LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8553/2014 proposto da:
M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 42, presso lo studio degli avvocati ANTONIO DE PAOLIS e PAOLO ERMINI, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ELISABETTA LANZETTA, CHERUBINA CIRIELLO, SEBASTIANO CARUSO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 724/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata l 23/09/2013; r.g.n. 2324/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2019 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del primo e secondo motivo, accoglimento del terzo motivo;
udito l’Avvocato SEBASTIANO CARUSO.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 724/13 del 23 settembre 2013, pronunciando sull’appello proposto dall’INPS nei confronti di M.C., avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Latina, in accoglimento dello stesso rigettava l’originaria domanda della lavoratrice.
2. Il Tribunale aveva accolto la domanda della lavoratrice volta ad ottenere le differenze retributive tra la posizione economica rivestita dell’Area B) e quella C 1), dal 1 marzo 2003 fino al 31 gennaio 2006.
3. La Corte d’Appello, dopo aver ripercorso le declaratorie contrattuali (CCNL enti pubblici non economici del 16 febbraio 1999) delle Aree B) e C), ha affermato che le mansioni esercitate dalla lavoratrice rispondevano integralmente alla declaratoria dell’Area B), posto che la stessa si occupava delle pratiche di invalidità civile sulla base di procedure ben definite e sempre sotto la valutazione ed il controllo dei soggetti responsabili, cui competeva il potere di firma dei provvedimenti esterni.
La lavoratrice, inoltre, non aveva allegato e tantomeno provato di essersi occupata della ottimizzazione dell’impiego delle risorse a disposizione e di aver assunto il ruolo di facilitatore del processo ai fini del raggiungimento degli obiettivi stabiliti, di aver assunto la responsabilità di moduli organizzativi, di aver operato orientando il proprio contributo professionale all’ottimizzazione del sistema, contribuendo al monitoraggio della qualità, di essere in possesso di cultura di impresa, di aver gestito le varianze, prerogative tipiche ed esclusive dei lavoratori inquadrati nell’Area C).
4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre M.C., prospettando tre motivi di ricorso.
5. Resiste l’INPS con controricorso.
6. In prossimità dell’udienza pubblica la lavoratrice ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 434 e 342 c.p.c..
Omessa (apparente), insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla censura, prospettata dalla parte appellata, circa la nullità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi di impugnazione.
La Corte d’Appello si era limitata e disattendere l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione dell’INPS in quanto il ricorso in appello era articolato in specifici motivi di censura, relativi a capi e statuizioni contenute nella sentenza impugnata.
Tuttavia, assume la ricorrente, l’Istituto appellante non aveva esposto i fatti della controversia e i motivi specifici dell’impugnazione, limitandosi a riprodurre le contestazioni già formulate in primo grado.
La lavoratrice richiama la giurisprudenza di legittimità sulla specificità dei motivi di appello e prospetta che l’atto di appello non avrebbe consentito di acquisire una precisa cognizione dei termini della controversia.
L’INPS, al più, avrebbe contestato che la ricorrente lavorava in piena autonomia e gestendo l’intero iter procedimentale, senza ulteriori motivi specifici di censura, non cogliendo la ratio decidendi della sentenza di primo grado che aveva fondato la propria decisione su vari argomenti desunti dalle prove testimoniali e dal materiale istruttorio.
2. Occorre premettere che, con il D.L. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni nella L. n. 134 del 2012, il legislatore è intervenuto riscrivendo il testo degli artt. 342 e 434 del codice di rito.
Il testo oggi vigente trova applicazione agli atti di appello proposti successivamente alla data dell’11 settembre 2012 (Cass., S.U., n. 27199 del 2017).
Nella specie, l’atto di appello è stato depositato il 15 marzo 2010 (v. pag. 5 del ricorso per cassazione della lavoratrice), per cui trova applicazione la disciplina anteriore alla riforma.
2.1. Le Sezioni Unite, nella sentenza da ultimo citata, nel ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale delle suddette disposizioni hanno posto in evidenza che con la sentenza S.U. n. 16 del 2000, confermata dalla giurisprudenza successiva, si era affermata, pur in assenza di un’espressa previsione nel tessuto normativo allora vigente, l’inammissibilità dell’atto di appello redatto in forme non rispettose dell’art. 342 del codice di rito.
La giurisprudenza di legittimità ha poi statuito che “il requisito della specificità dei motivi di appello postula che alle argomentazioni della sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, finalizzate ad inficiare il fondamento logico-gturidico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza scindibili dalle argomentazioni che le sorreggono”, per cui è indispensabile “che l’atto di appello contenga sempre tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione” (sentenza n. 10401 del 2001); con la conseguenza che la mancanza di specificità conduce all’inammissibilità dell’appello (n. 967 del 2004).
Tale orientamento è stato confermato da altre pronunce le quali hanno posto in luce che l’appello è una revisio prioris instantiae e non un novum iudicium, e che la necessità dell’indicazione, da parte dell’appellante, delle argomentazioni da contrapporre a quelle contenute nella sentenza di primo grado serve proprio ad incanalare entro precisi confini il compito del giudice dell’impugnazione, consentendo di comprendere con certezza il contenuto delle censure. Tutto questo, però, senza inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, le sentenze n. 12984 del 2006, n. 9244 del 2007, n. 25588 del 2010, n. 18932 del 2016, n. 4695 del 2017; tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze delle Sezioni Unite n. 28057 del 2008, e n. 23299 del 2011).
3. Il motivo è inammissibile.
3.1. Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (cfr., Cass., n. 29093 del 2018).
3.2. Nella specie, la ricorrente, disattendendo le indicazioni dell’art. 366 c.p.c., ha omesso sia di individuare e riportare le statuizioni dei capi della sentenza di prime cure (di cui riporta, in una personale ricomposizione, atteso l’inserimento di puntini sospensivi, stralci, si v. in particolare pagg. 18 e 19 del ricorso per cassazione) nei confronti delle quali i motivi proposti risulterebbero privi di specificità – sia di trascrivere per esteso il contenuto dell’atto di appello dell’INPS, così impedendo alla Corte, in difetto della compiuta descrizione del fatto processuale, di procedere alla preliminare verifica di ammissibilità del motivo di ricorso mediante accertamento della rilevanza e decisività del vizio denunciato rispetto alla pronuncia impugnata per cassazione.
Ciò, tanto più rileva, laddove si consideri che dalla sentenza impugnata emerge che il ricorso in appello dell’INPS “è articolato in specifici motivi di censura relativi a determinati capi e statuizioni contenute nella sentenza impugnata”, con ciò implicitamente intendendo che i motivi dell’atto di appello avevano “specificamente” investito la sentenza di primo grado (v., Cass., n. 12664 del 2012, n. 86 del 2012).
3.3. Peraltro, occorre ricordare che come questa Corte ha già avuto modo di affermare che, anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass., S.U., n. 8077 del 2012).
4. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss.; del contratto collettivo nazionale di lavoro enti pubblici non economici e del contratto integrativo di ente; degli artt. 115 e 116 c.p.c.; del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52.
Omessa (apparente) insufficiente e contraddittoria motivazione in riferimento all’interpretazione delle emergenze istruttorie.
La ricorrente contesta l’interpretazione delle declaratorie contrattuali Area B) e Area C), del CCNL enti pubblici non economici del 1999, in quanto a proprio avviso è proprio l’ampiezza delle competenze a determinare l’appartenenza ad un Area o all’altra, e da tale ampiezza dipendono il grado di autonomia, competenza e responsabilità.
Erroneamente, e con motivazione apparente, la Corte d’Appello aveva ritenuto che essa ricorrente avesse seguito solo le fasi del processo e non l’intero processo produttivo, e che non ne avesse la responsabilità.
Le risultanze istruttorie (testi D.M.G. e R.A.) erano state in senso diverso, favorevole alla lavoratrice.
Non era poi dirimente l’eventuale assoggettamento a valutazione e controllo, in quanto ciò non esclude lo svolgimento di funzioni Area C), atteso che tutti i dipendenti pubblici sono soggetti a valutazione.
Inoltre, circa la affermata mancata allegazione da parte della lavoratrice degli altri elementi della declaratoria professionale Area C), la stessa rilevava che si potevano desumere dallo svolgimento delle relative mansioni, essendo implicite nelle stesse. Inoltre tali elementi non rappresentavano mansioni caratteristiche dell’Area C), che invece, consistono nella esecuzione dell’intero ciclo, ma prerogative caratterizzanti le mansioni.
I testi avevano confermato che la lavoratrice seguiva tutto il processo, sino alla liquidazione delle prestazioni che venivano pagate dalla banca in ragione dei mandati effettuati telematicamente dalla lavoratrice stessa.
Nell’Area B) non era indicato il profilo “operatore di processo”, espressamente previsto dall’Area C), ma “operatore di linea” che attiene allo svolgimento di funzioni meramente interne.
4.1 Il motivo è in parte inammissibile in parte non fondato.
4.2. Quanto al vizio di omessa e apparente motivazione si rileva che è applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicchè quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perchè non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.
Ciò non ricorre nel caso in esame, atteso che il giudice del merito nell’applicare le disposizioni contrattuali, dopo aver ripercorso il contenuto delle stesse, ha tenuto conto delle mansioni svolte dalla ricorrente dando atto delle stesse in relazione alle declaratorie dell’Area B) e dell’Area C), con conseguente inammissibilità della censura.
4.3. Gli ulteriori profili di censura del secondo motivo di ricorso non sono fondati nella parte in cui contestano l’interpretazione delle declaratorie contrattuali del CCNL enti pubblici economici del 1999 effettuata dalla Corte d’Appello, e sono inammissibili sia con riguardo all’interpretazione del CCNI, sia con riguardo all’accertamento effettuato dalla Corte d’Appello.
Si rileva che la censura rivolta la CCNI, ai sensi dell’art. 1362 c.c. e ssg., è inammissibile in quanto non sono specificati i criteri ermeneutici che sarebbero stati violati, e i principi in esse contenuti, rispetto ai quali vi sarebbe stato il discostamento da parte del giudice di merito.
Ed infatti, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la regola posta dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi, deve intendersi limitata ai contratti ed accordi nazionali di cui all’art. 40 del predetto D.Lgs., con esclusione dei contratti integrativi contemplati nello stesso articolo, in relazione ai quali il controllo di legittimità è finalizzato esclusivamente alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass., n. 14449 del 2017).
4.4. L’interpretazione delle declaratorie contrattuali Area B) e Area C) del CCNL enti pubblici economici del 1999, di cui si duole la ricorrente, ha costituito già oggetto di esame da parte di questa Corte, che ha proceduto alla diretta interpretazione delle disposizioni contrattuali, ai sensi dell’art. 360, n. 3, come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, in relazione a fattispecie che analogamente a quella in esame, attenevano, sia pure con riguardo ad un diverso Ente (INAIL), all’attribuzione di differenze retributive per mansioni superiori.
Nella sentenza n. 8683 del 2018 (cui adde, Cass., n. 14204 del 2018) si è affermato che il c.c.n.l. 16/2/1999 per i dipendenti del comparto enti pubblici non economici inserisce nell’Area B) il personale “strutturalmente inserito nel processo produttivo” che svolge “fasi o fasce di attività nell’ambito di direttive di massima e di procedure predeterminate attraverso la gestione delle strumentazioni tecnologiche”, valuta i casi concreti, interpreta le istruzioni operative e “risponde dei risultati secondo la posizione rivestita”.
La declaratoria allegata al contratto precisa, poi, che la posizione B2) presuppone una “effettiva capacità di controllo delle fasi e/o attività del processo in sintonia con il complesso dell’ambiente operativo; attitudini di problem solving con riferimento alla linea operativa; capacità di reperire le informazioni necessarie per le attività da svolgere e di operare con l’impiego delle strumentazioni informatiche e telematiche”.
All’Area C) appartiene, invece, il personale “competente a svolgere tutte le fasi del processo” che opera “a livelli di responsabilità di diversa ampiezza secondo lo sviluppo del curriculum”, e, quindi, differenziata in ragione della pluralità di ruoli organizzativi, di tipo sia gestionale (operatore di processo, facilitatore di processo, responsabile di processo, responsabile di struttura) che professionale (esperti di progettazione, specialisti di organizzazione). Nella declaratoria generale dell’Area si precisa che il personale nella stessa inserito “costituisce garanzia di qualità dei risultati, della qualità, di circolarità delle comunicazioni interne, di integrazione delle procedure, di consulenza specialistica”.
La posizione C1) presuppone “conoscenze ed esperienze idonee ad assicurare la capacità di gestire regolare i processi di produzione; attitudini al problem solving rapportate al particolare livello di responsabilità; capacità di operare orientando il proprio contributo all’ottimizzazione del sistema, contribuendo al monitoraggio della qualità; capacità di gestire le varianza del processo in funzione del cliente”.
Si è, quindi, affermato nella citata sentenza di questa Corte n. 8853 del 2018, che l’Area C), quindi, si caratterizza rispetto a quella inferiore, oltre che per il diverso livello di conoscenze richiesto al dipendente, per la capacità di quest’ultimo di svolgere tutte le fasi del processo, garantendo la qualità del risultato e con assunzione di responsabilità che, seppure graduata con riferimento allo sviluppo professionale all’interno dell’Area stessa, è elemento richiamato in tutti i profili.
Al contrario il personale dell’Area B), il quale esegue fasi di attività nell’ambito di direttive di massima e di procedure predeterminate, si limita a “rispondere dei risultati secondo la posizione rivestita”, circoscritta alla singola fase, nell’ambito della quale è tenuto solo ad “orientare il contributo professionale ai risultati complessivi del gruppo”.
4.5. Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi laddove ha affermato che la distinzione tra Area C) ed Area B) può essere collegata alla maggiore responsabilità che caratterizza la professionalità della prima, connessa essenzialmente alla gestione di un intero settore di attribuzioni, con conseguente attribuzione di potere decisionale in ordine ad esso e assunzione delle relative responsabilità; la professionalità caratterizzante l’Area B), al contrario riguarda non un intero settore, ma è circoscritta a singole attività di esso, con la conseguenza che l’autonomia decisionale risulta limitata all’assolvimento delle direttive di carattere generale impartite dal responsabile e la responsabilità è connessa all’esecuzione delle stesse.
La Corte d’Appello, pertanto, ha escluso il diritto alle retribuzioni per le mansioni superiori svolte in ragione della puntuale verifica delle caratteristiche performanti della prestazione, priva della maggiore complessità delle attività espletate, rispetto a quelle esecutive dell’Area B) di formale appartenenza, di superiori margini di autonomia e di iniziativa, di capacità di adattamento rispetto alla scelta delle soluzioni richieste dalle specifiche problematiche di volta in volta trattate.
4.6 Quanto all’accertamento svolto dalla Corte d’Appello facendo specifico riferimento alle mansioni espletate dalla M. e a quanto dalla stessa non allegato e non provato in riferimento alla declaratoria dell’Area C), la relativa statuizione non è adeguatamente censurata atteso che la ricorrente si limita a riportare, secondo una personale lettura, come di evince dai puntini sospensivi inseriti nel testo (pag.30 del ricorso in appello) stralci delle deposizioni di due testi – peraltro non univoche atteso che mentre il teste D.M.G. riferiva “l’atto di pagamento è del responsabile di Agenzia”, il teste R.A. riferiva che la lavoratrice “curava l’istruttoria sino alla liquidazione effettuando al disposizione e la ragionerai mandava il tutto in Banca” – chiedendo a questa Corte un riesame delle risultanze istruttorie inammissibile in questa sede.
5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 91 c.p.c., e art. 92 c.p.c., comma 2.
Contraddittoria motivazione, nullità della sentenza, intima non intellegibilità ed illogicità.
E’ censurata in tal senso la statuizione della Corte d’Appello sulle spese di giudizio, in ragione del contrasto tra motivazione e dispositivo.
Mentre alla fine della motivazione della sentenza di appello si legge “Sussistono giusti motivi, attesa l’esistenza di difformi interpretazioni giurisprudenziali, per compensare interamente fra le parti le spese del grado”, nel dispositivo la Corte d’Appello “Condanna l’appellante al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio che liquida per il primo grado, in Euro 1.800.00, e per il secondo grado, in Euro 1.500.00, oltre accessori di legge”.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Nel rito del lavoro in presenza di un contrasto tra motivazione e dispositivo, vi è la prevalenza del dispositivo sulla motivazione (Cass., n. 12841 del 2016), attesa la prevalenza che nel suddetto rito deve attribuirsi al dispositivo, il quale, acquistando pubblicità con la lettura fattane in udienza, cristallizza la statuizione emanata nella fattispecie concreta (Cass. n. 7380 del 1997, cfr., n. 6786 del 2002, n. 13976 del 2003).
Tale orientamento trova, infatti, la propria ragione giustificativa nella peculiarità del rito del lavoro, in cui, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria ha una “rilevanza autonoma poichè racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione; ne consegue che le proposizioni contenute nella motivazione e contrastanti col dispositivo devono considerarsi come non apposte” (Cass. n. 12841 del 2016 che richiama Cass., n. 279 del 1996).
Pertanto, va rilevato, nella specie, il difetto d’interesse della lavoratrice all’impugnazione della statuizione del giudice di appello di condanna al pagamento delle spese di giudizio perchè non sussiste il prospettato contrasto, atteso che la proposizione circa la compensazione contenuta nella motivazione deve considerarsi come non apposta, e non è contestata la regola della soccombenza.
6. Il ricorso deve essere rigettato.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
8. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.500,00, per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2019
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