LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 21150-2017 proposto da:
M.F., in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori H.L. e H.C., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE PIRAMIDE CESTIA, 31, presso lo studio dell’avvocato DANIELLA MAGURNO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
VOLKSWAGEN AG, VOLKSWAGEN GROUP ITALIA SPA in persona dell’Amministratore Delegato Dott. N.M. o chi per esso pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA M. PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato PAOLA RAMADORI, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato KARL REITERER;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 3806/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/06/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.
FATTI DI CAUSA
1. M.F., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sui figli minori H.C. e L., ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza n. 3806/17, del 7 giugno 2017, della Corte di Appello di Roma, che – rigettando il gravame dalla stessa esperito contro la sentenza n. 57/13, del 5 febbraio 2013, del Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio ha confermato la reiezione della domanda risarcitoria proposta dall’odierna ricorrente contro Volkswagen AG e Volkswagen Group Italia S.p.a., in relazione al decesso del proprio convivente “more uxorio”, H.D., padre dei minori L. e C..
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di aver adito il Tribunale di Velletri, sezione distaccata di Anzio, sul presupposto che il H., in data 24 novembre 2006, perdeva la vita in un incidente stradale, a causa del mancato funzionamento degli airbag di un’autovettura Volkswagen, di proprietà di essa M..
Non senza rammentare, per un verso, come la vettura, neanche due mesi prima dell’incidente, fosse stata sottoposta alle verifiche per tagliando, nonchè, per altro verso, di aver appreso che la responsabilità dell’evento fosse da ascrivere alla Volkswagen soltanto a seguito della conclusione, nel novembre 2007, delle indagini penali sul sinistro, la M. riferisce di aver inviato una raccomandata, in data 30 ottobre 2009 (a suo dire interruttiva della prescrizione), alla sede italiana della Volkswagen, che era anche distributore e importatore, in Italia, della vettura.
Radicato, successivamente, il giudizio risarcitorio nei confronti sia di Volkswagen Group Italia S.p.a., che di Volkswagen AG (produttrice della vettura), all’esito della consulenza tecnica d’ufficio, disposta dall’adito giudicante, dalla stessa sarebbe emerso che la morte dell’uomo era riconducibile ad un “trauma fratturativo emorragico endocranico, probabilmente con lesione anche del rachide cervicale”, e non ad un arresto cardiocircolatorio, come invece refertato nella immediatezza del fatto. Dall’espletata consulenza tecnica d’ufficio, sempre secondo la ricorrente, sarebbe, inoltre, risultato che l’attivazione dell’airbag laterale – viceversa, non avvenuta – avrebbe consentito il trattenimento della testa dell’uomo nel sacco dell’airbag, evitando che la stessa fosse esposta alle sollecitazioni del moto del veicolo e che andasse ad impattare con l’albero, contro il quale l’autovettura finiva la corsa, dopo un primo impatto ed una rotazione di 180 gradi su se stessa.
A dispetto, tuttavia, di tali risultanze, la domanda risarcitoria veniva rigettata dal Tribunale di Velletri, che – con decisione confermata dalla Corte capitolina – dichiarava, da un lato, l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno, per decorso del termine triennale D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ex art. 125 (risalendo la notificazione della citazione solo al 6 luglio 2010), e, comunque, il difetto di prova del nesso di causalità fra il malfunzionamento dell’airbag e il decesso dell’uomo.
3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione la M., sulla base di sette motivi.
3.1. Il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) “e/o” 5), – ipotizza, innanzitutto, “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 18, comma 1, lett. b), artt. 115, 116,118 e 125 nonchè dell’art. 112 c.p.c., “per non avere il giudice di merito deciso su tutta la domanda”, in particolare omettendo “l’esame di fatti decisivi per il giudizio che erano stati oggetto di discussione tra le parti, sia con riferimento alla prescrizione, sia con riguardo alla responsabilità del distributore che nel caso di specie coincide con la sede italiana del produttore”.
Ci si duole del fatto che la raccomandata inviata il 30 ottobre 2009, alla sede italiana (Volkswagen Group Italia S.p.a.) della casa automobilistica, non sia stata ritenuta idonea ad interrompere il termine triennale di prescrizione anche nei confronti della società produttrice (Volkswagen AG), giacchè le due società risultano appartenere al medesimo gruppo societario, con ciò avendo la sentenza impugnata disatteso la sentenza quanto ritenuto sia dalla giurisprudenza amministrativa in relazione al caso “dieselgate” (è citata Tar Lazio, sede di Roma, Sez. 1, ord. 7 dicembre 2016, n. 7882), sia da questa stessa Corte, con riferimento proprio ad un giudizio risarcitorio per danni da mancata attivazione di airbags (Cass. Sez. 3, sent. 4 gennaio 2010, n. 14).
Inoltre, nel riconoscere l’unico soggetto legittimato passivo in Volkswagen AG, il giudice di appello non avrebbe tenuto conto del fatto che, nell’atto introduttivo del giudizio, non si distingueva fra responsabilità del produttore e/o dell’importatore e/o del distributore, donde, pertanto, la violazione dell’art. 112 c.p.c., non avendo la Corte capitolina pronunciato sull’intera domanda.
Tale vizio di “omessa pronuncia”, inoltre, sarebbe integrato secondo la ricorrente – anche in ragione del fatto che il tema relativo alla prescrizione era stato affrontato da essa M., in appello, sotto più profili, volti ad evidenziare: che Volkswagen Group Italia S.p.a. dovesse ritenersi egualmente responsabile, anche ad ammetterne la qualifica di mero fornitore, a norma dell’art. 116 cod. consumo; che nell’individuazione del “dies a quo” della prescrizione si dovesse, in ogni caso, tener conto sia del momento in cui la parte aveva avuto conoscenza del soggetto produttore, sia dell’avvenuto esaurimento dell’azione penale; che alla presente fattispecie, in subordine, potesse applicarsi la disciplina in tema di prescrizione prevista dalle norme codicistiche.
3.2. Il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) “e/o” 5), – ipotizza, “sempre in punto di prescrizione e di legittimazione passiva”, la “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 116 nonchè dell’art. 2050 c.c..
Si censura la sentenza impugnata in quanto, anche a voler negare a Volkswagen Group Italia S.p.a., quale sede italiana della società capogruppo, la qualità di produttore, la medesima, come fornitore della vettura, avrebbe dovuto a comunicare al danneggiato, entro il termine di tre mesi dalla richiesta, l’identità e il domicilio del produttore. Ne conseguirebbe la sottoposizione della stessa, a norma del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 116 alla medesima responsabilità prevista per il produttore.
Anche in questo caso, inoltre, la Corte di Appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame all’uopo formulato, e comunque su quelli diretti a far valere la responsabilità di tale soggetto a norma degli artt. 2043 e 2050 c.c., donde il mancato esame dell’intera domanda da essa M. proposta.
3.3. Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) “e/o” 5), – ipotizza, “sempre in punto di prescrizione”, la “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 125 oltre che “omessa applicazione dell’art. 11 della direttiva CE, n. 85/374/CEE”.
Ci si duole, innanzitutto, della violazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 125 a mente del quale il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno decorre dal giorno in cui il danneggiato ha conoscenza dello stesso, nonchè del difetto e dell’identità del responsabile. Orbene, nel caso di specie, il momento di tale conoscenza non può farsi coincidere con quello della verificazione del sinistro, dovendo individuarsi, alternativamente, in quello di conclusione delle indagini penali, ovvero in quello del deposito della consulenza tecnica d’ufficio svolta nel primo grado di giudizio, o infine, quanto specificamente alla identità del soggetto produttore, con il momento della costituzione in giudizio delle convenute.
In ogni caso, ci si duole del fatto che, oltre all’esame di tali argomenti, al giudice di appello fosse stato devoluto lo scrutinio ulteriori motivi di gravame, volti a ritenere operante, nella specie, il termine quinquennale di prescrizione (giusta il rinvio, ad esso, operato dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 135) e, comunque, quello decennale, ex art. 11 della direttiva CE, n. 85/374/CEE.
Viene contestata, in particolare, quella affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il mancato funzionamento dell’airbag risultava rilevato dagli agenti verbalizzanti, accorsi sul luogo del sinistro, il cui rapporto era a disposizione della ricorrente quantomeno a norma dell’art. 11 C.d.S., comma 4, giacchè essa non terrebbe conto, in particolare, del fatto che i rilievi effettuati restano coperti da segreto istruttorio fino alla conclusione delle indagini.
3.4. Il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) “e/o” 5), – ipotizza “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 116,118,119 e 135 oltre che degli artt. 2043,2050 e 2947 c.c..
In particolare, si sottolinea come l’atto di citazione non limitasse affatto la richiesta di risarcimento danni alla normativa del codice del consumo, avendo la M. diritto di agire anche a norma degli artt. 2043 e 2051 c.c., con conseguente applicazione del termine prescrizionale di cinque anni, se non addirittura di quello decennale, considerato che l’immissione sul mercato di un prodotto pericoloso (ovvero, nella specie, privo dei dispositivi obbligatori per legge), costituisce un’ipotesi di reato.
3.5. Il quinto motivo – proposto, al pari degli altri, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) “e/o” 5), – ipotizza “violazione e/o falsa applicazione” D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 120 e 122 oltre che degli artt. 1227 e 2697 c.c., sotto il profilo della “insussistenza della corresponsabilità del danneggiato”, deducendo anche, “sullo stesso argomento”, l’omesso esame di atti e documenti di causa, per avere il giudice di appello, in particolare, ritenuto insussistente l’airbag laterale, che si è accertato, invece, essere presente, senza che da questa circostanza la Corte di Appello abbia fatto discendere la responsabilità del produttore e del fornitore, in particolare per avere immesso nel mercato italiano un prodotto non conforme alla legge dello Stato.
Si censura la sentenza impugnata evidenziando come essa sia “prima di tutto erronea in fatto”, sicchè detto errore “fonda un’erronea decisione in diritto”, in particolare laddove essa ha individuato la causa del decesso dell’ H. nella elevata velocità della vettura, nonchè nella mancanza di una airbag laterale, così operando, tuttavia, un’erronea decisione innanzitutto in fatto, e conseguentemente in diritto, essendo emerso dall’istruttoria che l’autovettura era munita di airbag sia centrale che laterale, ed inoltre che l’attivazione di quest’ultimo avrebbe permesso il trattenimento della testa della vittima nel sacco, impedendo che fosse sottoposta all’urto contro l’albero. In questo modo, la Corte capitolina non solo avrebbe omesso di esaminare fatti emersi nel corso del giudizio, ma avrebbe anche disatteso i principi della giurisprudenza di legittimità in materia di ripartizione dell’onere della prova, non spettando al danneggiato (ovvero, come nel caso in esame, ai suoi eredi), provare il vizio di progettazione o fabbricazione, ma soltanto che il prodotto ha determinato risultati anomali rispetto alle aspettative, tali da evidenziare la sussistenza di un difetto.
3.6. Il sesto motivo – anch’esso formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) “e/o” 5), – ipotizza “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 120 nonchè dell’art. 112 c.p.c., oltre all’omesso esame di atti e documenti di causa e delle risultanze istruttorie.
Il motivo ripropone i medesimi rilievi già formulati con quello immediatamente precedente, evidenziando la contrarietà della sentenza impugnata rispetto alla più recente giurisprudenza di questa Corte, secondo cui sarebbe onere del danneggiato solo quello di dimostrare il nesso causale tra danno e omesso funzionamento, e null’altro (è citata, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. 4 gennaio 2010, n. 14).
3.7. Il settimo motivo deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), – “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 92 c.p.c..
Si censura la decisione della Corte capitolina di non disporre la compensazione, come in primo grado, delle spese di lite, sebbene innumerevoli eccezioni delle convenute appellate fossero state dichiarate infondate e disattese, ciò che, a dire della ricorrente, integrava l’ipotesi della soccombenza reciproca. Inoltre, la novità e la gravità della materia trattata, unitamente al fatto che la consulenza tecnica d’ufficio avesse accertato la responsabilità delle convenute, giustificavano egualmente, a dire della ricorrente, la compensazione.
4. Le società Volkswagen AG e Volkswagen Group Italia S.p.a. hanno resistito, con un unitario controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.
In via preliminare, le controricorrenti ricostruiscono i termini fattuali della vicenda all’esame di questa Corte, sottolineando, in particolare, come la consulenza tecnica d’ufficio sia stata svolta esclusivamente su un piano documentale, senza che sia stato possibile visionare l’autovettura a bordo della quale viaggiava la vittima del sinistro.
La M., infatti, proprietaria della stessa (in forza di scrittura privata del 22 febbraio 2006, trascritta, tuttavia, al PRA solo in data 4 maggio 2007, e dunque successivamente all’incidente oggetto di causa), ebbe ad alienare la vettura a terzi, in data 27 marzo 2008, risultando, peraltro, il successivo 30 aprile l’annotazione al PRA della perdita del possesso dell’autovettura, “causale furto”, da parte del nuovo proprietario, tale G.V..
Ciò premesso, e non senza rammentare come – su tali basi – esse abbiano sempre eccepito la non completa attendibilità degli accertamenti condotti dal consulente, le odierne controricorrenti formulano una serie di eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso.
Innanzitutto, esse assumono come l’impugnazione debba ritenersi inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), in quanto il provvedimento impugnato ha deciso la questione, relativa alla prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte.
Inoltre, l’inammissibilità del ricorso, quanto alla posizione dei figli minori della M., è anche eccepita per inesistenza di procura alle liti, visto che in quella rilasciata in primo grado non si fa menzione della qualità della donna di esercente la potestà genitoriale nei confronti di H.C. e L.. Siffatta eccezione, peraltro, già sollevata in primo grado e riproposta in appello, risulta non decisa da entrambi i/giudici di merito, in applicazione del principio della cosiddetta ragione più liquida.
Si assume, altresì, l’improcedibilità del ricorso, sempre con riferimento alla posizione dei figli minori della M., per non avere gli stessi accettato l’eredità con beneficio di inventario, e dunque assunto la qualità di erede, evenienza, questa, che, risolvendosi in un difetto di legittimazione ad agire o contraddire, può essere denunciata dalla parte avversa o comunque rilevato d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio.
Infine, sempre in via preliminare, si rileva che in ordine alla Volkswagen Group Italia s.p.a. risulta intervenuta statuizione di difetto di legittimazione passiva, già da parte del giudice di prime cure, non oggetto di appello da parte della M. e, pertanto, passata in giudicato.
Nel merito, non senza dichiarare di rifiutare il contraddittorio su domande e/o questioni nuove, quali, in particolare, quelle fondate sulla deduzione di fattispecie diverse da quella relativa alla responsabilità del produttore, le controricorrenti evidenziano come i motivi di ricorso dal primo al quarto si rivelino tutti incompatibili con il contenuto della domanda proposta dalla M. in primo grado, mentre quelli dal quinto al settimo mirino ad una non consentita rivisitazione del merito della controversia.
5. Hanno presentato memoria entrambe le parti, insistendo nelle rispettive argomentazioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. In via preliminare, con riferimento alle eccezioni di inammissibilità e improcedibilità del ricorso, quanto ai figli di M.F. (per assenza di valida procura, rilasciata nel loro interesse, nel giudizio di merito, e per non avere gli stessi accettato l’eredità con beneficio di inventario), deve osservarsi quanto segue.
6.1. In proposito, va qui ribadito che questa Corte, “ove sussistano cause che impongono di disattendere il ricorso, è esentata, in applicazione del principio della “ragione più liquida”, dall’esaminare le questioni processuali concernenti la regolarità del contraddittorio o quelle che riguardano l’esercizio di attività defensionali delle parti poichè, se anche i relativi adempimenti fossero necessari, la loro effettuazione sarebbe ininfluente e lesiva del principio della ragionevole durata del processo” (così, Cass. Sez. 2, ord. 18 aprile 2019, n. 10839, Rv. 653636-01).
7. Ciò detto, il ricorso va rigettato.
7.1. Il primo motivo – che assume carattere di “centralità” (almeno tra i primi quattro, tutti relativi alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno) – risulta in parte non fondato ed in parte inammissibile.
7.1.1. Non fondata, in particolare, è la censura relativa alla violazione dell’art. 125 cod. consumo, fondata sul rilievo che la raccomandata inviata il 30 ottobre 2009, alla sede italiana (Volkswagen Group Italia S.p.a.) della casa automobilistica, fosse idonea – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale – ad interrompere il termine triennale di prescrizione anche nei confronti della società produttrice (Volkswagen AG).
7.1.1.1. Se, infatti, si muove dal presupposto dell’estraneità di Volkswagen Group Italia S.p.a. alla catena produttiva (ciò di cui, in definitiva, si mostra consapevole la stessa ricorrente che, in particolare con il secondo motivo di ricorso, individua detta società alla stregua di una mera “fornitrice” del prodotto asseritamente difettoso), deve farsi applicazione di quanto affermato, di recente, da questa Corte.
Si è ritenuto, infatti, che il “fornitore, in quanto soggetto estraneo alla catena produttiva, non è in rapporto di solidarietà passiva con il produttore, sicchè l’atto interruttivo della prescrizione indirizzato al primo non può essere produttivo di effetti nei confronti del secondo”, soggiungendo che solo se il fornitore “fosse stato partecipe della catena produttiva si sarebbe realizzato il presupposto della solidarietà passiva, e dunque dell’estensione al debitore solidale dell’effetto interruttivo della prescrizione”, evenienza, tuttavia, da escludersi in quanto – come anche nel caso oggetto del presente giudizio – “un accertamento di fatto in tal senso manca nella sentenza impugnata” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 13 dicembre 2018, n. 32226, Rv. 651952-01). Il medesimo arresto di questa Corte, inoltre, rammenta che l’art. 116 cod. consumo prevede, per il fornitore, “una speciale disciplina”, in base alla quale egli “è responsabile in via alternativa rispetto al produttore ed in particolare se, non risultando individuato il produttore, abbia omesso di comunicare al danneggiato nel termine previsto l’identità ed il domicilio del produttore”. (così, del pari, Cass. Sez. 3, sent. 32226 del 2018, cit.). Un’ulteriore conferma, dunque, che le responsabilità dei due soggetti operano su piani diversi.
Sotto questo profilo, dunque, la sentenza impugnata si sottrae alla censura ipotizzata, per essersi richiamata ad un principio (quello secondo cui il soggetto “importatore e distributore in Italia di un autoveicolo prodotto da un soggetto residente all’interno dell’Unione Europea non risponde dei danni causati dal difetto di fabbricazione del veicolo stesso, giacchè in tal caso il D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224, art. 3, comma 4, consente al consumatore di promuovere il giudizio risarcitorio direttamente nei confronti del produttore”, Cass. Sez. 3, sent. 20 maggio 2009, n. 11710, Rv. 608165-01) che ha ricevuto, non solo continuità grazie al più volte citato arresto di questa Corte del 2018, ma che ha trovato applicazione, grazie ad esso, proprio sul piano, che è quello che qui interessa, degli atti interruttivi della prescrizione, ex art. 125 cod. consumo.
7.1.1.2. Nè, d’altra parte, in senso contrario, potrebbe valorizzarsi la circostanza che la fornitrice costituisca – nella prospettazione della ricorrente – una “filiale” della casa madre tedesca, all’uopo richiamandosi, quali precedenti, la sentenza del giudice amministrativo relativa al cd. “dieselgate” (Tar Lazio, sede di Roma, Sez. 1, ord. 7 dicembre 2016, n. 7882), nonchè Cass. Sez. 3, sent. 4 gennaio 2010, n. 14.
Invero, quanto alla pronuncia del Tar capitolino, essa si è limitata a ritenere insussistenti i presupposti per la sospensione cautelare del provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato n. 26137, adottato nell’adunanza del 4 agosto 2016 (e notificato sia a Volkswagen Group Italia S.p.a. che a Volkswagen AG, in data 8 agosto 2016), con cui l’Autorità ha condannato, in solido, le odierne controricorrenti – in relazione, ovviamente, a vicenda del tutto diversa da quella qui in esame – al pagamento di una sanzione pecuniaria pari ad Euro 5.000.000,00, per aver posto in essere una pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 20, comma 2, art. 21, comma 1, lett. b) e art. 23, comma 1, lett. d), del medesimo cod. consumo.
Orbene, la circostanza che entrambi tali società siano state sanzionate – solidalmente – per pubblicità ingannevole, e dunque rese destinatarie di una tipica misura di cd. “public enforcement” adottata dall’AGCM, a norma dell’art. 26 del cod. consumo, non costituisce argomento utilizzabile per concludere nel senso della “sovrapponibilità” delle loro posizioni, ai fini dell’applicazione della peculiare fattispecie di responsabilità per danno da prodotto difettoso, prevista dall’art. 114 cod. consumo, stante la disomogeneità delle due fattispecie.
Nè tale conclusione muta anche a considerare la – più volte evocata nel ricorso – Cass. Sez. 3, sent. 4 gennaio 2010, n. 14.
Siffatta pronuncia, per vero, ha riguardato una fattispecie all’esito della quale era intervenuta – con pronuncia “doppia conforme” dei giudici di merito – la condanna di una casa automobilistica al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte di una persona per “mancata apertura (nel corso di un incidente) dell’airbag del quale era dotata la vettura sulla quale viaggiava la vittima”; nondimeno, il tema dei rapporti tra “casa madre” e “filiale italiana” della società produttrice del veicolo non è stato minimamente affrontato dalla sentenza citata, la quale si è limitata a rigettare il ricorso, sul rilievo che i due motivi nei quali si articolava, “benchè formalmente censuranti la violazione di legge ed il vizio della motivazione”, si risolvessero “nella esposizione di circostanze di fatto e di esiti istruttori, inammissibilmente tendenti ad ottenere, in sede di legittimità, una nuova valutazione del merito della controversia”.
7.1.2. D’altra parte, quanto alle restanti censure oggetto del primo motivo di ricorso, quelle formulate a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), sono inammissibili, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., u.c..
Al riguardo va, infatti, segnalato che – essendo stato il gravame, esperito dall’odierna ricorrente contro la decisione del giudice di prime cure, avverso sentenza resa in data 5 febbraio 2013 – l’atto di appello risulta, per definizione, proposto con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione posteriormente all’11 settembre 2012.
Orbene, siffatta circostanza determina l’applicazione “ratione temporis” dell’art. 348-ter c.p.c., u.c., (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonchè Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01), norma che preclude, in un caso – qual è quello presente – di cd. “doppia conforme di merito”, la proposizione di motivi di ricorso per cassazione formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
In parte non fondata ed in parte inammissibile è anche la censura – proposta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – di violazione dell’art. 112 c.p.c..
Nella prospettiva della ricorrente, il vizio di “omessa pronuncia” sarebbe, innanzitutto, integrato dal non avere la Corte milanese considerato la natura di mera “filiale” italiana che Volkswagen Group Italia S.p.a. rivestiva rispetto alla casa madre tedesca. Sul punto, però, nessuna omissione risulta addebitabile al giudice di appello, che si è pronunciato facendo applicazione del principio che distingue la posizione dell’importatore e distributore, da quella del produttore.
Sotto questo profilo, dunque, la censura risulta non fondata.
7.2. Nondimeno, la ricorrente individua un’ulteriore omissione, relativa al fatto che il tema relativo alla prescrizione era stato affrontato da essa M., in appello, sotto più profili, volti ad evidenziare: che Volkswagen Group Italia S.p.a. dovesse ritenersi egualmente responsabile, anche ad ammetterne la qualifica di mero fornitore, a norma dell’art. 116 cod. consumo; che nell’individuazione del “dies a quo” della prescrizione si dovesse, in ogni caso, tener conto sia del momento in cui la parte ha avuto effettiva conoscenza del soggetto produttore, sia dell’avvenuto esaurimento dell’azione penale; che alla presente fattispecie, in subordine, potesse applicarsi la disciplina in tema di prescrizione prevista dalle norme codicistiche.
Si tratta, peraltro, di profili che formano oggetto anche dei motivi secondo, terzo e quarto, sicchè le considerazioni che si andranno appena di seguito a svolgere – e che ne evidenziando l’inammissibilità – valgono, identicamente, anche per essi.
7.2.1. Sul punto, invero, deve muoversi dalla constatazione che la denunciata “omessa pronuncia” riguarda – nella sostanza – delle “controeccezioni” all’eccezione di prescrizione, accolta (già) dal primo giudice.
Sotto questo aspetto, dunque, la censura di violazione dell’art. 112 c.p.c. potrebbe ritenersi – almeno “prima facie” ritualmente proposta, onerando questa Corte dal dover verificare, mediante lettura degli atti di causa, se tali ulteriori profili relativi alla prescrizione fossero stati effettivamente portati all’esame dei due giudici di merito. E’ noto, infatti, che “il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito dell'”error in procedendo”; in tale ipotesi, ove si assuma che l’interpretazione degli atti processuali di secondo grado abbia determinato l’omessa pronuncia su una domanda (…) la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame e all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e delle deduzioni delle parti”. (Cass. Sez. 5, ord. 25 ottobre 2017, n. 25259, Rv. 64612401).
Nondimeno, tale principio va pur sempre coordinato con la necessità dell’osservanza del requisito di ammissibilità del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6); difatti, ancora di recente, è stato affermato da questa Corte che la “deduzione con il ricorso per cassazione “errores in procedendo”, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali” (così, da ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).
Orbene, nel caso che qui occupa, il requisito suddetto non è stato soddisfatto, giacchè la ricorrente non ha riprodotto, nel ricorso, stralci del proprio atto di appello che indicassero – anche solo per estratto i motivi di gravame con i quali essa aveva (ri)proposto all’esame della Corte milanese questi ulteriori argomenti in relazione al mancato decorso della prescrizione.
In conclusione, le censure “de quibus” oggetto del primo motivo di ricorso (e con esse i motivi secondo, terzo e quarto) risultano inammissibili per violazione del principio di autosufficienza, la cui operatività, come chiarito da tempo da questa Corte “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).
7.2.2. Alla luce dei rilievi che precedono, anche l’esito dello scrutinio dei motivi secondo, terzo e quarto, come anticipato, è nel senso dell’inammissibilità.
Orbene, se in relazione alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., valgono i rilievi appena svolti, con riguardo alle censure formulate ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) opera, come detto, la preclusione ex art. 348-ter c.p.c., u.c..
D’altra parte, per quanto attiene, specificamente, alla (im)possibilità di configurare a carico di Volkswagen Group Italia S.p.a. la fattispecie della responsabilità del fornitore di cui all’art. 116 cod. consumo, deve evidenziarsi che presupposto della stessa è l’esistenza di una richiesta – che sia rimasta inevasa – di comunicazione del nominativo e del domicilio del produttore, la quale, però, presenti (come non hanno mancato di rilevare le controricorrenti) specifici requisiti. Difatti, in base al citato art. 116, comma 2. “La richiesta deve essere fatta per iscritto e deve indicare il prodotto che ha cagionato il danno, il luogo e, con ragionevole approssimazione, la data dell’acquisto; deve inoltre contenere l’offerta in visione del prodotto, se ancora esistente”.
Nella specie, non risulta – dalla lettura del ricorso – che la missiva del 30 ottobre 2009 presentasse tali requisiti, donde, nuovamente, l’inammissibilità della censura ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).
7.3. Quanto ai motivi quinto e sesto, gli stessi risultano, del pari, inammissibili.
7.3.1. La sentenza impugnata, infatti, si fonda su una duplice “ratio decidendi”, ovvero, il decorso del termine triennale di prescrizione del diritto al risarcimento, ex art. 125 cod. consumo, e, comunque, il difetto di prova del nesso di causalità fra il malfunzionamento dell’airbag e il decesso dell’uomo vittima del sinistro.
Orbene, i motivi qui in esame investono la seconda di tali “rationes”, sicchè il loro ipotetico accoglimento non inciderebbe, comunque, sulla prima (vale a dire, quella sulla prescrizione), con i primi quattro motivi di ricorso, dei quali si è dichiarata, da parte di questa Corte, l’inammissibilità/infondatezza.
Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui il “giudice di merito che, dopo avere aderito ad una prima “ratio decidendi”, esamini ed accolga anche una seconda “ratio”, al fine di sostenere la propria decisione, non si spoglia della “potestas iudicandi”, atteso che l’art. 276 c.p.c., distingue le questioni pregiudiziali di rito dal merito, ma non stabilisce, all’interno di quest’ultimo, un preciso ordine di esame delle questioni; in tale ipotesi, pertanto, la sentenza risulta sorretta da due diverse “rationes decidendi”, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, sicchè l’inammissibilità del motivo di ricorso attinente ad una di esse” – ma discorso analogo può compiersi per il suo rigetto – “rende irrilevante l’esame dei motivi riferiti all’altra, i quali non risulterebbero in nessun caso idonei a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata inammissibile” (Cass. Sez. 3, ord. 13 giugno 2018, n. 15399, Rv. 649408-01).
7.3.2. In ogni caso, i motivi quinto e sesto risultano egualmente inammissibili, anche per un’altra ragione.
Ribadito, infatti, quanto già in precedenza affermato con riferimento alle censure formulate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5) (ovvero la loro inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 348-ter c.p.c., u.c.), in relazione, invece, ai dedotti vizi di violazione di legge, l’inammissibilità è, in definitiva, “disvelata” dallo stesso assunto della ricorrente, secondo cui la decisione impugnata – in punto di accertamento del nesso causale tra difettosità del prodotto ed evento dannoso – sarebbe “prima di tutto erronea in fatto”, sicchè è detto errore che “fonda un’erronea decisione in diritto”.
Tanto basta, evidentemente, per escludere la ricorrenza di un vizio riconducibile al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), e ciò alla stregua del principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, deducendosi, come detto, un errore di fatto – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
7.3.3. Nè a miglior sorte è destinata, per le stesse ragioni, la censura di violazione del criterio di riparto dell’onere della prova, se è vero che la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01). Tale evenienza è, appunto, quella prospettata nel caso di specie, soprattutto se si considera che ciò di cui si duole la ricorrente è l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte capitolina nel ritenere che la vettura fosse priva di airbag laterale.
7.4. Infine, il settimo motivo – sulla non disposta compensazione delle spese di lite – non è fondato.
7.4.1. Quanto, infatti, all’assunto della ricorrente secondo cui la reiezione di innumerevoli eccezioni delle convenute (e poi appellate) integrerebbe “soccombenza reciproca”, è sufficiente richiamare il principio secondo cui la “nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), si verifica – anche in relazione al principio di causalità – nelle ipotesi in cui vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero venga accolta parzialmente l’unica domanda proposta, sia essa articolata in un unico capo o in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 22 agosto 2018, n. 20888, Rv. 650435-01), mentre non è contemplata nell’ipotesi di reiezione di eccezioni sollevate dalla parte convenuta, risultata, comunque, totalmente vittoriosa.
In merito, poi, al rilievo che la novità e la gravità della materia giustificavano, comunque, la compensazione, è sufficiente ribadire che “la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione” (Cass. Sez. 6-3, ord. 26 aprile 2019, n. 11329, Rv. 653610-01).
8. Le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate tra le parti.
8.1. L’incertezza circa l’esatta interpretazione dell’art. 125 cod. consumo, quanto alla possibilità di applicazione ad una società fornitrice, appartenente allo stesso gruppo societario della società produttrice, ma estranea alla catena produttiva (dubbio da ritenersi superato solo in virtù del più volte citato arresto di questa Corte n. 32226 del 2018), integra taluna di quelle “gravi ed eccezionali ragioni” che, alla stregua dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (nel testo modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, applicabile “ratione temporis” al presente giudizio, essendo stato il giudizio di merito incardinato con atto di citazione notificato il 6 luglio 2010), giustificano, come detto, l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese del presente giudizio.
9. A carico della ricorrente, essendo stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, secondo quanto previsto dall’art. 108, comma 1, lett. a), medesimo D.P.R. (Cass. Sez. Lav., sent. 2 settembre 2014, n. 18523, Rv. 632638-01).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 5 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019