Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21361 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 11534/2018 r.g. proposto da:

F.M.B., (cod. fisc. *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Paolo Coseano, elettivamente domiciliato in Roma, Via Ottaviano n. 9, presso lo studio dell’Avvocato Marina Tolu.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona Ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui Uffici è elettivamente domiciliato in Roma Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Trieste, depositata in data 12.3.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/5/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Trieste – decidendo sull’appello proposto da F.M.B., cittadino del Pakistan, avverso l’ordinanza emessa in data 3 aprile 2017 dal Tribunale di Trieste (con la quale erano state respinte le domande volte ad ottenere lo status di rifugiato e, in via subordinata, la protezione sussidiaria e quella umanitaria) – ha rigettato l’appello, confermando, pertanto, la sentenza impugnata.

La corte del merito ha ritenuto che dalle dichiarazioni rese dal richiedente si evinceva la ragione meramente economica sottostante alla decisione di espatriare dal Pakistan e dalla regione di sua provenienza, il Punjab; che dalle informazioni raccolte (relazione Easo-Coi) si ricavava che il Punjab è regione non interessata da una situazione di conflitto generalizzato e da violenza indiscriminata; che, anche in ragione del lavoro svolto e dalla situazione di espansione economica in essere nel paese di origine, non si rintracciava una condizione di particolare vulnerabilità del richiedente, tale da legittimare la richiesta di protezione umanitaria.

2. La sentenza, pubblicata il 12.3.2018, è stata impugnata da F.M.B. con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo ed unico motivo la parte ricorrente – lamentando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, artt. 29 e 32, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, artt. 3 e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, artt. 2 e 10 Cost. e degli artt. 9 e 10 Cedu e, infine, dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – si duole del mancato riconoscimento della protezione umanitaria. Osserva il ricorrente come la motivazione impugnata non avesse valorizzato il suo stato di integrazione sociale in Italia nè le attuali condizioni di rischiosità del Punjab. Denunzia, inoltre, come apodittica la motivazione resa dalla corte territoriale, sempre in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, laddove la stessa aveva respinto la richiesta avanzata a tal fine dal ricorrente solo perchè non circostanziata. Osserva ancora che il giudice di appello sarebbe venuto meno all’obbligo di cooperazione istruttoria del D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8, in merito all’accertamento delle reali condizioni sociopolitiche del paese di provenienza del richiedente.

2. Il ricorso è inammissibile.

2.1 L’unico motivo di censura, formulato in riferimento al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, è inammissibile.

2.1.1 Va subito osservato come le censure mosse dal ricorrente alla motivazione impugnata non aggrediscano la ratio decidendi principale posta a sostegno della decisione di non riconoscere la reclamata protezione umanitaria, decisione che si sostiene sulla mancanza di una condizione di particolare vulnerabilità del richiedente, anche in relazione al lavoro svolto in patria (il muratore) e alle condizioni di espansione economica della regione di provenienza del richiedente.

2.1.2 Se a ciò si aggiunge che le ulteriori censure svolte dal ricorrente intendono sollecitare la Corte di legittimità, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, ad una rivalutazione del merito della decisione in ordine alle condizioni socio politiche del Pakistan, a fronte peraltro di una motivazione che ha spiegato, sulla base delle fonti di informative internazionali, l’assenza di una condizione di violenza indiscriminata nel paese di provenienza, allora il giudizio di inammissibilità della censura risulta viepiù confermato.

Sul punto non è inutile ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019). E’ stato anche puntualizzato che le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (cfr. anche Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019).

Ciò detto, risulta di tutta evidenza come le doglianze rivolte dal ricorrente alla motivazione impugnata si muovano sul terreno della richiesta di rivalutazione della fattispecie concreta, rivalutazione peraltro svincolata da un critica all’interpretazione delle norme invocate, ponendosi le stesse ben al di là del perimetro delimitante la cognizione del giudizio di legittimità.

2.1.3 Va aggiunto che il riconoscimento della protezione umanitaria, secondo i parametri normativi stabiliti dal T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 19, comma 2 e D.Lgs.n. 251 del 2007, art. 32, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere, invero, l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine. A tal fine non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass., 23/02/2018, n. 4455).

Nel caso concreto, operando siffatta comparazione tra i due Paesi, quello di origine e quello di accoglienza, la Corte d’appello ha accertato – con valutazione in fatto, neppure censurata sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e fondata su elementi desunti da fonti internazionali citate in motivazione – che la regione di provenienza del ricorrente “non presenta caratteristiche di diffusa e pericolosa instabilità, con violenze generalizzate”. La Corte ha accertato, anzi, che si tratta “di zona in espansione economica e con situazione ampiamente controllata dal Governo”. D’altro canto le motivazioni di ordine esclusivamente economico, addotte dal ricorrente a giustificazione dell’abbandono del paese di origine, non lasciano spazio a valutazioni diverse.

A fronte di tale motivate argomentazioni, il motivo di ricorso – al di là di una serie di deduzioni di principio relative al regime giuridico del permesso di soggiorno per motivi umanitari – si riduce ad una sostanziale, quanto inammissibile, richiesta di rivisitazione del merito. Nessun rilievo specifico non essendo sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza – può attribuirsi, poi, come correttamente ha ritenuto il giudice di appello, all’eventuale radicamento lavorativo dell’immigrato in Italia (Cass. 4455/2018).

2.1.4 Sotto altro e concorrente profilo di inammissibilità del ricorso, deve essere evidenziato come le censure così proposte dal ricorrente si presentino anche generiche e non circostanziate in riferimento all’altro profilo di doglianza che attinge l’invocata mancata valutazione del livello di integrazione del richiedente in Italia.

Orbene, il ricorrente ha omesso qualsiasi riferimento ad eventuali allegazione dedotte nei gradi di merito in ordine alla valutazione comparativa tra la sua attuale condizione di richiedente protezione e quella del suo paese di origine, così venendo meno al suo dovere di allegazione e di prova sulla doglianza così proposta.

Ne consegue l’inammissibilità del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da separato dispositivo, con condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio, oltre che al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, statuizione che la Corte è tenuta ad emettere in base al solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia (di inammissibilità, improcedibilità o rigetto del ricorso, principale o incidentale), senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte, come l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (Cass., 05/04/2019, n. 9661).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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