LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –
Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso iscritto al numero 21035 del ruolo generale dell’anno 2016, proposto da:
Ceracchi Illuminazione s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avv.to Ugo Marinelli e dall’avv.to Maria Teresa Barbantini Fedeli, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’ultimo difensore in Roma alla Via Caio Mario n. 7;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 584/10/2016, depositata il 2 febbraio 2016, non notificata.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17 aprile 2019 dal Relatore Consigliere Dott.ssa Putaturo Donati Viscido di Nocera Maria Giulia.
RILEVATO
che:
– con sentenza n. 584/10/2016, depositata il 2 febbraio 2016, la Commissione tributaria regionale del Lazio accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di Ceracchi Illuminazione s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma n. 364/59/2011 che aveva accolto il ricorso proposto dalla detta società avverso l’atto di contestazione di sanzione amministrativa n. 30110078-2008 emesso dall’Ufficio delle dogane di Civitavecchia, relativamente all’atto presupposto dell’avviso di rettifica dell’accertamento n. 14501 del 1 ottobre 2008, concernente la dichiarazione doganale di importazione IM4 n. 6493/H del 23 novembre 2005 avente ad oggetto una partita di lampade fluorescenti compatte elettroniche a scarica, scortate da certificati Form A, dichiarate di origine malese ma risultate, a seguito di revisione dell’accertamento, di origine cinese;
– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha affermato che: 1) in tema di avvisi di rettifica in materia doganale era inapplicabile la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, operando lo ius speciale di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, preordinato a garantire un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all’impugnazione in giudizio dell’avviso; 2) nella specie non ricorrevano le condizioni preclusive della contabilizzazione a posteriori di cui all’art. 220, par. 2 lett. b) del Reg. CEE n. 2913 del 1992 (C.D.C.), non avendo la società contribuente fornito la prova della commissione da parte delle autorità competenti di un errore c.d. attivo, tale da ingenerare un affidamento incolpevole dell’operatore nè, tantomeno, avendo dimostrato di avere osservato, con la diligenza necessaria, tutte le disposizioni previste dalla normativa vigente per la sua dichiarazione in dogana, essendo risultato, da informazioni degli organi UE, che in Malaysia non esisteva un’industria di lampade della tipologia in questione, e, peraltro, che i certificati FORM A erano intestati a società non registrate presso il MITI (Autorità dello Stato di esportazione competente al rilascio); 3) la sanzione di cui al (T.U.L.D.) D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, da interpretare alla luce del T.U.L.D., art. 8, comma 3, riguardava ogni ipotesi di difformità o falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti oltre che al valore, quantità, qualità delle merci, anche all’origine delle merci stesse;
– avverso la sentenza della CTR, Ceracchi Illuminazione s.r.l., propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle dogane;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.
CONSIDERATO
che:
– con il primo motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per avere la CTR erroneamente disatteso il motivo di gravame concernente la mancata concessione alla società contribuente del termine di sessanta giorni tra la notifica del processo verbale di constatazione e l’atto di rettifica dell’accertamento, quale atto presupposto dell’atto di contestazione delle sanzioni oggetto di impugnativa;
– il motivo è infondato;
– con specifico riferimento al contraddittorio in materia doganale questa Corte si è più volte pronunziata, sulla scia dei precedenti resi dalla Corte di Giustizia. In particolare, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente richiamato dal Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 (codice doganale comunitario), si evince dalle previsioni espresse del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11 e costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogni qualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. Ne deriva che la denuncia di vizi di attività dell’Amministrazione capaci di inficiare il procedimento è destinata ad acquisire rilevanza soltanto se, ed in quanto, l’inosservanza delle regole abbia determinato un concreto pregiudizio del diritto di difesa della parte, direttamente dipendente dalla violazione che si sia riverberata sui vizi del provvedimento finale. Per altro verso, questa Corte ha ritenuto che, in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, è inapplicabile la L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, operando in tale ambito lo jus speciale di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all’impugnazione in giudizio del detto avviso (Cass. n. 23669 del 2018; Cass. 15032 del 2014; Cass. n. 8399 del 2013). In particolare, da ultimo nelle sentenze n. 23669 del 2018 e n. 1789 del 2019, questa Corte ha precisato come la disciplina di cui al citato D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 – nella versione ante novella del D.L. n. 1 del 2012, convertito dalla L. n. 27 del 2012 – sia stata promossa dalla Corte di giustizia, con la sentenza del 20 dicembre 2017, causa C- 276/16, Preqù-Italia, secondo cui “il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’art. 244 del regolamento (CEE) n. 2913 del 1992 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’art. 244, comma 2, di detto regolamento da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato” e “la violazione del diritto di essere ascoltati determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso”;
– la CTR si è uniformata al suddetto principio, avendo ritenuto, nella specie, la legittimità del presupposto avviso di rettifica, stante l’applicabilità in materia doganale non già dell’art. 12, comma 7, citato ma dello “ius speciale” di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11;
– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 220, par. 2 lett. b) del C.D.C. per avere la CTR erroneamente disatteso il motivo di gravame concernente l’asserita sussistenza, nella specie, delle condizioni preclusive della contabilizzazione a posteriori di cui all’art. 220, par. 2, lett. b), del C.D.C., quanto all’atto presupposto dell’avviso di rettifica dell’accertamento;
– il motivo è infondato;
– in sede di contabilizzazione a posteriori dei dazi, la buona fede dell’importatore rileva soltanto qualora ricorrano le condizioni fissate da ultimo nella sentenza della Corte di giustizia del 16 marzo 2017, causa C-47/16, Valsts ienèmumu dienests, secondo cui “L’art. 220, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, dev’essere interpretato nel senso che un importatore può invocare il legittimo affidamento in base a detta disposizione, al fine di opporsi ad una contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione, eccependo la propria buona fede, solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative. Occorre, anzitutto, che tali dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti medesime, quindi, che tale errore sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede e, infine, che quest’ultimo abbia rispettato tutte le disposizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana. Tale legittimo affidamento non sussiste, in particolare, quando, sebbene abbia evidenti ragioni per dubitare dell’esattezza di un certificato di origine “modulo A”, un importatore si sia astenuto dall’informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se tali dubbi fossero giustificati. Un obbligo del genere non significa tuttavia che un importatore sia tenuto, in generale, a verificare sistematicamente le circostanze del rilascio da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione di un certificato di origine “modulo A”. Spetta al giudice del rinvio valutare, tenendo conto dell’insieme degli elementi concreti della controversia principale, se tali tre condizioni siano soddisfatte nel caso di specie.”. A norma dell’art. 220, n. 2, lett. b), del C.D.C. le autorità competenti non procedono alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione qualora “l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana”;
– ne consegue che, come ritenuto da questa Corte (Cass. n. 5007 del 2007; sez. un. 18190 del 2008, Cass. n. 13680 del 2009; n. 7837 del 2010, in motivazione; n. 3531 del 2012; n. 1142 del 2018; n. 1788 del 2019), la mancanza anche di uno solo dei citati presupposti, basta ad escludere il diritto del debitore a non vedersi assoggettato al dazio;
– i giudici comunitari in ripetute occasioni hanno chiarito le nozioni adottate da tale disciplina derogatoria (Corte di Giustizia, sentenze 1.4.1993 C-250/91 HP France; 14.5.1996 C-153/94 e C-204/94 Farcoer; 27.1.1991 C-348/89 Mecanarte; 19.10.2000 C-15/99 Sommer; 12.12.1996 C- 38/95 Foods Import; 26.6.1990 C-64/89 Deutsche Fernsprecher), in particolare, precisando che l’errore deve essere imputabile alle autorità che hanno posto in essere i presupposti su cui riposava il legittimo affidamento dell’operatore, deve essere cioè provocato da un comportamento “attivo” delle medesime per cui non vi rientra quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’esportatore di cui non si debba valutare o verificare la validità (la semplice astensione od omissione dell’amministrazione preposta non potendo creare alcuna legittima aspettativa al riguardo)(in tal senso, v., da ultimo, Cass. n. 1142 del 2018).
L’errore della dogana, secondo il tenore letterale dell’art. 220, n. 2 lett. b, par. 3, del C.D.C., non può, dunque, consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – dato che le autorità stesse non debbono verificarne o valutarne la veridicità, mentre resta integrato da un comportamento attivo, che secondo la casistica – poi codificata nella seconda parte del citato par. 3, della lett. b) della norma in esame si basa su un’errata interpretazione delle norme in materia di origine (cfr. sent 14.11.002, causa C- 251/00, Ilumitronica, punti 44 e 45, sent. Faroe Seafood e a. punto 97) o di erronea classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci secondo la nomenclatura (sent 1.4.1993, C250/91, punto 21, Società Hewlett Packard France). In altri termini, il legittimo affidamento del debitore è degno della protezione prevista dall’art. 220 del C.D.C. soltanto se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la fiducia del debitore, diversamente, costui è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (sent. cit., Ilumitronica, punto 43, e Faroe Seafood, punto 92), vigendo il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (sent. Beemsterboer, punto 43; Cass. n. 19195/2006);
– la CTR si è uniformata al suddetto principio avendo- con un accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità- escluso nel complesso la sussistenza delle condizioni per l’operatività, quanto all’atto presupposto dell’avviso di rettifica, dell’art. 220 C.D.C, per mancata configurabilità, nella specie, dell’errore c.d. attivo delle autorità competenti nonchè della dovuta diligenza dell’operatore nell’osservanza di tutte le disposizioni previste dalla normativa vigente per la sua dichiarazione in dogana;
– con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del (T.U.L.D.) D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, per avere la CTR erroneamente disatteso il motivo di gravame concernente la assunta inapplicabilità dell’art. 303 T.U.L.D. con riguardo alla accertata difformità o falsità della dichiarazione doganale quanto all’origine delle merci;
– il motivo è infondato;
– questa Corte ha affermato che “In tema di sanzioni per violazioni delle disposizioni in materia doganale, il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, applicabile “ratione temporis”, contempla un’unica fattispecie sanzionatoria, non prevedendo, invero, al comma 3, una fattispecie legale diversa rispetto a quella di cui al comma 1, ma configurandone una mera circostanza aggravante, che comporta una maggiorazione dell’entità della stessa sanzione, comminata per “le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci” non corrispondenti all’accertamento degli Uffici finanziari, fermo restando che ricadono nel suo ambito applicativo – poichè nel concetto di “qualità” di una merce rientra qualsiasi caratteristica, proprietà o condizione che serva a determinarne la natura ed a distinguerla da altre simili – anche le dichiarazioni sull’origine (o la provenienza) della merce stessa, in quanto sintomatiche della specificità del prodotto” (Cass. Sez. 5 – Ordinanza n. 2169 del 25/01/2019; v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 32956 del 20/12/2018);
– nella specie, la CTR ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi;
– in conclusione, il ricorso va rigettato;
– la peculiarità e le oscillazioni giurisprudenziali sulla materia inducono questa Corte a compensare interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 aprile 2019.
Depositato in cancelleria il 11 settembre 2019