Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.21394 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11393/2013 proposto da:

P.M., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato OTTORINO BRESSANINI;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, rappresentata e difesa dall’avvocato ALBERTO PIZZOFERRATO;

– controricorrente –

e contro

PA.GI.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 104/2012 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 15/10/2012 R.G.N. 2/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2019 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, he ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCA RAUSO per delega Avvocato ALBERTO PIZZOFERRATO.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Trento, con la sentenza n. 104 del 2014, pronunciando sull’impugnazione proposta dalla Provincia autonoma di Trento nei confronti di P.M., in riforma della sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Trento, rigettava le domande proposte dalla lavoratrice con l’atto introduttivo del giudizio.

2. Il Tribunale di Trento aveva accertato la nullità della determinazione n. 88/09 adottata dal dirigente del Servizio economia e programmazione sanitaria, e aveva condannato la Provincia autonoma di Trento, datrice di lavoro della P., a risarcire a quest’ultima il danno conseguito alla perdita dell’incarico di “sostituto del direttore dell’Ufficio programmazione, valutazione e controllo dell’attività sanitaria”, che era stato conferito, indebitamente al collega Pa.Gi..

3. La Corte d’Appello rileva che il Tribunale aveva fondato la decisione su elementi di fatto e di diritto che non avevano preso in considerazione le allegazioni della P. di discriminazione di genere o per lo stile di vita.

Il Tribunale, invece, aveva rilevato che vi era stata discriminazione, tradottasi in un favoritismo in favore del Pa., nella comparazione della professionalità dei due aspiranti all’incarico.

Aveva affermato il giudice di primo grado che la P. era il soggetto più qualificato a ricoprire l’incarico in base a riscontri oggettivi.

La stessa, a suo tempo, era stata vincitrice di una prova selettiva; era inquadrata da più tempo; era stata assegnataria di obiettivi di elevata importanze e sempre realizzati. Le circostanze addotte dalla Provincia a sostegno della professionalità del Pa., invece, erano largamente discrezionali, senza precisi riferimenti oggettivi.

La Corte d’Appello, quindi, rilevava che il giudice di primo grado, da un lato, aveva omesso di considerare la contraddizione tra la discriminazione che la P. prospettava aver subito e l’assegnazione di rilevanti obiettivi da parte dell’Amministrazione; dall’altro non aveva considerato che le valutazioni più favorevoli operate in favore del Pa. erano state espresse da diversi dirigenti, nel corso di un lungo periodo temporale, per cui appariva difficile ritenere che in tanti anni fossero stati espressi pareri superficiali o dettati da volontà discriminatoria nei confronti della P., o di favore per il Pa..

Il Tribunale aveva disatteso i pareri espressi da coloro che avevano l’obbligo di esprimerli, attestanti i maggiori meriti conseguiti dal Pa. nel corso degli anni, per preferire elementi di giudizio definiti oggettivi, che tuttavia erano risalenti nel tempo e non sicuro indice di maggiore professionalità della lavoratrice.

Non era quindi condivisibile la conclusione del Tribunale che proprio in ragione della ritenuta notevole distanza di professionalità della P. rispetto al Pa., riteneva che la scelta di quest’ultimo non rispondesse alle esigenze dell’Amministrazione ma al mancato gradimento della persona della P.. Ciò in quanto non risultava comprovato il suddetto divario di professionalità, nè una condotta della Provincia autonoma di Trento oggettivamente volta a pregiudicare la lavoratrice per ragioni di genere o di stile di vita.

4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la P. prospettando un motivo di impugnazione.

5. Resiste la Provincia autonoma di Trento con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso la lavoratrice prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40.

Prospetta la ricorrente di aver posto a fondamento del comportamento discriminatorio del datore di lavoro di essere donna, di gestire una vita personale e lavorativa diversa, di non avere famiglia regolare ed essere impegnata nelle battaglie civili e sociali.

Quindi aveva lamentato in primo luogo una discriminazione di genere.

La Corte d’Appello, nell’affermare che il giudice di primo grado non aveva preso in esame tali allegazioni non aveva letto bene la sentenza medesima, in cui il Tribunale aveva statuito che spettava al convenuto dare la prova dell’insussistenza della discriminazione.

La ricorrente deduce, quindi, di non censurare la sentenza di appello per il vizio di omesso esame di fatti decisivi che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., n. 5. La Corte d’Appello aveva esaminato i fatti, ma agli stessi non aveva applicato la regola dettata dal citato art. 40.

I fatti dedotti dalla ricorrente in ordine alla discriminazione posta in essere nei suoi confronti si basavano su elementi oggettivi reiterati nel tempo e concordanti; da soli non assurgevano alla dignità di prova, ma insieme, nell’interpretazione di cui all’art. 40 cit., davano luogo a presunzioni che collegavano la discriminazione all’appartenenza di genere, spostando sulla convenuta l’onere della prova della mancata discriminazione, da svolgere con piena probatio e non presunzioni.

2. Il motivo di ricorso è inammissibile.

2.1. Va premesso che questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 25543 del 2018, n. 14206 dei 2016) in tema di comportamenti datoriali discriminatori, che il D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatoro ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma a condizione che il ricorrente abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.

2.2. Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato che dagli elementi di causa (attinenti alle rispettive carriere professionali) non poteva ritenersi comprovata la maggiore professionalità della P. a ricoprire l’incarico in questione, e dunque veniva meno il presupposto in base al quale il Tribunale aveva ritenuto che l’attribuzione dell’incarico medesimo al Pa. non rispondeva alle esigenze dell’Amministrazione ma al mancato gradimento della persona della lavoratrice. Nè era comprovata una condotta della datrice di lavoro oggettivamente volta a pregiudicare la lavoratrice per ragioni di genere o di stile di vita.

2.3. Tali statuizioni non sono adeguatamente censurate con il motivo di ricorso che si limita ad affermare di aver prospettato in relazione al mancato conferimento dell’incarico di aver subito discriminazione di genere e per lo stile di vita, e richiamare l’art. 40 cit., peraltro delineando un’inversione totale dell’onere della prova che la disciplina in esame non prevede.

La P. non indica fatti, diversi dal mancato conferimento dell’incarico, che avrebbero dato luogo a discriminazione in proprio danno da parte dell’Amministrazione datrice di lavoro; non svolge alcuna critica alla statuizione della Corte d’Appello che ha escluso la maggiore professionalità di essa ricorrente a ricoprire l’incarico rispetto al Pa., e dunque la mancata attribuzione dell’incarico per ragioni diverse dall’interesse dell’Amministrazione a designare il lavoratore che aveva acquisito, nel corso della carriera, meriti comprovati mediante le valutazioni espresse dai dirigenti succedutisi nel tempo. La ricorrente si limita a sostenere, su un piano astratto, che l’onere probatorio sarebbe stato normativamente a carico del datore di lavoro.

2.4. Tale prospettazione viola i prinicipi di specificità di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, atteso che in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass., n. 19989 del 2017).

Occorre, altresì, precisare che i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (v., Cass., n. 29093 del 2018).

3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 4.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00, per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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