LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11032/2018 proposto da:
A.M., elettivamente domiciliato in Roma, v.le Angelico n. 38, presso lo studio dell’avvocato Maiorana Roberto, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero Dell’interno;
– intimato –
avverso la sentenza n. 46/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA depositata il 25/01/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/02/2019 dal consigliere Paola VELLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’accoglimento;
udito l’Avvocato Roberto Maiorana per il ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di Appello di Perugia ha rigettato l’appello proposto dal cittadino bangladese A.M. avverso l’ordinanza ex art. 702-bis cod. proc. civ. del 14/01/2017, con cui il Tribunale di Perugia aveva a sua volta respinto l’opposizione proposta dal ricorrente contro il diniego della tutela invocata dinanzi alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Perugia, in ragione della ritenuta inattendibilità del ricorrente e dell’insussistenza di un effettivo pericolo per la sua incolumità in caso di rientro in patria. In particolare, questi aveva dichiarato di essere un giornalista legato al partito BNP e di essere fuggito dal suo Paese, dopo aver subito minacce e false denunce, per il timore di non ricevere adeguata protezione dallo Stato.
2. Avverso detta sentenza A.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
3. L’intimato Ministero dell’interno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo – rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – Omesso/erroneo esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale del ricorrente” – si deduce che “il Giudice di prime cure non ha affatto considerato la valenza del racconto del ricorrente” e che, “quale che fosse il motivo per cui il ricorrente sia stato minacciato nella sua persona, appare evidente che tale situazione lo ponga in una condizione di serio pericolo”.
5. Con il secondo mezzo – rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Mancata concessione della protezioni sussidiaria cui il ricorrente aveva diritto ex lege in ragione delle attuali condizioni socio politiche del paese di origine: Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14” – ci si duole del non avere la Corte d’appello minimamente preso in considerazione il rapporto Amnesty International del 2017, dal quale emergerebbe che “ancora oggi il Bangladesh viene descritto come un territorio estremamente critico e rischioso”, sì da giustificare la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), o comunque il diritto di asilo ex art. 10 Cost..
6. Nel terzo motivo, prospettato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), si deduce che “il tribunale ha errato a non applicare al ricorrente la protezione, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 non potendo essere rifiutato il permesso di soggiorno allo straniero, qualora ricorrano seri motivi di carattere umanitario, nonchè del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 che vieta l’espulsione dello straniero che possa essere perseguitato nel suo paese d’origine o che ivi possa correre gravi rischi”, in quanto il richiedente avrebbe compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e, con riguardo alla protezione umanitaria, assumerebbe rilievo anche la condizione di vulnerabilità connessa al diritto alla salute e all’alimentazione, essendo “in re ipsa” la prova di inadeguatezza delle condizioni di vita del ricorrente nel Paese di origine.
7. Il quarto mezzo – rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Violazione del principio di non refoulement” – critica la mancata considerazione della situazione personale del ricorrente con riguardo al divieto di respingimento consacrato nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra e nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 stanti le gravi conseguenze personali che il ricorrente potrebbe subire in caso di ritorno forzato nel suo paese di origine.
8. I motivi presentano profili di inammissibilità e infondatezza.
9. In primo luogo, la censura motivazionale contenuta nel primo di essi risulta del tutto generica, e comunque veicolata in modo difforme dal paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – come riformulato ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – il quale contempla l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia, ai cui fini il ricorrente è onerato di indicare – nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 07/04/2014 n. 8493; conf., ex plurimis, Cass. 29/10/2018 n. 27415).
10. Il secondo motivo, relativo alla omessa valutazione delle condizioni socio-politiche del Bangladesh, è infondato.
10.1. La Corte d’appello ha invero valorizzato sia la dubbia credibilità del racconto del richiedente (incapace di indicare “un nome corretto di un quotidiano” presso il quale avrebbe lavorato come giornalista) sia la mancanza di “prova dei fatti narrati dall’appellante” sulle “motivazioni che lo avrebbero indotto a lasciare il proprio Paese d’origine, per le violenze e minacce subite in relazione al suo lavoro di giornalista”, nonchè “a un eventuale aiuto chiesto all’autorità statuale e ad un’eventuale tolleranza, tacita approvazione o incapacità da parte della stessa di prestargli protezione sulla sua incapacità di prestargli protezione”, concludendo pertanto che: i) la situazione narrata “non può farsi rientrare in alcuna delle ipotesi di persecuzione individuate dalla normativa sopra richiamata, in attuazione della Convenzione di Ginevra”; ii) “nel caso di specie non ci si trova assolutamente in presenza di una situazione di rischio per la vita o l’incolumità fisica derivante da sistemi di regole non scritte sub-statuali, imposte con la violenza e la sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso”; iii) “da parte del ricorrente non è stato fatto alcun cenno a possibili situazioni di insicurezza generale e di assenza di protezione da parte delle autorità statuali (…) nè a situazioni di persecuzioni o trattamenti inumani o degradanti”; iv) “è pertanto evidente che il reclamante, nel lasciare il suo paese, ha solo fatto una scelta personale”.
10.2. Tali argomentazioni non contrastano con i principi elaborati da questa Corte in tema di protezione sussidiaria.
10.3. Innanzitutto, con riguardo alla ritenuta non credibilità del racconto del ricorrente, si tratta di profilo che integra un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – chiamato espressamente a valutare se le dichiarazioni dello straniero siano coerenti e plausibili, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), – e quindi censurabile in cassazione solo nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) sopra richiamati (Cass. 05/02/2019 n. 3340).
10.4. In secondo luogo, il cd. dovere di cooperazione istruttoria officiosa D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 8, comma 3, (per cui “Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati”) – applicabile ad ogni tipo di domanda di protezione sussidiaria – è stato interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni, da parte delle Commissioni territoriali e del giudice, va correlato ai fatti e ai motivi esposti nella richiesta di protezione internazionale, non potendo perciò censurarsi la mancata attivazione ex officio di detti poteri istruttori con riguardo a presupposti e circostanze non dedotte ai fini della protezione invocata (Cass., Sez. 1, 21/11/2018 n. 30105). E’ stato dunque affermato il principio per cui il potere-dovere del giudice di accertare se, ed in quali limiti, nel Paese d’origine del richiedente protezione internazionale si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano costui a minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), – ovvero se il grado di violenza indiscriminata abbia raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che lo straniero, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia sorge solo dopo che il richiedente abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi della sua personale esposizione al rischio. Ne deriva che il giudicante non può supplire, attraverso l’esercizio dei suoi poteri officiosi, alle deficienze di allegazione e di prova del ricorrente, gravato dall’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto con riguardo alla individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza (Cass. Sez. 1, 31/01/2019 n. 3016; conf. Cass. n. 27336/2018).
10.5. Inoltre, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale” – da interpretare in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18/12/2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi cui sono esposti in generale la popolazione di un paese o di una parte di esso di norma non costituiscono ex sè una minaccia individuale definibile come danno grave (v. direttiva n. 2011/95/UE, Cons. 26), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v. Corte giustizia 17/0/2009, Elgafaji e 30/01/2014, Diakitè; cfr. Cass. n. 13858/2018) – deve essere rappresentata dallo stesso richiedente come personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, sia pure in rapporto alla situazione generale del paese di origine, ed implica un apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità se non nei limiti del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., Sez. 1, 21/11/2018 n. 30105; conf. Sez. 6-1, 12/12/2018 n. 32064).
11. Analoghe carenze di allegazione, prima ancora che di prova, rendono generici e perciò inammissibili il terzo ed il quarto motivo riguardanti, rispettivamente, la protezione umanitaria e il principio di non respingimento (non refoulement) – avendo la Corte d’appello chiaramente affermato che “non sussistono neppure i presupposti per la protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6” poichè “nulla è stato dedotto in ordine alla violazione di diritti fondamentali della persona in caso di rimpatrio” (cfr. Cass. Sez. 6-1, 31/05/2018 n. 13858, proprio con riguardo alla situazione del Bangladesh ed alla mancata indicazione di elementi idonei a compiere una valutazione individualizzante del rischio in caso di rimpatrio).
11.1 Quanto alla protezione umanitaria va rilevato preliminarmente che questa Corte, con sentenza del 23/1/2019 n. 4890, condivisa dal Collegio che intende garantirle continuità, ha precisato che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge, che devono essere scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione.
11.2. Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari al cittadino straniero, che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455/2018; cfr. Cass. n. 25075/2017). Il tutto senza che possa però eludersi la verifica della sussistenza di una condizione personale ed individuale di vulnerabilità, poichè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto col parametro normativo sopra richiamato (Cass. n. 4455/2018 cit.).
12. Infine, con riguardo al diritto di asilo costituzionale questa Corte ha affermato che esso risulta ormai “interamente regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste dai tre istituti dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera dell’esaustiva normativa di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251 e di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6; con la conseguenza che non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione” (Cass. Sez. 1, 21/11/2018 n. 30105; conf. Cass. n. 16362/2016 e n. 10686/2012).
13. Segue il rigetto del ricorso, senza statuizione sulle spese.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2019