LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Presidente –
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9415/2012 R.G. proposto da:
P.G. – D.R. rappresentati e difesi dall’avv. Stefano Fiorentini, con domicilio eletto nel suo studio in Roma, via Nizza, n. 45;
– ricorrenti –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata, dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 232 della Commissione Tributaria Centrale, Sezione di Palermo, depositata il 21/2/2011 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/11/2018 dal Presidente Pietro Campanile.
RILEVATO
CHE:
la Commissione tributaria centrale, con la decisione indicata in epigrafe, ha accolto il ricorso dell’Ufficio nei confronti dei coniugi Pennino, relativamente alla questione, ritenuta fondata dalla Commissione tributaria di II grado di Palermo, inerente alla natura imprenditoriale dell’attività di allevamento di cavalli da corsa svolta dal P., di professione medico;
in particolare è stato ritenuto che in assenza di documentazione di segno contrario, alla suddetta attività dovesse attribuirsi carattere amatoriale, con conseguente indeducibilità delle relative spese, posta alla base dell’avviso di accertamento;
avverso detta sentenza i contribuenti ricorrono deducendo due motivi, al quale l’amministrazione resiste con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
con il primo mezzo si deduce violazione del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 51, sostenendosi che non rileverebbero nè l’esercizio della professione sanitaria, non richiedendosi l’esclusività, nè l’intento “amatoriale”, dovendo valutarsi gli aspetti di natura oggettiva per stabilire il carattere commerciale di un’attività, come quelli, ricorrenti nella specie, dell’abitualità e dell’impegno, in un settore particolare, di un complesso di conoscenze tecniche;
con la seconda censura si deduce vizio motivazionale, denunciandosi la scarsa comprensibilità del riferimento a una nome meglio precisata prova documentale che il contribuente avrebbe dovuto offrire;
La prima censura non appare meritevole di positivo apprezzamento, perchè non risulta pertinente alla motivazione della sentenza impugnata; quest’ultima, infatti, non afferma che ai fini del riconoscimento della natura commerciale di una attività sia necessario che tale attività venga esercitata in modo esclusivo, nè in alcun modo si sofferma sulla questione della qualificazione, come agricola o commerciale, di un’impresa avente ad oggetto l’allevamento di cavalli da corsa, limitandosi ad escludere, in maniera sintetica ed efficace, che la scuderia di cavalli da corsa del contribuente formasse oggetto di una attività imprenditoriale, vale a dire dell’esercizio professionale di un’ attività economica organizzata finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi;
in realtà il riferimento al carattere amatoriale dell’attività e all’assenza di prove documentali in ordine alla natura commerciale della stessa, valutato nella sua complessiva portata, va inteso nel senso dell’esclusione di qualsiasi prova in merito al carattere dell’attività di allevamento, che deve pur sempre rapportarsi alla professione svolta dal Dott. P., in maniera tale da far ritenere che egli fosse in grado, come pure sostiene, di gestire la scuderia fosse gestita in maniera professionale;
sotto tale profilo deve rimarcarsi che viene in rilievo un accertamento di fatto incensurabile in questa sede, salvo il controllo della motivazione, e che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacchè il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195, anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde dal requisito organizzativo, esigendo soltanto che l’attività svolta sia contrassegnata dalla professionalità abituale (Cass., 26 settembre 2012, n. 19237; Cass. 20 dicembre 2006, n. 27211; Cass. 6 novembre 2002, n. 15538);
quanto al secondo profilo di censura, deve premettersi che, contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, nella specie, venendo in considerazione la deducibilità di costi, l’onere della prova in merito al presupposto della stessa incombeva al contribuente;
come sopra rilevato, il giudice di merito, premesso che l’attività prevalente del contribuente era quella di medico, ha reso una motivazione sintetica ma efficace, laddove ha posto in evidenza che il predetto non aveva provato i presupposti (natura imprenditoriale della sua attività di allevamento di cavalli) necessari per giustificare la deducibilità delle relative perdite dal suo reddito;
nè, a fronte di tale apprezzamento delle risultanze istruttorie, i ricorrenti indicano le circostanze, dedotte in sede di merito e non esaminate dalla Commissione Tributaria Centrale, la cui valutazione sarebbe stata astrattamente sufficiente ad orientare diversamente l’accertamento di fatto del giudice di merito in ordine alla sussistenza, nell’attività di allevamento di cavalli, dei presupposti di cui all’art. 2082 c.c.;
come già rilevato da questa Corte in relazione alla medesima vicenda (Cass., 30 settembre 2014, n. 20580), la deduzione di un’attività di preparazione, selezione ed avviamento dei cavalli purosangue alle competizioni sportive, sotto la guida di abilitati istruttori e con le necessarie competenze tecniche non appare concludente ai fini della dimostrazione del fatto che l’attività di allevamento di cavalli esercitata dal contribuente presentasse le caratteristiche dell’esercizio professionale di un attività economica organizzata finalizzata alla produzione o allo scambio di beni e servizi;
al rigetto del ricorso, per le indicate ragioni, consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.200,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 28 novembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019