Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21368 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. r.g. 15530/2018 proposto da:

D.A., (cod. fisc. *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Paolo Cognini, nel cui studio è elettivamente domiciliato in Jesi (Ancona), Corso Matteotti n. 69.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona Ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui Uffici è elettivamente domiciliato in Roma Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona, depositata in data 8.11.2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/5/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Ancona – decidendo sull’appello principale proposto dal MINISTERO dell’INTERNO nei confronti di D.A., cittadino nigeriano, avverso la decisione emessa in data 20.7.2016 dal Tribunale di Ancona (con la quale era stata accordato al richiedente lo status di rifugiato) e sull’appello incidentale presentato da quest’ultimo limitatamente alla revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato – ha accolto l’appello principale, rigettando pertanto le domande di protezione internazionale, sussidiaria ed umanitaria, e ha altresì accolto l’appello incidentale, ammettendo il richiedente al patrocinio a spese dello Stato.

La corte del merito ha ritenuto, in primo luogo, tempestivo ed ammissibile l’appello principale svolto dal Ministero, in ragione del decorso del termine lungo di impugnativa, dovendosi considerare invalida la comunicazione del deposito della decisione, senza la notifica del provvedimento all’avvocatura distrettuale dello stato; ha ritenuto inattendibile e non provato il racconto del richiedente che aveva riferito di provenire dalla città di ***** (nello Stato nigeriano dell’Imo State) e di essere stato costretto a fuggire perchè, convertito al cristianesimo, non voleva seguire le scelte religiose del padre, che era sacerdote di un culto pagano (“agbandim”), e, dunque, era timoroso di ritorsioni da parte degli anziani della comunità locale nelle cui mani risiedeva il controllo anche politico della comunità stessa, senza alcun controllo da parte delle autorità locali. La corte territoriale ha evidenziato che il ricorrente non aveva dimostrato in alcun modo la provenienza dell’Imo State e che ugualmente non erano stati forniti riscontri in ordine alla esistenza del predetto culto. Nè era credibile – ha osservato ancora la corte di merito – la riferita conversione al cristianesimo di cui peraltro aveva fornito una descrizione contraddittoria e nessuna rilevanza probatoria avevano i segni distintivi sulla fronte che avrebbero accumunato padre e figlio nella comune provenienza culturale. La corte distrettuale ha dunque concluso per la infondatezza della domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato ed anche di quella diretta alla protezione sussidiaria, in ragione della documentata assenza di una situazione di pericolo per conflitti generalizzati nella regione di provenienza del richiedente. Il giudice di appello non ha neanche riconosciuto la reclamata protezione umanitaria per la mancata allegazione da parte del ricorrente di una condizione di particolare vulnerabilità.

2. La sentenza, pubblicata il 8.11.2017, è stata impugnata da D.A. con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di legge in riferimento al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, commi 9 e 10, si duole dell’erroneità della decisione impugnata in relazione al mancato rilievo dell’inammissibilità dell’appello erariale per tardività. Osserva il ricorrente che era illegittima l’estensione dei principi dettati in materia di notificazione alle semplici comunicazioni e che il giudice di appello avrebbe dovuto verificare solo l’effettiva conoscenza del provvedimento da parte dell’amministrazione appellante, conoscenza che era intervenuta tramite la comunicazione dell’ordinanza emessa dal giudice di prime cure.

2.1 Con il secondo, terzo e quarto motivo di doglianza, proposti cumulativamente, il ricorrente lamenta la violazione: 2.2) dell’art. 112 c.p.c., in corrispondenza della mancanza assoluta di motivazione del provvedimento impugnato; del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 9, comma 2; art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 429 c.p.c., comma 1 e dell’art. 118 disp. att.; 2.3) del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, art. 9, comma 2, art. 13, comma 1 bis e art. 27, commi 1 e 1 bis e dell’art. 16 della direttivan. 2013/32/UE e dell’art. 116 c.p.c.; 2.4) del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9, comma 2 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e art. 9, comma 2. Denuncia la parte ricorrente il mancato approfondimento della questione relativa all’assenza di un potere statuale di controllo nella regione di provenienza del richiedente e dell’ulteriore circostanza secondo cui il possibile pericolo di persecuzione possa anche provenire da soggetti non statuali, se le autorità non garantiscono un’adeguata tutela dai conseguenti pericoli. Si evidenzia inoltre l’erroneo ribaltamento dell’onere della prova sul ricorrente in relazione alla dimostrazione della provenienza di quest’ultimo e dell’esistenza del culto pagano dal quale il ricorrente si riteneva minacciato. Lamenta, infine, il ricorrente la mancata corretta valutazione dei presupposti applicativi della reclamata protezione umanitaria, anche in relazione al profilo dell’integrazione nella realtà sociale italiana.

3. Il ricorso è infondato.

3.1 Il primo motivo è infondato.

Occorre evidenziare come – con riferimento alla previsione di cui all’art. 417 bis c.p.c. (richiamata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 7, ed applicabile ratione temporis) secondo cui le P.A., nelle controversie relative ai rapporti di lavoro, possono stare in giudizio, in primo grado, mediante loro dipendenti – la predetta disposizione si differenzi da quella di cui al R.D. n. 1611 del 1933, art. 2, che consente all’Avvocatura dello Stato di delegare per la rappresentanza dell’Amministrazione un funzionario o procuratore, in quanto in un caso l’amministrazione assume direttamente la difesa, nell’altro la delega concerne la sola rappresentanza in giudizio, restando l’attività defensionale affidata all’ufficio dell’Avvocatura competente per territorio. Ne consegue che, nel primo caso, la notifica della sentenza di primo grado, ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione, va effettuata allo stesso dipendente, mentre nel secondo cui è assimilabile l’ipotesi in cui l’amministrazione non si sia neppure costituita in giudizio – la notifica della sentenza al delegato è radicalmente nulla, dovendosi effettuare presso gli uffici dell’Avvocatura dello Stato, del R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 11 (Cass. 17596/2016).

Ne consegue che risulta corretto l’assunto della Corte territoriale, che ha ritenuto inidonea, a far decorrete il termine di trenta giorni per l’appello, la comunicazione della decisione di primo grado all’amministrazione rimasta contumace in quel giudizio.

3.1 I restanti tre motivi possono essere esaminati congiuntamente in ragione del coincidente vizio che li accomuna.

Giova ricordare che – ai fini della concessione dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) – è indispensabile, anche ai fini dei necessari approfondimenti istruttori, la credibilità e l’attendibilità della narrazione dei fatti effettuata dal richiedente. La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – e censurabile solo nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma. 5, lett. c), (Cass. 3340/2019), escludendosi, in mancanza, la necessità e la possibilità stessa per il giudice di merito – laddove non vengano dedotti fatti attendibili e concreti, idonei a consentire un approfondimento ufficioso – di operare ulteriori accertamenti.

Nel caso concreto, il giudice di appello ha ampiamente ed adeguatamente motivato in ordine alla inattendibilità della narrazione del ricorrente circa i motivi che lo avrebbero indotto ad abbandonare il sua Paese, elencando le diverse ragioni che ostano alla credibilità dell’istante, ed il motivo si risolve in una sostanziale, inammissibile, richiesta di rivisitazione del merito della vicenda processuale.

Nuova è infine la censura prospettata in relazione alla mancata valutazione dell’integrazione sociale del richiedente in Italia al fine di ottenere la reclamata protezione.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, oltre che al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, statuizione che la Corte è tenuta ad emettere in base al solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia (di inammissibilità, improcedibilità o rigetto del ricorso, principale o incidentale), senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte, come l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (Cass., 05/04/2019, n. 9661).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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