LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2958-2013 proposto da:
CHARLIE S.R.L., c.f. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A. GRAMSCI 54, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE RIZZO, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCO DE LAURENTIIS, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
T.T.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 407/2011 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZ. DIST. DI TARANTO, depositata il 06/12/2011 R.G.N. 131/2010.
RILEVATO
che la Corte di Appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con sentenza depositata in data 6.12.2011, ha respinto il gravame interposto dalla Charlie S.r.l., nei confronti di T.T., avverso la sentenza del Tribunale di Taranto che, in parziale accoglimento del ricorso proposto dal T., riconosciuta la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, aveva condannato la società a corrispondere al dipendente la somma di Euro 45.364,57, oltre accessori di legge, a titolo di T.F.R., indennità di mancato preavviso e percentuale del 10% sugli incassi, come da previsione contenuta nel contratto sottoscritto il 10.1.2005;
che per la cassazione della sentenza ricorre la Charlie S.r.l. articolando un motivo contenente più censure;
che il T. è rimasto intimato;
che il P.G. non ha formulato richieste.
CONSIDERATO
che con l’unico motivo articolato si censura: “error in iudicando e in procedendo. Violazione art. 360, commi 3 e 5. Violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 345 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione artt. 1362 c.c. e segg.. Violazione e falsa applicazione artt. 2118 e 2119 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 8. Insufficiente motivazione per mancata o insufficiente od erronea valutazione di risultanze processuali. Violazione dell’onere probatorio. Omessa statuizione su un punto decisivo della controversia”, ed in particolare si lamenta che la sentenza impugnata sarebbe frutto di una valutazione acritica e superficiale delle risultanze processuali e probatorie e di una astratta, insufficiente ed omessa motivazione in ordine alle prove assunte nel giudizio di primo grado ed alle censure formulate dalla società nel ricorso in appello; inoltre, a parere della parte ricorrente, la Corte di merito non avrebbe considerato che con la scrittura privata del ***** si era inteso stipulare un contratto atipico, dal quale discendeva la possibilità per il T. di svolgere le proprie mansioni in modo autonomo senza alcuna ingerenza della parte datoriale, nè di terzi, ed avrebbe, invece, ravvisato, senza sufficienti prove al riguardo, la sussistenza, di fatto, di un rapporto di lavoro subordinato;
che il motivo non può essere accolto, innanzitutto perchè solleva un coacervo di censure senza il rispetto del canone della specificità del motivo, che determina, nella parte argomentativa dello stesso, la difficoltà di scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio e, dunque, di effettuare puntualmente l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo, tra le molte, Cass. nn. 21239/2015, 7394/2010, 20355/2008, 9470/2008); al riguardo, va sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte, dinanzi ad un motivo di ricorso che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., hanno ribadito la stigmatizzazione di tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irrimediabile eterogeneità” (Cass., S.U., nn. 17931/2013, 26242/2014);
che, quanto alla denunciata violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va ribadito che i difetti di omissione e di insufficienza della motivazione sono configurabili solo quando, dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza oggetto del giudizio, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando si evinca l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito finalizzata ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014);
che, nel caso di specie, i giudici di seconda istanza, attraverso un percorso motivazionale ineccepibile sotto il profilo logico-giuridico, sono pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado, argomentando correttamente in ordine al procedimento di sussunzione che viene, in questa sede, censurato con doglianze che si risolvono in considerazioni di fatto inammissibili e sfornite di qualsiasi deduzione probatoria, poichè mancano della focalizzazione del momento di conflitto, rispetto alle critiche sollevate, dell’accertamento operato dai giudici di merito (cfr., Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che, pertanto, le censure articolate dalla parte ricorrente come vizio di motivazione – sostanzialmente tese a condurre ad una valutazione difforme rispetto a quella cui è pervenuta la Corte distrettuale, sulla base di una diversa lettura del materiale probatorio – appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza oggetto del giudizio di legittimità;
che, inoltre, il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito; per la qual cosa “la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito” (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014 citt.; Cass. n. 2056/2011); e, per quanto anche innanzi evidenziato, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso motivazionale del tutto condivisibile;
che correttamente i giudici di Appello hanno esercitato il potere-dovere di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen iuris diverso da quello inizialmente indicato dalle parti, in quanto, facendo corretta applicazione del principio Tura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, hanno effettuato, appunto, una operazione di qualificazione giuridica del rapporto, correttamente e motivatamente ritenuto di lavoro subordinato sin dal momento in cui lo stesso ha avuto inizio (*****), avuto riguardo “alle espressioni letterali utilizzate” nel contratto, “alla intervenuta regolarizzazione del rapporto nel *****”, nonchè alle modalità di svolgimento dello stesso, quali emerse in sede probatoria, ed agli elementi tipici che, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di legittimità, connotano il predetto rapporto di lavoro (v., ex plurimis, Cass. nn. 1153/2013; 7171/2013; 1717/2009);
che, infatti, in ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata dalle parti, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, onde pervenire alla identificazione della natura giuridica, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi, tra l’altro, tenere conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale. Pertanto, il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto medesimo e diretta a modificare singole sue clausole, e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista. Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro (al riguardo, e per ciò che più specificamente attiene agli indici di subordinazione, cfr. Cass. n. 7024/2015);
che è infine da rilevare che la parte ricorrente lamenta che la Corte di merito non avrebbe fatto una corretta interpretazione della scrittura privata del *****, senza, peraltro, produrre nè trascrivere la stessa; ed inoltre che alcuni motivi di appello non sarebbero stati correttamente vagliati, senza neppure riprodurre tali motivi: e ciò, in violazione dell’art. 366 codice di rito, comma 1, n. 6, che pone a carico del ricorrente l’onere di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, al fine di renderne possibile l’esame e di dare modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità delle asserzioni addotte (Cass., S.U., nn. 16887/2013; 7161/2010; Cass. nn. 8569/2013; 1435/2013; 15628/2009);
che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;
che nulla va disposto in ordine alle spese del presente giudizio, poichè il T. non ha svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla spese.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 13 dicembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018
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