Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21366 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15076/2018 r.g. proposto da:

A.E.K., (cod. fisc. *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Marcello Cantoni, elettivamente domiciliato presso la Cancelleria della corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona Ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui Uffici è elettivamente domiciliato in Roma Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna, depositata in data 10.11.2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/5/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

RILEVATO

CHE:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Bologna – decidendo sull’appello proposto da A.E.K., cittadino del Ghana, avverso l’ordinanza emessa in data 17.9.2015 dal Tribunale di Bologna (con la quale erano state respinte le domande dirette ad ottenere la reclamata protezione internazionale ed umanitaria) – ha rigettato l’appello, confermando, pertanto, la decisione resa dal primo giudice.

La corte del merito ha ritenuto non credibile e non provato il racconto del richiedente in ordine alle ragioni che avevano spinto quest’ultimo ad espatriare dal Ghana: il ricorrente aveva invero riferito già alla Commissione territoriale di essere stato costretto ad abbandonare il suo paese per il timore di ritorsioni e trattamenti inumani in seguito al suo coinvolgimento nell’omicidio colposo di un suo amico per un incidente di caccia, temendo, a causa della riferita vicenda, che i familiari della vittima si volessero vendicare e che la polizia corrotta non lo volesse proteggere. La corte territoriale ha altresì evidenziato che il narrato della vicenda non era stato suffragato da alcuna prova e che la condizione di vulnerabilità del richiedente non potesse essere riferita alla Libia, quale paese di transito, in ragione della mancata dimostrazione del radicamento del ricorrente nel paese nordafricano.

2. La sentenza, pubblicata il 10.11.2017, è stata impugnata da A.E.K. con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

La parte ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, e del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, si duole della violazione dei principi regolanti l’onere probatorio attenuato e il dovere di cooperazione istruttoria che conformano la materia in esame. Si evidenzia l’erroneità della motivazione impugnata laddove la stessa aveva affermato la necessità che il ricorrente documentasse e provasse la vicenda dell’omicidio colposo posto alla base del repentino espatrio dal Ghana e che, al contrario, aveva immediatamente avanzato richiesta di protezione internazionale, compiendo ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, e con ciò rendendo coerenti e plausibili le dichiarazioni rese. Tale comportamento processuale avrebbe dovuto imporre – osserva ancora il ricorrente – un approfondimento istruttorio officioso da parte dei giudici del merito, approfondimento invece mancato nel caso in esame.

2. Con il secondo motivo si articola vizio di violazione di legge in relazione al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, in riferimento alla reclamata protezione umanitaria. Si duole il ricorrente della mancata considerazione del soggiorno in Libia e del percorso di integrazione sociale in Italia.

3. Con un terzo motivo si denuncia vizio di omessa pronuncia in relazione alla domanda di protezione sussidiaria e a quella volta ad ottenere lo status di rifugiato.

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1 Già il primo motivo di censura è inammissibile.

4.1.1 Giova ricordare che, ai fini della concessione dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) sia indispensabile, anche ai fini dei necessari approfondimenti istruttori, la credibilità e l’attendibilità della narrazione dei fatti effettuata dal richiedente. La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – e censurabile solo nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c) (Cass. 3340/2019), escludendosi, in mancanza, la necessità e la possibilità stessa per il giudice di merito – laddove non vengano dedotti fatti attendibili e concreti, idonei a consentire un approfondimento ufficioso – di operare ulteriori accertamenti.

Nel caso concreto, il ricorrente ha inammisibilmente dedotto il vizio di violazione di legge, anzichè censurare se non nella sola rubrica, l’impugnata sentenza sub specie del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Tale vizio consiste, peraltro, nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità; sicchè il giudizio di fatto circa la credibilità del ricorrente non può essere censurato sub specie della violazione di legge (Cass. 3340/2019).

Ad ogni buon conto, il giudice di appello ha ampiamente ed adeguatamente motivato in ordine all’inattendibilità della narrazione del ricorrente circa i motivi (necessità di fuggire per il timore di ritorsioni per l’accusa di omicidio colposo di un suo amico) che lo avrebbero indotto ad abbandonare il suo Paese, elencando le diverse ragioni che ostano alla credibilità dell’istante, ed il motivo si risolve in una sostanziale, inammissibile, richiesta di rivisitazione del merito della vicenda processuale.

4.2 Il secondo motivo è anch’esso inammissibile.

4.2.1 Sotto un primo profilo di censura, occorre ricordare la giurisprudenza espressa da questa Corte secondo la quale – nella domanda di protezione internazionale – l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 31676 del 06/12/2018; Sez. 6 1, Ordinanza n. 29875 del 20/11/2018; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 2861 del 06/02/2018).

Tale ultima circostanza non è stata nè allegata nè tanto meno provata dal richiedente.

4.2.1 Sotto altro profilo, occorre ancora una volta ricordare che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, l’attendibilità della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, la situazione oggettiva del paese d’origine deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente, la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi (Cass. 4455/2018).

Nel caso di specie, la Corte d’appello ha – con motivazione adeguata ritenuto che le dichiarazioni del richiedente, circa le ragioni che lo avevano indotto ad abbandonare il proprio paese, erano da considerarsi inattendibili per una serie di motivi, elencati in motivazione, tra i quali assume un valore pregnante il non avere il medesimo fornito alcun elemento di riscontro in ordine alla grave accusa di omicidio colposo che il medesimo assume essergli stata contestata in Ghana. Di più, il riconoscimento della protezione umanitaria, secondo i parametri normativi stabiliti dal T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 19, comma 2 e D.Lgs.n. 251 del 2007, art. 32, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel nostro paese, non può escludere, invero, l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine. A tal fine non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, dovendo il riconoscimento di tale diritto allo straniero fondarsi su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass., 23/02/2018, n. 4455). Il motivo di ricorso, mentre non riporta alcun elemento – sottoposto ai giudici di merito – dal quale possa desumersi che il rientro in patria possa determinare per l’immigrato una grave compromissione dei propri diritti fondamentali, si traduce, in massima parte, in una richiesta di rivisitazione del merito inammissibile in questa sede (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 02/08/2016, n. 16056). Nessun rilievo specifico – non essendo sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza – può attribuirsi, poi, come correttamente ha ritenuto il giudice di appello, all’eventuale radicamento lavorativo dell’immigrato in Italia (Cass. 4455/2018).

4.3 Il terzo motivo è del pari inammissibile.

Non vi è omessa pronuncia sulla concessione dello status di rifugiato e sulla protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) avendone la Corte territoriale implicitamente escluso i presupposti per la valutazione di non credibilità della narrazione dei fatti circa la presunta accusa di omicidio colposo ed il rischio di persecuzione da parte della famiglia dell’ucciso.

Quanto alla protezione sussidiaria di cui alla lett. c) D.Lgs. da ultimo citato, occorre evidenziare come dalla sentenza si ricavi solo un riferimento ai presupposti della tutela in relazione alla protezione di cui alle altre due lettere (a e b), e, peraltro, anche nel ricorso l’istante non affermi di avere dedotto il profilo della violenza indiscriminata o, comunque, non riproduce il ricorso in appello sul punto.

Va da ultimo evidenziato come la documentazione depositata dal ricorrente con la memoria difensiva del 17.5.2019 non possa essere presa in considerazione stante la sua evidente tardività.

Ne consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

In ordine al pagamento del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, è necessario puntualizzare che la Corte è tenuta ad emettere tale statuizione in base al solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia (di inammissibilità, improcedibilità o rigetto del ricorso, principale o incidentale), senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte, come l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (Cass., 05/04/2019, n. 9661).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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