Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.21391 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14033-2018 proposto da:

ENI S.P.A. Divisione Refining Marketing, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA BENEDETTO CAIROLI N 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELO ABIGNENTE, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA PRATI DEGLI STROZZI 30, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GIACANI, rappresentato e difeso dagli avvocati GENNARO MARANO, UGO MARIA DI BLASIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 645/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 02/03/2018 R.G.N. 343/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANGELO ABIGNENTE.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 645/2018, pronunciando in sede di rinvio da Cass. n. 1608/2016, ha accolto l’appello proposto da G.M. e, per l’effetto, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento a lui intimato da ENI s.p.a. in data 11.5.2006, previa dichiarazione di illegittimità del trasferimento disposto presso lo stabilimento di *****, con condanna della società alla immediata reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni globali di fatto spettanti dalla data del licenziamento alla effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge, nonchè alla ricostruzione della posizione previdenziale, assistenziale e fiscale di legge.

2. Il G., già dipendente sin dal 1991 di una società comodataria dell’impianto di distribuzione carburanti AGIP Petroli s.p.a. in *****, aveva ottenuto una sentenza confermata in sede di legittimità con sentenza di questa Corte n. 4936/2004 – con cui era stata accertata una interposizione illecita di manodopera ed era stata dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato del G. alle dipendenze di AGIP Petroli (poi ENI s.p.a.) a decorrere dal 23 luglio 1998. Con tale sentenza era stata altresì dichiarata l’inefficacia del licenziamento intimato in data 23.6.99 dalla Alborea, società interposta, con condanna della società interponente al pagamento delle retribuzioni non percepite dal licenziamento.

3. In sede di esecuzione dell’ordine di ripristino del rapporto di lavoro presso ENI s.p.a., la società aveva invitato il G. a prendere servizio presso lo stabilimento di *****, ma il lavoratore si era rifiutato di presentarsi presso la sede assegnatagli, contestando il provvedimento sul presupposto che lo stesso integrasse la fattispecie di un trasferimento illegittimo.

4. La Corte di appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, respinse l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. sollevata dal lavoratore, ritenendo la legittimità del trasferimento in quanto sorretto da ragioni tecniche, organizzative e produttive e non avendo la società violato i criteri di buona fede e correttezza. Rigettò anche la pretesa del ricorrente di vedere dichiarata la natura ritorsiva del provvedimento. Osservò che la società è tenuta a considerare le esigenze di vita e familiari del dipendente se e in quanto compatibili con le ragioni tecniche ed organizzative che ne impongono il trasferimento, non essendo obbligato il datore di lavoro a doverle soddisfare e non potendo il controllo giurisdizionale estendersi al merito delle scelte organizzative. Infine, ritenne che il termine di diciotto giorni concesso al dipendente per recarsi in Toscana fosse congruo.

5. In sede di legittimità, questa Corte, con sentenza n 1608 del 2016, accogliendo per quanto di ragione il ricorso proposto dal G., cassava tale decisione con rinvio alla Corte di appello di Napoli. Premesso che il datore di lavoro, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 c.c.), qualora possa far fronte alle esigenze tecniche, organizzative e produttive che impongono il trasferimento del dipendente avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quelle meno gravosi per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi dimostri la sussistenza di serie ragioni familiari, accoglieva il primo, il secondo, il nono e il decimo motivo di ricorso, rispettivamente relativi alla mancata considerazione: a) dell’esigenza di valutare, da parte datoriale, nell’assegnazione di una nuova sede di lavoro, la distanza dal luogo di residenza del dipendente; b) del riscontro della effettiva allegazione e dimostrazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive che avevano giustificato l’assegnazione a Livorno; c) della congruità o meno del termine di diciotto giorni concesso per prendere servizio nella nuova sede, essendo la società stata resa edotta della situazione familiare del ricorrente; d) della mancata erogazione dell’indennità prevista dall’art. 42 del CCNL di categoria, che avrebbe dovuto essere concessa all’atto del trasferimento, a differenza delle spese di viaggio e di trasporto e di quelle dipendenti dalla anticipata risoluzione del contratto di locazione, rimborsabili solo dopo l’avvenuto trasferimento.

5.1. In particolare, la sentenza rescindente affermava che:

– nella specie, la Corte di appello, dopo avere effettuato il debito accertamento “con riguardo alle unità produttive site a Napoli e nella Regione Campania, esponendo, con motivazione adeguata, coerente e priva di vizi, le ragioni che impedivano alla società datrice di potere impiegare il ricorrente in dette sedi”, non altrettanto la Corte territoriale aveva fatto con riguardo alla sede di destinazione del ricorrente (*****) in ordine alla quale si era “limitata ad affermare che l’ENI aveva provato che la destinazione dell’appellante alla sede di ***** concretava una scelta ragionevole dal punto di vista organizzativo e produttivo, senza dare assolutamente conto delle ragioni di siffatta affermazione e senza accertare se vi fosse corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità tipiche dell’impresa, tenuto conto delle mansioni di operaio specializzato svolte dal G.”; – nella valutazione della congruità del termine di diciotto giorni assegnato dall’ENI per la presentazione del G. presso la nuova sede, non era stata considerata “la consistenza del nucleo familiare del ricorrente (moglie e quattro figli in età scolastica)”; inoltre, “all’epoca del trasferimento non erano ancora state corrisposte le retribuzioni conseguenti all’esito favorevole del precedente giudizio instaurato nei confronti di ENI s.p.a.”;

– la sentenza impugnata presentava lacune motivazionali quanto alla mancata corresponsione dell’indennità di cui all’art. 42 CCNL, non essendo stato debitamente considerato che il datore avrebbe dovuto corrisponderla “all’atto del trasferimento”.

6. Con la sentenza emessa in sede rescissoria, la Corte di appello di Napoli, all’esito del riesame nei limiti segnati dalla sentenza rescindente, ha osservato che:

– la società ENI non aveva allegato la ragione per la quale aveva dato preferenza all’unità produttiva di Livorno; non aveva prodotto il libro matricola delle varie unità produttive; non aveva neppure citato altre sedi al di fuori della regione Campania (sia pure per escluderle) al fine di dimostrare la ragionevolezza della sua decisione;

– il ricorrente aveva opposto un rifiuto al trasferimento in ragione della lontananza della nuova sede dal luogo di residenza, della esiguità del termine concesso per prendervi possesso, della sua situazione familiare, dell’assenza di mezzi economici adeguati (all’epoca l’ENI nulla gli aveva ancora corrisposto in esecuzione della precedente sentenza n. 4936/2004 di questa Corte) e della mancata corresponsione dell’indennità di trasferimento; di conseguenza, non poteva essere addebitato al lavoratore di essere rimasto ingiustificatamente assente dal lavoro nel periodo 1 marzo – 26 aprile 2006, fatto ascrittogli con la contestazione disciplinare e il successivo licenziamento dell’11 maggio 2006; in presenza di un trasferimento illegittimo, il comportamento del lavoratore, consistito nel rifiuto di prendere possesso della nuova sede, costituiva esercizio della facoltà di autotutela ex art. 1460 c.c. e tale rifiuto era ritenere “giustificato e proporzionato a quello datoriale”;

– trattandosi di licenziamento intervenuto nel 2006, trova applicazione il regime della reintegrazione nel posto di lavoro di cui all’art. 18 stat. lav. nel testo sostituito dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 anteriore alla riforma di cui alla L. n. 92 del 2012.

7. Per la cassazione di tale sentenza ENI s.p.a. ha proposto ricorso affidato a due motivi, cui ha resistito il G. con controricorso.

7.1. La società ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’ENI denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 384 c.p.c., comma 2 e art. 394 c.p.c., violazione dell’art. 42 CCNL energia e petrolio 30.3.2006 (art. 360 c.p.c., n. 3) e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) per avere la Corte di appello travalicato i limiti segnati dalla sentenza rescindente, la quale si era limitata ad affermare che il giudice di merito non aveva dato conto delle ragioni sottese alla scelta della sede di Livorno, mentre il giudice di rinvio aveva motivato come se si vertesse in una ipotesi di trasferimento in senso stretto, nei termini sanciti dall’art. 2103 c.c., da una determinata sede lavorativa ad un’altra.

1.1. L’assegnazione della sede di Livorno prendeva origine dall’esigenza di dare esecuzione all’ordine giudiziale derivante dal precedente giudicato che, nel riconoscere una illegittima interposizione di mano d’opera, aveva condannato la società a reintegrare – o meglio a “integrare” – il lavoratore alle proprie dipendenze. Anche a volere accedere alla tesi di una parificazione di tale assegnazione di sede ad un vero e proprio trasferimento, si tratterebbe pur sempre di una equiparazione fittizia (“come se”), mentre nella realtà G. non aveva mai occupato un “posto di lavoro” presso l’organizzazione aziendale di ENI. Il giudice di rinvio aveva omesso di considerare che la società doveva provvedere ad inserire il ricorrente, al pari di altri lavoratori che avevano ottenuto il medesimo accertamento giudiziale, nella struttura societaria.

1.2. Il G. aveva fatto questione in giudizio della sua utilizzabilità solo ed esclusivamente nell’ambito della regione Campania e sul punto la sentenza rescindente aveva ritenuto corretta ed esaustiva la motivazione con cui in precedenza la Corte di appello aveva ritenuto valide e ragionevoli le deduzioni articolate dalla società; a fronte di ciò, la Corte di appello aveva travalicato i limiti dell’accertamento devoluto, in violazione dell’art. 112 c.p.c.. Peraltro, è di comune esperienza anche ai sensi dell’art. 115 c.p.c. – che ENI è una società multinazionale che in Italia si estende su tutto il territorio nazionale e che sarebbe stato defatigante e ridondante allegare in atti tutti i libri matricola dei vari stabilimenti produttivi presenti sul territorio nazionale.

1.3. Sotto altro profilo, deduce la società di avere prospettato, con le memorie di ogni fase di giudizio, che la scansione temporale degli eventi non consentiva di ritenere giustificato il rifiuto opposto dal lavoratore: l’azione cautelare proposta dal G. in 28.12.2005 era stata rigettata con provvedimento giudiziale del 28.3.2006, che aveva riconosciuto, in via provvisoria e d’urgenza, la legittimità del trasferimento; l’ingiustificata assenza era stata contestata solo il 20.4.2006. Pertanto, il G., a fronte di un provvedimento giudiziale a sè sfavorevole, aveva illegittimamente rifiutato l’assegnazione a Livorno fino al licenziamento intervenuto l’11.5.2006, per poi agire giudizialmente oltre un mese dopo (la notifica del ricorso introduttivo risaliva al 22.6.2007). Alla luce di tale sequenza il comportamento omissivo, protrattosi almeno dal 28.3.2006 alla data del licenziamento, avrebbe dovuto rilevare ai fini del giudizio di valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avuto riguardo alla rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico del rapporto di lavoro. Da un lato, l’inottemperanza del datore di lavoro non poteva prescindere dalla considerazione che si trattava di inserire il lavoratore per la prima volta nella struttura dell’impresa e, dall’altro, occorreva considerare che il lavoratore aveva continuato ad opporre il proprio rifiuto pur a fronte di un provvedimento cautelare sfavorevole.

1.4. Del pari, la Corte territoriale aveva omesso di considerare le altre deduzioni difensive di parte convenuta: il G. non aveva mai sollevato, prima del giudizio, la questione della esiguità del termine assegnatogli per prendere possesso nella sede di assegnazione, nè aveva informato la società dei suoi disagi familiari; l’inosservanza del termine concesso per prendere servizio era stata di fatto tollerata dalla società fino alla data del licenziamento, a distanza di cinquanta giorni dalla comunicazione di assegnazione; il pagamento degli emolumenti derivanti dal precedente giudicato era stato nelle more soddisfatto; il mancato pagamento dell’indennità di trasferimento era dovute al fatto che il trasferimento non si era mai realizzato.

2. Con il secondo motivo l’ENI censura la sentenza per violazione degli artt. 1218 e 1460 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 18 (art. 360 c.p.c., n. 3) nella parte in cui ha riconosciuto, a titolo risarcitorio, le retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento alla effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge. Richiama a tal fine l’orientamento espresso da Cass. n. 8364 del 2004.

3. Il ricorso è infondato per le ragioni che seguono.

4. Occorre premettere che la sentenza rescindente di questa Corte n. 1608 del 2016 non ha qualificato espressamente l’assegnazione del G. alla sede ***** come un’ipotesi di trasferimento in senso proprio, avendo ben tenuto presente che la vicenda aveva tratto origine dal precedente giudicato sull’accertamento della interposizione illecita e della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della interponente ENI (già AGIP Petroli), da cui la necessità di assicurare ottemperanza all’ordine giudiziale che imponeva la riammissione in servizio del G.. Tuttavia, la predetta sentenza ha affermato l’assoggettamento della fattispecie in esame alle medesime tutele previste dall’art. 2103 c.c., ritenendo che, anche nell’ipotesi di ritenuta interposizione illecita di manodopera con riconoscimento della sussistenza del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’interponente, dovessero essere allegate e provate da parte datoriale le ragioni dell’assegnazione ad una determinata sede lavorativa non coincidente con quella presso la quale il lavoratore prestava anteriormente la propria opera e ciò ove pure la sede pregressa fosse riconducibile solo per fictio iuris all’organizzazione produttiva del datore interponente. Tale principio, costituente il dictum giudiziale, è stato rispettato dal giudice di rinvio, avendo la Corte di appello esaminato la fattispecie, in relazione alle allegazioni delle parti e delle prove offerte, alla luce dei parametri che, nella elaborazione giurisprudenziale, sono richiesti ai fini dell’accertamento delle legittimità del trasferimento ex art. 2103 c.c. e delle ulteriori indicazioni offerte dalla sentenza rescindente quanto agli elementi che la sentenza cassata aveva trascurato di valutare.

5. L’esito di tale accertamento, correttamente condotto dal giudice di rinvio con apprezzamento delle prove immune di vizi logici o giuridici, è risultato sfavorevole alla odierna ricorrente.

5.1. La sentenza qui impugnata ha innanzitutto richiamato il principio, citato anche nella sentenza rescindente, secondo cui il controllo giudiziale sulla legittimità del trasferimento del lavoratore ha ad oggetto l’accertamento in ordine alla sussistenza delle comprovate ragioni tecniche e organizzative che devono giustificarlo e, ferma restando l’insindacabilità dell’opportunità del trasferimento, salvo che risulti diversamente disposto dalla contrattazione collettiva, in applicazione dei principi generali di correttezza e buona fede (art. 1375 c.c.), il datore di lavoro, qualora possa far fronte a dette ragioni avvalendosi di differenti soluzioni organizzative, per lui paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il dipendente, soprattutto nel caso in cui questi deduca e dimostri la sussistenza di serie ragioni familiari ostative al trasferimento (Cass. n. 11597 del 2003).

Ha quindi osservato che l’ENI non aveva neppure allegato le ragioni per le quali la scelta della sede di destinazione dovesse ricadere, anche in ragione della professionalità del ricorrente, sullo stabilimento di *****, notevolmente distante dalla residenza del lavoratore, e non aveva fornito elementi atti ad escludere la proficua destinazione del dipendente ad una sede – se non all’interno della regione Campania, essendo tale eventualità stata positivamente esclusa in una fase anteriore del giudizio (con formazione del giudicato interno sul punto) – almeno situata in un luogo meno disagevole in relazione alle esigenze personali e familiari del G.. Tale apprezzamento di fatto, concernente, da un lato, l’assenza di allegazioni e prove di parte datoriale e, dall’altro, l’inosservanza del principio di buona fede e correttezza ex art. 1375 c.c. risulta immune da vizi logici o giuridici e conforme a diritto. 6. Quanto all’assunto secondo cui il G. avrebbe dedotto in giudizio la sua utilizzabilità solo ed esclusivamente nell’ambito della regione Campania per cui sarebbero stati travalicati i limiti della domanda, è assorbente rilevare che l’estensione della domanda giudiziale anche a sedi esterne alla regione Campania deve ritenersi questione oggetto di un implicito accertamento derivante dalle pregresse fasi del giudizio di merito, come indirettamente si evince dalla sentenza rescindente, dal momento che questa Corte ha emesso una pronuncia di cassazione con rinvio dando atto che l’ENI non aveva neppure citato altre sedi al di fuori della regione Campania (sia pure per escluderle) al fine di dimostrare la ragionevolezza della sua decisione.

Per completezza, va comunque rilevato che l’assunto relativo ad un contenuto predeterminato in senso limitativo della domanda originaria non risulta prospettato in corretto adempimento degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, in mancanza della trascrizione dell’atto processuale (o di parti di esso) in cui tale deduzione sarebbe stata formulata dalla controparte.

7. In conclusione, la Corte di appello, laddove ha accertato l’illegittimità dell’assegnazione del G. alla sede di Livorno, è pervenuta ad affermare un inadempimento datoriale alla stregua di un giudizio conforme al dictum di cui alla sentenza rescindente ed immune da vizi logici o giuridici.

8. Venendo all’esame della sentenza ora impugnata nella parte in cui ha ritenuto fondata l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. – questione non esaminata dalla sentenza rescindente perchè assorbita, presupponendo il relativo esame l’avvenuta decisione sulle questioni poste con i motivi accolti (v. punto 12 sent. n. 1608/16) -, va richiamato il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum – alla quale è riconducibile il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondata sulla allegazione dell’inadempimento, anche parziale, del datore di lavoro -, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. E’ dunque necessario, in caso di inadempienze reciproche, far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambedue le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte, nonchè della conseguente alterazione del sinallagma, e tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra tra i poteri del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria (v. Cass. n. 1168 del 2000 e 8621 del 2001, n. 5444 del 2002, n. 16530 del 2003, 16822 del 2003, n. 10477 del 2004, n. 20678 del 2005, n. 11430 del 2006; cfr. pure n. 13627 del 2017). Occorre verificare, secondo il principio di buona fede e correttezza sancito dall’art. 1375 c.c., in senso oggettivo, se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte (v. tra le altre, Cass. n. 2720 del 2009 e n. 16822 del 2003).

9. Più recentemente è stato precisato che, in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460 c.c., comma 2, alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (Cass. n. 11408 del 2018).

E’ stato così affermato (Cass. n. 11408 del 2018, in motivazione) che “l’inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo dovrà, quindi, essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460 c.c., comma 2, secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. La relativa verifica, in coerenza con le richiamate caratteristiche del rapporto di lavoro, dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell’ambito delle quali si potrà tenere conto, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e più in generale sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell’ottica del bilanciamento degli opposti interessi in gioco anche alla luce dei parametri costituzionali di cui agli artt. 35,36 e 41 Cost.. Tale verifica è rimessa all’esame del giudice di merito ed è incensurabile in cassazione se la relativa motivazione risulti immune da vizi.

9.1. Con altra recente pronuncia (Cass. n. 14138 del 2018) è stata confermata la decisione di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato per assenza ingiustificata dal servizio in ragione dell’offerta della prestazione presso l’ufficio originario e delle addotte esigenze familiari di assistenza dei genitori inabili conviventi, avuto riguardo alla distanza del luogo di nuova destinazione. In tale occasione è stato ribadito che, in caso di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere, in ragione delle circostanze, conforme a buona fede.

10. La sentenza impugnata non è incorsa nel vizio di collegare la legittimità del rifiuto del lavoratore a prendere servizio presso la sede di Livorno al solo dato della adozione da parte della società del provvedimento in violazione dell’art. 2103 c.c., ma ha operato il suddetto bilanciamento degli opposti interessi lesi dai comportamenti delle parti. Ha ritenuto “giustificato e proporzionato “il comportamento del G. avuto riguardo alle concrete circostanze del caso, poco prima menzionate: la destinazione ad un sede lavorativa particolarmente distante (circa 600 km) dal luogo di residenza; la ristrettezza del termine concesso per prendere servizio, anche in ragione delle specifiche esigenze organizzative e familiari; l’assenza di mezzi economici adeguati a sopportare il trasferimento, tenuto conto che all’epoca (2006) l’ENI non aveva ancora corrisposto le somme dovute al lavoratore in esecuzione del precedente giudicato nè altri emolumenti che pure sarebbero spettati in caso di trasferimento. Tali circostanze, complessivamente considerate, integravano – ad avviso della Corte di rinvio – una lesione preponderante degli interessi del lavoratore in raffronto a quelli di parte datoriale, solo genericamente riferibili ad esigenze organizzative, peraltro non meglio esplicitate.

11. Quanto alla doglianza di omessa considerazione dell’allegazione dell’ENI (il cui esame era rimasto assorbito nelle pregresse fasi del giudizio di merito), riproposta in sede di rinvio, secondo cui alla luce della scansione temporale degli eventi, non poteva considerarsi giustificata la protrazione dell’omissione del lavoratore, quanto meno a partire dal 28 marzo 2006, data in cui era stata rigettata la domanda cautelare proposta ex art. 700 c.p.c. avverso il “trasferimento” a *****, deve rilevarsi che la doglianza di omessa considerazione è sostanzialmente intesa a contestare l’accertamento di fatto sulla portata del bilanciamento delle opposte ragioni e dell’apprezzamento della prevalenza giustificativa dell’atteggiamento di “resistenza” che ha portato il lavoratore a protrarre il rifiuto nel tempo intermedio fino alla contestazione disciplinare. La censura non risulta conforme all’attuale configurazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., in L. n. 134 del 2012, non essendo neppure stato chiarito in quale senso l’omesso esame del fatto di cui si lamenta il mancato espresso apprezzamento avrebbe carattere decisivo, ossia sarebbe idoneo a determinare un esito diverso della controversia (Cass. Sez. Un. 07/04/2014 n. 8053), avendo la capacità di incidere nel senso di portare ad un ribaltamento dell’esito della valutazione comparativa come operata dalla Corte territoriale, sopra richiamata.

12. Con il secondo motivo, parte ricorrente richiama il principio espresso da Cass. n. 8364 del 2004 (sentenza che richiama Cass. n. 8621 del 2001). Con tale pronuncia si è innanzitutto ribadito il principio secondo cui la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, nel testo sostituito dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1 nel prevedere, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione iuris tantum di lucro cessante. Presupposto indefettibile per l’applicabilità di tale disposizione, che costituisce una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale, è l’imputabilità al datore di lavoro dell’inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa.

12.1. Si è poi specificato il principio nel senso che “ove il licenziamento sia intervenuto in un periodo di sospensione del rapporto di lavoro per effetto dell’esercizio, ex art. 1460 c.c., dell’autotutela del lavoratore, che abbia rifiutato di eseguire la propria prestazione a fronte dell’inadempimento di quella del datore di lavoro, non essendo configurabile, per tale periodo, il diritto alla retribuzione, in considerazione della forma di tutela scelta dal lavoratore in sostituzione della normale tutela giurisdizionale, non può operare la predetta presunzione di lucro cessante. Pertanto, in tale ipotesi, correttamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, in caso di invalidità del licenziamento dallo stesso intimato al lavoratore, è limitata al minimo di legge delle cinque mensilità di retribuzione”. L’odierna ricorrente invoca tale principio al fine di ottenere la riduzione del quantum del risarcimento a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

13. Osserva il Collegio che, a prescindere da ogni altra considerazione di diritto, è determinante rilevare in limine che il principio riguarda l’ipotesi in cui il lavoratore abbia fatto ricorso all’autotutela, nelle forme previste dall’art. 1460 c.c., in luogo di avvalersi della tutela giudiziaria. Ipotesi che non ricorre nel caso in esame, avendo il lavoratore immediatamente avviato (come risulta dagli atti di parte relativi al giudizio di cassazione) in data 20 febbraio 2006, prima ancora della data stabilita per l’assunzione in servizio presso lo stabilimento di *****, fissata per il 1 marzo 2006, un’azione cautelare intesa a contestare il provvedimento aziendale, coltivando poi l’iniziativa giudiziaria in via ordinaria con l’impugnativa di merito del licenziamento e la domanda di accertamento incidentale della illegittimità della sua destinazione alla sede assegnata, iniziativa giudiziaria rivelatasi – all’esito del giudizio – fondata.

14. Esclusa dunque la applicabilità del suddetto principio nel caso di specie, tornano ad essere applicabili gli ordinari principi elaborati in materia, secondo cui la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4 nel testo sostituito dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1 (applicabile ratione temporis, prima della riforma introdotte dalla L. n. 92 de 12012, c.d. legge Fornero), per il caso di sentenza che ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro per essere il licenziamento inefficace o intimato senza giusta causa o giustificato motivo, prevede unicamente la condanna del datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento, non distinguendo più, come nella vigenza del testo originario, fra risarcimento del danno fino alla sentenza e diritto alla retribuzione per il periodo successivo e fino alla reintegrazione. Tale risarcimento consiste in un’indennità “commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”. Da ciò la giurisprudenza della Corte ha da tempo tratto il convincimento che la norma costituisce una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale (art. 1228 c.c.), sicchè al lavoratore compete, per il periodo in cui è stato allontanato dal posto di lavoro e le prestazioni sono state rifiutate senza un motivo legittimo, un risarcimento commisurato alle retribuzioni non percepite, quale lucro cessante presunto iuris tantum (art. 1223 c.c.), il cui presupposto è l’imputabilità al datore di lavoro. Ne costituiscono puntuale applicazione le decisioni che richiedono, quale indefettibile presupposto dell’obbligo risarcitorio del datore di lavoro, l’imputabilità a costui dell’inadempimento, secondo il precetto generale dell’art. 1228 c.c. (fatta eccezione per la misura minima di cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale), nonchè, la rilevanza, in senso riduttivo del danno, degli incrementi economici conseguiti dal lavoratore a causa del rifiuto opposto dal datore di lavoro di ricevere le prestazioni (c.d. aliunde perceptum), ai sensi dell’art. 1223 c.c. (cfr., tra le tante, Cass. n. 1950 del 2011, n. 8364 del 2004, n. 8621 del 200, Cass., Sez. Un. 3319 del 1995).

15. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi, riconoscendo, a titolo risarcitorio, una somma pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento, oltre accessori. Nè la misura del risarcimento può essere ridotta con riguardo alle conseguenze dannose riferibili al tempo impiegato per la tutela giurisdizionale, stante l’esistenza di norme che consentono ad entrambe le parti del rapporto di promuovere il giudizio ed interferire nell’attività processuale (cfr. Cass. n. 6895 del 2018). Neppure risulta introdotta in giudizio una questione relativa alla detraibilità dell’eventuale aliunde perceptum.

16. In sede di memoria ex art. 378 c.p.c. l’ENI ha richiamato la sentenza n. 194 del 2018 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, art. 3, comma 1, (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della L. 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dal D.L. 12 luglio 2018, n. 87, art. 3, comma 1, (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. Ciò al fine di fare rilevare come il Giudice delle leggi abbia censurato gli interventi legislativi volti a sancire una liquidazione forfettizzata e standardizzata dell’indennità risarcitoria, uniforme per tutti i lavoratori, valorizzando la funzione determinativa del giudice.

16.1. Tanto è stato affermato dalla Corte costituzionale con riferimento ad un sistema con “previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro” che “si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse”.

16.2. Va tuttavia rilevato, in via assorbente di ogni altro rilievo, che nel sistema che regola ratione temporis la fattispecie in esame la parametrazione del risarcimento del danno si fondava su un regime diverso, e comunque anche in quel caso non scevro dalla possibilità di modulazione del risarcimento in relazione alle peculiarità del caso concreto, essendo sufficiente ricordare che, a fronte della presunzione iuris tantum di lucro cessante corrispondente alle retribuzioni perdute, era prevista la detraibilità dell’aliunde perceptum.

17. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2. Le spese sono distratte in favore dei difensori dichiaratisi antistatari, avv. Ugo Maria Di Blasio e Gennaro Marano.

18. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’ENI s.p.a. al pagamento delle spese, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali e accessori di legge, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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