Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.21397 del 13/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20158/2014 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO n. 146 (STUDIO AVVOCATO LOREDANA RASILE), presso lo studio dell’avvocato ERMANNO MARTUSCIELLO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FONDI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI SANT’ELENA n. 29 (STUDIO LEGALE GALLOTTI), presso lo studio dell’avvocato FABIO TONELLI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1380/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/02/2014 R.G.N. 958/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ERMANNO MARTUSCIELLO;

udito l’Avvocato FABIO TONELLI.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’ Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Latina che aveva accolto il ricorso, ha respinto la domanda proposta da A.S. il quale, nel convenire in giudizio il Comune di Fondi, aveva domandato l’accertamento del suo diritto al mantenimento dell’indennità di amministrazione, già goduta presso l’ente di provenienza, a titolo di assegno personale non riassorbibile e la conseguente condanna del Comune al pagamento della somma di Euro 17.389,10, oltre interessi legali.

2. La Corte territoriale ha premesso che l’appellato era transitato per mobilità volontaria dall’A.I.M.A., ente soppresso del Ministero delle Politiche Agricole, al Comune di Fondi ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30 e dell’art. 28 del c.c.n.l. 2000/2001 per il personale del comparto regioni ed autonomie locali. Ha evidenziato che il legislatore delegato, con l’art. 2, comma 3, del richiamato D.Lgs., ha inteso introdurre, in aggiunta al principio base del rinvio alla contrattazione collettiva per ogni ipotesi di incremento retributivo, anche l’ulteriore principio della riassorbibilità dei trattamenti economici più favorevoli in godimento, in quanto espressione della parità contrattuale prevista dall’art. 45 dello stesso decreto.

3. Ha richiamato al riguardo giurisprudenza di questa Corte ed ha precisato che la contrattazione collettiva può solo determinare le modalità e la misura del riassorbimento ma non derogare allo stesso. Correttamente, pertanto, il Comune di Fondi aveva riassorbito l’assegno personale, adottando gli atti deliberativi contestati dall’originario ricorrente.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A.S. sulla base di sei motivi, illustrati da memoria, ai quali il Comune di Fondi ha replicato con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, “nullità della sentenza per omessa pronuncia” ed addebita alla Corte territoriale di non avere statuito sull’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dall’appellato nella memoria difensiva sul presupposto dell’assenza di specificità dei motivi di gravame. Rileva che il Tribunale aveva fondato l’accoglimento della domanda sulla disciplina dettata dal c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e autonomie locali, sulla cui interpretazione nulla aveva dedotto l’appellante, che si era limitato a riproporre nell’appello il contenuto della memoria difensiva di primo grado, non specificamente attinente al decisum. Aggiunge che l’eccezione doveva essere esaminata dalla Corte romana, in ossequio al disposto dell’art. 112 c.p.c. e precisa che l’omessa valutazione si risolve in un vizio di nullità della sentenza in quanto il giudice si è sottratto all’obbligo di esaminare le questioni, anche di rito, potenzialmente idonee a definire giudizio.

2. La seconda censura, intitolata “violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)” ripropone la questione dell’inammissibilità dell’appello, facendo leva sulle ragioni già indicate nel primo motivo. Il ricorrente assume, richiamando giurisprudenza di questa Corte, che le censure sono specifiche solo se si traducono nella prospettazione di argomentazioni contrapposte a quelle svolte nella sentenza impugnata, dirette ad incrinarne il fondamento logico giuridico, con la conseguenza che l’onere della specificazione non può ritenersi assolto qualora l’appellante si limiti a richiamare le difese svolte nel primo grado di giudizio e queste ultime non siano idonee a contrastare la motivazione della decisione gravata.

3. Connessa ai primi due motivi è la terza critica, con la quale si deduce la violazione, oltre che dell’art. 434 c.p.c., anche dell’art. 2909 c.c., perchè la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare la formazione del giudicato interno sull’applicabilità e sull’interpretazione dei c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e autonomie locali.

4. La nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., è denunciata anche con il quarto motivo, che addebita al giudice d’appello di avere violato il principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, non avendo mai il Comune di Fondi contestato l’applicabilità alla fattispecie della disciplina dettata dalla contrattazione collettiva. Sostiene al riguardo che il potere del giudice di qualificazione della domanda va coordinato, nei gradi successivi al primo, con i principi propri del sistema delle impugnazioni, per cui deve ritenersi precluso al giudice dell’appello di mutare d’ufficio la qualificazione ritenuta dal Tribunale in mancanza di gravame sul punto ed in presenza di giudicato formatosi su tale qualificazione.

5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1418 e 1339 c.c., ed al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3 e art. 45. Rileva che la Corte territoriale, nell’applicare d’ufficio la normativa dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, ha implicitamente ritenuto la nullità delle clausole del c.c.n.l. che sanciscono l’opposto principio della non riassorbibilità della r.i.a.. In tal modo ha violato l’art. 1418 c.c., in quanto le norme citate del richiamato decreto non prevedono la sanzione della nullità nè possono essere ritenute imperative.

6. La sesta critica denuncia la violazione di plurime disposizioni di legge e di contratto collettivo (art. 28 del CCNL 5.10.2000 per il personale del comparto Enti locali, art. 29 del c.c.n.l. 22.1.2004, art. 2 c.c.n.l. 9.5.2006, accordo del 18.12.2003 sottoscritto dall’Aran e dalle organizzazioni sindacali di interpretazione autentica degli artt. 26 e segg. del CCNL 5.10.2000, L. n. 537 del 1993, art. 3, comma 57, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2). Ribadisce il ricorrente che le parti collettive hanno espressamente qualificato l’assegno personale una voce fissa, continuativa e pensionabile dello stipendio, come tale non riassorbibile. Aggiunge che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, ha previsto il potere delle parti collettive di disciplinare anche la materia dell’assorbimento, potere del quale le organizzazioni sindacali nella specie si sono avvalse, dettando la disciplina non considerata dalla Corte territoriale. Richiama, infine, la L. n. 537 del 1993, art. 3, nella parte in cui prevede che in caso di passaggio di carriera al personale è attribuito un assegno personale pensionabile non riassorbibile e non rivalutabile.

7. Non è fondata l’eccezione di inammissibilità del controricorso, sollevata dalla difesa del ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c..

Non vi è dubbio che il dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprima un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, in quanto, come è stato già affermato da questa Corte (Cass. nn. 17178 e 17698 del 2014), la sua violazione pregiudica il diritto di difesa della controparte e la buona amministrazione della Giustizia, impedendo la realizzazione di un giusto processo e, quindi, degli obiettivi perseguiti dagli artt. 24 e 111 Cost., nonchè dall’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.

Tuttavia, in assenza di una disposizione processuale che sanzioni espressamente con la declaratoria di inammissibilità l’omesso rispetto del dovere, è necessario che la mancanza di sinteticità si risolva nella violazione dell’art. 366 c.p.c., applicabile anche al controricorso ex art. 370 c.p.c., comma 2 e pertanto l’inammissibilità dell’atto potrà essere dichiarata solo qualora l’irragionevole estensione del ricorso o del controricorso renda non intellegibili le questioni poste, oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le argomentazioni esposte per censurare la sentenza gravata o per contraddire ai motivi di impugnazione.

In tal caso, infatti, la sanzione dell’inammissibilità discende, non dalla violazione del dovere, in sè e per sè considerata, bensì dalla carenza dei requisiti di cui ai nn. 3 e 4 della norma sopra richiamata, perchè sia la proposizione di censure o difese non comprensibili, sia la redazione dell’atto con modalità tali che non facciano comprendere quale sia stato lo sviluppo della vicenda processuale e quale sia il tema ancora controverso, si risolvono nella violazione di quelle prescrizioni che, in linea con il ruolo nomofilattico della Corte, impongono al difensore, che per questo deve essere in possesso di una specifica professionalità, di sottoporre al giudice di legittimità questioni chiare, circoscritte e complete, realizzando nell’atto una doverosa sintesi fra esaustività, chiarezza e sinteticità dell’esposizione.

7.1. Nel caso di specie, sebbene il controricorso, di ben 154 pagine, non operi detta sintesi, perchè sovrabbondante e ripetitivo nella trascrizione degli atti rilevanti e nei richiami ai precedenti giurisprudenziali, tuttavia non si può dire che le argomentazioni svolte non siano intellegibili nè che le stesse richiedano da parte di questa Corte un’inammissibile attività di enucleazione ed estrapolazione della questione devoluta, in quanto, una volta sfrondato l’atto delle parti ripetitive, si colgono gli argomenti fondanti della difesa, che fa leva, da un lato, sull’eccepita inammissibilità del ricorso e, dall’altro, sulle ragioni per le quali in ogni ipotesi di mobilità l’assegno personale deve essere ritenuto riassorbibile.

L’eccezione, pertanto, deve essere disattesa.

8. Ad analoghe conclusioni si giunge quanto alla questione di rito posta dal Comune di Fondi, che va risolta sulla base dei medesimi principi richiamati nel punto che precede, dai quali discende che i requisiti di ammissibilità del ricorso non possono essere applicati in modo formalistico bensì valutando la funzione che gli stessi realizzano e, quindi, quanto alla denuncia di errores in procedendo, si devono ritenere rispettati ogniqualvolta la doverosa trascrizione degli atti processuali, seppure non integrale, consenta alla Corte di valutare, ex actis e senza necessità di accedere a fonti esterne, la fondatezza della doglianza.

Il ricorrente, nel riproporre la questione dell’inammissibilità dell’appello, sulla quale la Corte territoriale non ha pronunciato, ha riportato nel ricorso la motivazione della sentenza di primo grado (pag. da 5 a 7 del ricorso), le pagine da 4 a 15 dell’atto di appello (pag. da 8 a 18 del ricorso), la memoria difensiva depositata dinanzi al Tribunale di Latina (pag. da 19 a 29 del ricorso), ed ha poi argomentato sulle ragioni per le quali il gravame doveva essere ritenuto privo del requisito di specificità, in quanto mera riproposizione delle difese svolte nel precedente grado di giudizio, non idonee a confutare la sentenza impugnata (pag. da 31 a 37 del ricorso).

8.1. Il ricorrente ha altresì assolto all’onere di cui all’art. 369 c.p.c., che impone di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” perchè, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, detto onere si deve ritenere soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3 (Cass. S.U. n. 22726/2011 richiamata in motivazione da Cass. S.U. n. 10648/2017).

Le eccezioni di inammissibilità e di improcedibilità del ricorso vanno, pertanto, disattese.

8. Il primo motivo è infondato, sulla scorta del principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte e condiviso dal Collegio, secondo cui il vizio di omessa pronuncia, configurabile esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, non può essere denunciato in relazione ad eccezioni pregiudiziali di rito, in ordine alle quali la sentenza può essere impugnata “per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte” (Cass. n. 321/2016 e negli stessi termini Cass. nn. 1876, 6174 e 25154 del 2018).

9. Merita, invece, accoglimento il secondo motivo.

Questa Corte, nell’interpretare gli artt. 342 e 434 codice di rito, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, sulla premessa che il giudizio di appello non è un novum iudicium bensì una revisio prioris instantiae, da tempo ha affermato che in detto giudizio “la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi. Tale specificità dei motivi esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui, alla parte volitiva dell’appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Pertanto, non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. 15 aprile 1998 n. 3805; Cass. 1 settembre 1997 n. 8297; Cass. 23 luglio 1997 n. 6893; Cass. 21 febbraio 1997 n. 1599; Cass. 30 maggio 1995 n. 6066), con la conseguenza che se da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale e assoluta, dall’altro lato esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime (Cass. 12 agosto 1997 n. 7524)” (Cass. S.U. n. 16/2000).

Si è, quindi, consolidato il principio secondo cui, sia pure senza inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (Cass. n. 12984/2006, n. 9244/2007, n. 25588/2010, n. 22502/2014, n. 18932/2016, n. 4695/2017; Cass. S.U. n. 28057/2008 e n. 23299/2011), è necessaria la specifica indicazione, da parte dell’appellante, delle argomentazioni da contrapporre a quelle contenute nella sentenza di primo grado, che assolve alla funzione di “incanalare entro precisi confini il compito del giudice dell’impugnazione, consentendo di comprendere con certezza il contenuto delle censure” (così in motivazione Cass. S.U. n. 27199/2017, secondo cui la novella del 2012 “ha in effetti recepito e tradotto in legge ciò che la giurisprudenza di questa Corte, condivisa da autorevole e maggioritaria dottrina, aveva affermato già a partire dalla sentenza n. 16 del 2000 suindicata”).

9.1. Quanto alla possibilità di avvalersi di una tecnica redazionale dell’atto di appello che si concreti nel richiamo alle difese svolte in primo grado, si è affermato che (cfr. Cass. n. 27727/2005) l’onere della specificazione dei motivi di appello può ritenersi soddisfatto solo quando l’atto esprima articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado, non essendo, perciò, sufficiente, il generico rinvio alle difese svolte in primo grado (conf. Cass. n. 1707/2009), salva l’ipotesi che si verifica allorquando la prospettazione delle medesime ragioni addotte nel precedente grado di giudizio determini comunque una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (così Cass. S.U. n. 28057/2008).

9.2. In sintesi, alla luce dei principi ricavabili dai sopra richiamati precedenti, si deve ritenere che “l’individuazione del carattere di specificità del motivo di appello debba essere ispirata ad un principio di simmetria, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultano le argomentazioni del giudice di primo grado, anche in rapporto agli argomenti spesi dalle parti nelle loro difese, altrettanto puntuali debbano profilarsi le argomentazioni logico giuridiche utilizzate dall’appellante per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure” (Cass. n. 4695/2017).

9.3. Nel caso di specie, sulla scorta dell’orientamento espresso da questa Corte, l’appello proposto dal Comune di Fondi avverso la sentenza del Tribunale di Latina doveva essere dichiarato inammissibile, non solo e non tanto perchè mera riproposizione della memoria difensiva (le deduzioni riportate coincidono integralmente con quelle svolte nel primo grado di giudizio), quanto perchè gli argomenti spesi risultano privi della necessaria specifica attinenza al decisum e non appaiono idonei a confutare le ragioni per le quali il primo giudice aveva ritenuto fondata la domanda proposta dall’ A..

Dall’esame degli atti, che può essere direttamente effettuato da questa Corte in quanto giudice del “fatto processuale” (Cass. S.U. n. 8077/2012), si evince che il Tribunale, richiamato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, ha ritenuto ricompresa nella delega alla contrattazione collettiva anche la disciplina dell’assegno personale, nella specie dettata dall’art. 28 del CCNL 2000/2001 per i dipendenti del comparto Regioni ed autonomie locali, secondo cui “nell’ipotesi in cui l’importo complessivo del trattamento fisso e continuativo… in godimento presso l’amministrazione o l’ente di appartenenza sia superiore a quello derivante dal nuovo inquadramento, ai sensi dell’art. 27, presso l’ente di destinazione, l’eventuale differenza viene conservata a titolo di retribuzione individuale di anzianità”. Ha, quindi, richiamato l’art. 29, comma 6, del CCNL 2002/2005, l’art. 2, comma 3 e art. 10, comma 2, del CCNL del 9.5.2006

– nonchè l’accordo ARAN OO.SS. del 18.3.2003 per sostenere che “la detta contrattazione collettiva garantisce al lavoratore trasferito il mantenimento dell’eventuale differenza in suo favore a titolo di retribuzione individuale di anzianità” e, quindi, esclude il riassorbimento della stessa nei successivi miglioramenti retributivi.

L’appello non contiene alcuna argomentazione idonea a confutare la motivazione della sentenza di primo grado, perchè non censura l’interpretazione delle disposizioni contrattuali nè deduce alcunchè sui rapporti fra contrattazione collettiva e legge, nel sistema delineato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, nella versione applicabile alla fattispecie ratione temporis. Il gravame si limita ad invocare, apoditticamente e senza confrontarsi con la sentenza impugnata, il principio della necessaria riassorbibilità dell’assegno ad personam, desunto dalla L. n. 479 del 1994, art. 6 e dal D.P.R. n. 716 del 1994, art. 18, nonchè da una serie di massime della giurisprudenza amministrativa e di legittimità, nessuna delle quali riferibile alla disciplina dettata dalle parti collettive per il personale del comparto Regioni ed autonomie locali. L’appello, pertanto, costituisce più che una motivata critica della sentenza impugnata una mera riproposizione delle difese svolte in primo grado, in questo caso non idonea a soddisfare il requisito di specificità, perchè priva della necessaria simmetria con le ragioni esposte dal Tribunale per giustificare l’accoglimento, sia pure parziale, della domanda.

10. La fondatezza del secondo motivo è assorbente rispetto alle altre censure e comporta la cassazione della sentenza impugnata senza rinvio ex art. 382 c.p.c., comma 3, in quanto l’inammissibilità dell’appello, erroneamente non rilevata dalla Corte territoriale, è ostativa alla prosecuzione del processo (Cass. 24.1.2007 n. 1505; Cass. 26.8.2004 n. 17026).

11. Le spese del giudizio di appello e del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno poste a carico del Comune di Fondi nella misura indicata in dispositivo.

La fondatezza del ricorso comporta l’inapplicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo e assorbe gli altri motivi. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata e condanna il Comune di Fondi al pagamento delle spese del giudizio di appello e di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per competenze professionali per l’appello ed in Euro 4.000,00 per competenze professionali ed Euro 200,00 per esborsi per il presente giudizio di legittimità, oltre al rimborso delle spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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