Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.21447 del 19/08/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21187-2015 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASIGNANA 36, presso lo studio dell’avvocato SILVANO CAMILLONI, rappresentato e difeso dagli avvocati LUIGI CINI, GIANCARLO CINGOLANI;

– ricorrente –

contro

EREDITA’ GIACENTE DI P.O. DECEDUTO, in persona del Curatore pro tempore V.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1439/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 09/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/03/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

RITENUTO

che dello sviluppo della complessa vicenda processuale è di utilità ricordare quanto appresso:

– vengono riunite due cause introdotte da C.S. contro il cognato P.O., con le quali era stato, rispettivamente, chiesto: a) lo scioglimento di una comunione immobiliare con rendiconto; b) accertarsi l’intervenuto acquisto per la metà dei medesimi beni, formalmente intestati al congiunto convenuto;

– con sentenza non definitiva il Tribunale: 1) disponeva lo scioglimento della comunione e procedeva all’assegnazione delle quote con conguaglio; 2) escludeva il fabbricato di nuova costruzione sito in località ***** dalla comunione e ne affermava l’esclusiva proprietà in capo al P.;

– la Corte d’appello dichiarava l’inammissibilità

dell’impugnazione del C., perchè proposta dopo formulazione di riserva d’appello;

– con la sentenza definitiva il Tribunale condannava il P. a pagare al C. la metà dei redditi percepiti dalla gestione dei beni comuni;

– la Corte d’appello dichiarava inammissibile l’appello del C. avverso la sentenza non definitiva e rigettava quello principale, nonchè quello incidentale, avverso la sentenza definitiva;

– la Cassazione con la sentenza n. 8444/2008, accolto il ricorso del C. e dichiarato assorbito quello incidentale, cassava con rinvio la sentenza d’appello;

– la Corte d’appello di Bologna, con la sentenza oggetto del presente ricorso, per quel che qui ancora rileva, rigettava l’appello del C..

RITENUTO

che il C. ricorre con unitaria censura, ulteriormente illustrata da memoria, avverso la sentenza emessa dalla Corte locale in sede di rinvio, nei confronti dell’eredità giacente di P.O.;

ritenuto che con l’esposto motivo, il ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366,1367,1369,1371,1100 e 340 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, sulla base, in sintesi, di quanto appresso:

– non si era tenuto conto della volontà dei contraenti, avendo il C. “da solo concordato l’acquisto dei due poderi e di un fabbricato”, dei quali aveva pagato il prezzo, pattuendo col cognato, simulatamente intestatario dell’intero, che “tutte le eventuali migliorie ed addizioni che fossero fatte sui beni sopra descritti saranno, naturalmente, di proprietà in ragione di un mezzo indiviso ciascuno dei sottoscritti P.O. e C.S.” e, di conseguenza, il fabbricato edificato dal P. sul terreno comune, non avrebbe dovuto essere considerato di proprietà esclusiva di quest’ultimo;

– le clausole andavano interpretate nel loro complesso e la presenza di due “clausole” di significato “contrastante” (“addizioni” e “miglioramenti”) imponeva la distinzione, non solo per ragioni linguistiche, ma anche nel rispetto del canone della buona fede, tra le une e gli altri;

– interpretando il termine “addizione” come semplice miglioramento agricolo, “tutti i comportamenti del C. sarebbero atti di pura beneficenza. Infatti, il prezzo pagato per l’acquisto dei poderi, le prime annualità di rendite maturate e versamenti fattigli, dovevano servire per la costruzione della casa con obbligo del P. di fornire i rendiconti e di rimborsargli le eventuali eccedenze”;

– gli assegni azionati dal P. erano stati a costui consegnati dal ricorrente per la costruzione dell’immobile;

– nel caso d’irrisolvibile oscurità del patto, esso andava interpretato assicurando l’equo contemperamento degli interessi delle parti;

– viene, infine, denunziato un non meglio specificato omesso esame di un fatto controverso e decisivo;

considerato che il ricorso non supera la soglia dell’ammissibilità per il convergere di più autonome ragioni:

a) la sentenza d’appello muove dalla considerazione che il C. con i due atti introduttivi dei giudizi di primo grado, poi riuniti, aveva fatto esclusivo riferimento alla scrittura del 13/3/1974 e al rogito del 1974, senza far menzione della costruzione, realizzata, tra il 1976 e il 1980, dal P. sul terreno comune, di talchè la pretesa avanzata in appello doveva reputarsi inammissibile perchè nuova; precisa ulteriormente la Corte locale che non era applicabile l’art. 934 c.c.(accessione), poichè non trattavasi dellèedificazione operata da un terzo, nè le norme in materia d’innovazioni condominiali, non constando deliberazione al fine di soddisfare comune interesse; nè, infine, poteva trovare fondamento nella “clausola relativa alle addizioni e migliorie contenuta nella scrittura privata 13 marzo 1974 che si riferisce evidentemente alle opere destinate ad incrementare la produttività dei fondi, mentre ove le parti fin dall’inizio avessero avuto intenzione di costruire un edificio con tre appartamenti (…) avrebbero certo esplicitato in modo specifico tale loro intenzione in considerazione dell’elevata esposizione finanziaria che ciò avrebbe comportato”;

b) il ricorrente non si misura con tutte le rationes decidendi e, in particolare, con l’affermata novità della domanda e, di conseguenza, mancando una puntuale spendita impugnatoria di tutte le rationes decidendi, il punto deciso è divenuta intangibile e, pertanto, impermeabile al giudizio di cassazione (cfr., fra le tante, da ultimo, S.U., n. 7931 del 29/3/2013, Rv. 625631; Sez. L., n. 4293 del 4/3/2016, Rv. 639158);

c) il Collegio non risulta essere stato posto in condizione di conoscere con apprezzabile dettaglio la vicenda, sommariamente e confusamente narrata in ricorso e appena delineata in sentenza, e, in particolare, i documenti evocati (in primo luogo la scrittura del marzo 1974), da ciò derivando insanabile difetto di specificità, anche sub specie di deficitaria autosufficienza;

d) la vicenda resta confinata negli apprezzamenti di merito, non bastando, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito; in quanto, “l’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 c.c. e ss., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili (il secondo, ovviamente, sotto il regime del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579. 16.3.04 n. 5359, 19.1.04n. 753)” (Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013);

d.i.) già sotto la vigenza del testo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 ante riforma del 2012, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un negozio giuridico non deve essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009, Rv. 610944; conformi: Sez. 1, n. 16254, 25/9/2012, Rv. 623697; Sez. 1, n. 6125, 17/3/2014, Rv. 630519; Sez. 1, n. 27136, 15/11/2017, Rv. 646063);

– dopo la novella del 2012 all’art. 360 c.p.c., n. 5 lo spazio di critica, venuta meno la censurabilità della motivazione (salvo il caso dell’inesistenza o mera apparenza di essa), non può che risolversi solo ed esclusivamente nella puntuale e specifica denunzia della violazione di legge, il che impone, a fortiori, spiegare, come si è detto, in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati;

d.2.) nel caso di specie la Corte territoriale ha esplicitato (pagg. 7/8), facendo uso degli strumenti ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., le ragioni che la inducevano a dissentire dalla opinione dell’appellante, i cui argomenti, ripresi in ricorso, lungi dall’addebitare alla sentenza impugnata l’applicazione d’un criterio ermeneutico non previsto dalla legge o, addirittura contrario alla legge, contestano il risultato dell’interpretazione, peraltro anche evocando documenti (assegni) in questa sede non conoscibili;

e) il riferimento all’art. 1100 c.c., è, ovviamente, privo di autonomia, perchè presuppone la fondatezza della prospettazione;

f) il riferimento all’art. 340 c.c., oramai abrogato (che, a suo tempo, regolava, prima della riforma del diritto di famiglia, l’amministrazione e l’educazione del figlio minore in caso di nuove nozze della madre), è, ovviamente in conducente;

g) la denunzia di omesso esame di un fatto controverso e decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, priva di specificazione alcuna non può formare oggetto di scrutinio;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che non v’è luogo a regolamento del capo delle spese poichè la controparte è rimasta intimata;

considerato che ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2019

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