Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21365 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15041/2018 r.g. proposto da:

F.M., (cod. fisc. *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta allegata al ricorso, dall’Avvocato Lorenzo Trucco, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Torino, Via Guicciradini n. 3;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona Ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui Uffici è elettivamente domiciliato in Roma Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino, depositata in data 3.11.2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/5/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Torino – decidendo sull’appello proposto dal MINISTERO DELL’INTERNO avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Torino (con la quale era stata accolta la domanda di protezione avanzata dal ricorrente, F.M., cittadino senegalese, limitatamente a quella umanitaria) – ha accolto l’appello, rigettando, pertanto, la domanda di protezione anche in relazione a quest’ultimo profilo di tutela.

La corte del merito ha ritenuto che la protezione umanitaria richiedeva una situazione di particolare vulnerabilità personale del richiedente e che il solo inserimento sociale di quest’ultimo in Italia tramite la frequentazione di corsi di lingua italiana e di un tirocinio formativo in materia di manutenzione del verde non costituiva un presupposto che, da solo, poteva legittimare la richiesta di rilascio di un titolo di soggiorno in Italia 2. La sentenza, pubblicata il 3.11.2017, è stata impugnata da F.M. con ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e dell’art. 10 Cost., comma 3;

– si duole del mancato riconoscimento della reclamata protezione umanitaria.

Lamenta il ricorrente la mancata considerazione della circostanza dell’inserimento sociale in Italia al fine di valutare la condizione di vulnerabilità maturata per le esperienze pregresse in Senegal ed in Italia.

2. Il ricorso è inammissibile.

2.1 Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, è invero evidente che la attendibilità della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante, atteso che, per valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine un’effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, la situazione oggettiva del paese d’origine deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente, la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi (Cass. 4455/2018).

Nel caso di specie, la Corte d’appello ha accertato che la concessione della protezione umanitaria è stata disposta dal Tribunale unicamente in considerazione del percorso di integrazione dell’immigrato in Italia, attestata dalla frequentazione di corsi di lingua e dallo svolgimento di un tirocinio formativo per l’avviamento al lavoro. Lo stesso Tribunale ha, però, ritenuto che il racconto del ricorrente, circa le ragioni che lo avevano indotto ad abbandonare il suo Paese, è “non credibile, vago, superficiale e contraddittorio”, per di più fondato sull’allegazione di mere liti familiari, e l’inattendibilità del racconto evidenzia la carenza di ragioni umanitarie da porre a fondamento del riconoscimento della protezione in parola.

Di più, il riconoscimento della protezione umanitaria, secondo i parametri normativi stabiliti dal T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 19, comma 2 e D.Lgs.n. 251 del 2007, art. 32, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere, invero, l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine.

A tal fine non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass., 23/02/2018, n. 4455).

Il motivo di ricorso, mentre non riporta alcun elemento – sottoposto ai giudici di merito – dal quale possa desumersi che il rientro in patria possa determinare per l’immigrato una grave compromissione dei propri diritti fondamentali, si traduce, in massima parte, in una richiesta di rivisitazione del merito inammissibile in questa sede (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 02/08/2016, n. 16056).

Nessun rilievo specifico – non essendo sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza – può attribuirsi, poi, come correttamente ha ritenuto il giudice di appello, all’eventuale radicamento lavorativo dell’immigrato in Italia.

Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità secondo le regole della soccombenza processuale, oltre al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, statuizione che la Corte è tenuta ad emettere in base al solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia (di inammissibilità, improcedibilità o rigetto del ricorso, principale o incidentale), senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte, come l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (Cass., 05/04/2019, n. 9661).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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