, la Corte di appello osservava che il rapporto del medico convenzionato con le Regioni o le Unità Sanitarie Locali, nella disciplina fissata la L. n. 833 del 1978, art. 48 e dagli accordi collettivi nazionali, non si inserisce nell’ambito del pubblico impiego, trattandosi di un rapporto di prestazione d’opera professionale che riveste i connotati della collaborazione coordinata e continuativa e assume il carattere della parasubordinazione. Pertanto, le previsioni che regolano nel pubblico impiego il periodo di sospensione cautelare dal servizio in pendenza del procedimento penale, tra cui l’art. 97 del T.U. n. 3 del 1957, invocato dai ricorrenti, non possono trovare applicazione alla fattispecie. Nè è ravvisabile una lacuna dell’ordinamento da colmare mediante interpretazione analogica, poichè per il rapporto di lavoro autonomo in convenzione l’ordinamento detta una disciplina legislativa specifica e differente da quella prevista per il rapporto di pubblico impiego.

4.2. Per altro verso, rilevava la Corte di appello che, secondo l’orientamento interpretativo del Consiglio di Stato, anche nel pubblico impiego la sospensione cautelare obbligatoria disposta nei confronti del dipendente pubblico sottoposto a misure cautelari penali restrittive della libertà personale non dà luogo a restitutio in integrum, a differenza di quanto avviene nel caso della sospensione cautelare facoltativa.

5. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il dott. M. sulla base di un motivo. Resiste con controricorso l’Assessorato Regionale alla Sanità Gestione liquidatoria Usl n. ***** di Adrano. Il ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. (inserito dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1, lett. f, conv. in L. n. 25 ottobre 2016, n. 197).

CONSIDERATO CHE:

1. Con unico motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 12 preleggi, comma 2, e vizio di carente motivazione per non avere la sentenza spiegato le ragioni per cui non potrebbe procedersi ad applicazione analogica dell’art. 97 T.U. n 3/57 e per non avere debitamente considerato che la soluzione accolta viola i principi costituzionali (artt. 2,4,41 e 24 Cost.), essendo principio di civiltà giuridica quello in base al quale chi si sia trovato ingiustamente coinvolto nell’esercizio delle proprie funzioni in un procedimento penale ha diritto, una volta accertata la sua innocenza, ad essere risarcito dei pregiudizi subiti a mezzo della sua riammissione al lavoro e in ogni caso con il risarcimento del danno.

2. Il ricorso è infondato.

3. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, il rapporto dei medici, che svolgono attività in regime di convenzione con le aziende sanitarie, configura un rapporto privatistico di lavoro autonomo-professionale con i connotati della cosiddetta parasubordinazione ed esula dall’ambito del pubblico impiego (Cass. S.U. 2955 del 1984). Corollario di tale configurazione è l’inapplicabilità al suddetto rapporto di disposizioni che presuppongono la natura subordinata del rapporto di lavoro (così, è stata esclusa l’applicabilità del disposto dell’art. 36 Cost., in tema di proporzionalità e adeguatezza della retribuzione, norma ritenuta dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza applicabile unicamente ai rapporti di lavoro subordinato; cfr. proprio in relazione proprio ai medici in regime di convenzione: Cass. n. 10168 del 2004, Cass. n. 531 del 1998 e Cass. n. 11057 del 1992).

3.1. Sulla base di tale premessa, è privo di fondamento giuridico la pretesa di vedere applicati ai medici professionisti che prestato attività di collaborazione in regime di convenzione con il servizio sanitario gli istituti propri del regime ordinamentale che regola il rapporto di pubblico impiego. Già in precedenti occasioni, questa Corte aveva affermato che la fattispecie di cui al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 97 è norma di carattere eccezionale, relativa ai soli dipendenti statali, in quanto “..inidonea ad assurgere a principio generale dell’ordinamento…” (Cass. 6557 del 2014). Tale rilievo ha carattere assorbente di ogni altra considerazione.

4. Per completezza espositiva, va altresì rilevato che, ove pure potesse ipotizzarsi un’analogia, la similitudine andrebbe ravvisata tra la fattispecie in esame, in cui il periodo di sospensione oggetto della rivendicazione economica del M. corrisponde al periodo della misura cautelare interdittiva della sospensione dall’esercizio della professione medica disposta dall’autorità giudiziaria penale, e quella della sospensione obbligatoria dal servizio adottata dalla P.A. nei confronti del dipendente pubblico soggetto a provvedimenti restrittivi della libertà personale, poichè in entrambi i casi si tratta di atti dovuti e non dipendenti dall’esercizio di una facoltà discrezionale esercitata dal datore di lavoro, con la conseguenza che comunque non spetterebbe la retribuzione (rectius, i compensi) per il periodo in questione. E’ stato, difatti, affermato da questa Corte che il diritto del dipendente pubblico alla restitutio in integrum non può essere estesa anche ai periodi di sospensione obbligatoria disposta a seguito di custodia cautelare, perchè in tal caso la perdita della retribuzione si riconnette ad un provvedimento necessitato dallo stato restrittivo della libertà personale del dipendente e non, invece, ad un comportamento volontario ed unilateralmente assunto dal datore di lavoro pubblico, come nell’ipotesi di sospensione facoltativa in pendenza del procedimento penale o disciplinare (Cass. n. 20321 del 2016). Si è infatti osservato che lo stato di custodia cautelare in carcere, con conseguente assoluta impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, costituisce una autonoma causa di esclusione del diritto alla retribuzione per il periodo di detenzione; in assenza di una specifica disciplina più favorevole, consegue dal principio generale secondo cui, quando il prestatore non adempia all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell’adempimento dell’obbligazione retributiva, come per ogni caso di assenza ingiustificata (o non validamente giustificata) dal lavoro.

5. Del tutto estranea alla domanda restitutoria ex art. 97 T.U. n. 3/57 azionata nel presente giudizio, è la prospettata (per la prima volta in questa sede) pretesa di ordine risarcitorio per i danni patiti in dipendenza della misura cautelare interdittiva. In parte qua il ricorso è inammissibile.

6. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento, in favore dell’Assessorato alla Sanità della Regione Siciliana – Gestione liquidatoria Unità Sanitaria Locale n. ***** di Adrano, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese prenotate a debito. Nulla va disposto per le spese nei confronti dell’Unità sanitaria provinciale, rimasta intimata.

7. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (legge di stabilità 2013).

L’obbligo di versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa. Tale previsione si applica ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2018

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