LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11680/2018 proposto da:
D.Y., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Cavour presso lo studio dell’avvocato Belardinelli Mariagiovanna che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
Ministero Dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 Avvocatura Generale Dello Stato. che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 29/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 18/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/05/2019 dal Cons. Dott. FEDERICO GUIDO.
RITENUTO IN FATTO
Con ricorso depositato tempestivamente, D.Y. cittadino originario del Gambia, impugnava dinanzi al Tribunale di Perugia il provvedimento con cui la Commissione Territoriale gli aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale e di quella umanitaria.
Il ricorrente riferiva di essere stato spinto a lasciare il Gambia per motivi familiari, consistenti nella morte del padre e nei maltrattamenti subiti da parte dello zio.
Il Tribunale di Perugia rigettava la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato e quella di protezione sussidiaria ed umanitaria.
La Corte d’Appello di Perugia con la sentenza n. 29/2018 confermava le statuizioni di prime cure.
Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, il richiedente.
Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, per violazione e falsa applicazione delle norme di diritto che regolano il particolare onere probatorio in materia di protezione internazionale, lamentando che la Corte avrebbe erroneamente messo in dubbio la credibilità dl ricorrente, in modo del tutto apodittico ed omettendo di applicare il regime probatorio attenuato previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.
Il motivo è inammissibile, in quanto non coglie la ratio fondamentale della pronuncia.
La Corte territoriale ha infatti ritenuto che le motivazioni del racconto erano di carattere esclusivamente familiare e non potevano dunque essere poste a sostegno dello status di rifugiato, e ciò, indipendentemente dalla credibilità delle dichiarazioni assai dubbia.
Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7,8 e 14, nonchè la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che la Corte abbia omesso di rilevare il concreto rischio di un danno grave alla persona nel caso di rientro del richiedente nel paese di provenienza, minaccia che non può essere esclusa per il solo fatto che la persecuzione non sia perpetrata dallo Stato. Si rileva inoltre la mancata sussunzione del caso di specie nella fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), assumendo che il Gambia è caratterizzato da una situazione territoriale destabilizzata in cui sono consueti l’uso eccessivo della forza e della tortura.
Il motivo è inammissibile in quanto neppure esso coglie la ratio della pronuncia.
La Corte territoriale ha rilevato non solo che il ricorrente ha fatto riferimento ad una vicenda di carattere strettamente familiare, ma anche che non è stato fatto alcun accenno alla insicurezza generale o alla assenza di protezione da parte delle autorità statali.
Quanto alla situazione dei cui all’art. 14, lett. c), si osserva che, come questa Corte ha già affermato, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza della Corte di Giustizia del 30.1.2014 (causa C285/12 – Diakitè) dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel paese o regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. 13858 del 31.5.2018). Nel caso di specie non risultano allegati dal ricorrente elementi idonei ad evidenziare una minaccia individuale alla vita o alla persona, nè una situazione di violenza cosi generalizzata nel paese di provenienza si che il solo rientro integri in sè pericolo di vita.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 268 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.P.R. n. 349 del 1999, art. 11, lamentando la mancata concessione della protezione umanitaria.
Il ricorrente, in particolare, rileva che non è stata adeguatamente valutata la situazione generale di precarietà in cui versa il paese di provenienza e la sua posizione personale, contrassegnata da indubbi elementi di fragilità, essendo approdato in Italia quando era ancora minorenne. La Corte, inoltre, non avrebbe tenuto in considerazione il fatto che il ricorrente aveva compiuto notevoli sforzi di integrazione, frequentando con diligenza corsi di lingua italiana e di istruzione e che egli aveva altresì concluso un contratto di lavoro di apprendistato con un’impresa presso la quale svolgeva attività lavorativa.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha rilevato che nulla era stata dedotto da parte del richiedente in ordine alla violazione di diritti fondamentali della persona in caso di rimpatrio.
Tale statuizione non risulta efficacemente contestata con la censura in esame.
Il riconoscimento della protezione umanitaria richiede infatti una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, che, pur partendo dal paese di origine dev’essere necessariamente correlata alla condizione personale del richiedente (Cass. 4455/2018).
Anche la protezione umanitaria, presuppone dunque l’allegazione in capo al ricorrente di una ben determinata situazione di “vulnerabilità” che va specificamente delineata nei suoi elementi costitutivi, onde consentire di effettuare una effettiva valutazione comparativa della situazione del richiedente con riferimento al paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass. 4455/2018).
Nel caso di specie tale situazione di significativa compromissione di diritti fondamentali inviolabili non è ravvisabile, atteso che viene genericamente dedotta la fragilità del ricorrente, senza peraltro che ne vengano specificati gli elementi caratterizzanti, mentre il solo livello di integrazione nel nostro paese non appare sufficiente a fondare il riconoscimento della protezione umanitaria.
Il ricorso va dunque respinto e le spese, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.
Poichè il ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, non deve disporsi il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio, che liquida in 2.100,00 Euro per compensi, oltre a spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 9 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019