Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24047 del 26/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12545/2015 proposto da:

Z.G., elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio dell’avvocato Arturo Antonucci, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCO POPOLARE SOC. COOP, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, presso lo studio dell’avvocato Michele Ranchino, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 312/2015 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata l’11/3/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/05/2019 dal Cons. MARCO MARULLI.

FATTI DI CAUSA

1.1. Con sentenza 312/2015 dell’11.3.2015 La Corte d’Appello di Brescia ha respinto il gravame proposto di Z.G. avverso la decisione di rigetto in primo grado dell’opposizione dal medesimo proposta al decreto ingiuntivo notificatogli ad istanza del Banco Popolare di Verona e Novara quale fideiussore della G.M.G. Global s.r.l..

1.2. Il giudice territoriale, richiamata la decisione di primo grado, ha respinto tutti i rassegnati motivi di appello.

Nell’ordine ha infatti osservato: quanto alla nullità del contratto per difetto di sottoscrizione della banca, che la dizione “convalida firme”, figurante sulla scheda contrattuale, doveva intendersi “anche come accettazione in nome e per conto dell’istituto di credito del regolamento negoziale; quanto all’invalidità della pattuizione in punto di interessi ultralegali per indeterminatezza, che, essendo i relativi tassi stabiliti in relazione a ciascuna operazione consentita (fido per elasticità di cassa e fido per smobilizzo crediti), “la distinzione appare molto chiara e quindi non si ravvisa la lamentata indeterminatezza”; quanto all’illegittimo esercizio dello ius variandi, che la facoltà era prevista dalle “norme comuni” disciplinanti il rapporto e la relativa clausola era “stata sottoscritta dal correntista anche ai sensi dell’art. 1341 c.c.”, non applicandosi peraltro retroattivamente il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 convertito in legge con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, art. 1, comma 1; quanto all’applicazione di interessi anatocistici, che “è indicata in maniera chiara la periodicità della liquidazione degli interessi sia debitori sia creditori” stabilita su base trimestrale, che “la deroga all’art. 1283 c.c. è inequivocabilmente contenuta nell’art. 120 TUB” e che la sentenza della Corte Cost. 425/2000 ha dichiarato illegittima il D.Lgs. n. 4 agosto 1999, n. 342, art. 25, comma 3, “e non invece la vigente disciplina dell’anatocismo bancario”; quanto, infine, all’addebito delle commissioni di massimo scoperto, che, avuto riguardo alle condizioni di contratto e tenuto conto altresì dell’evoluzione legislativa della materia (D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 2-bis convertito in legge con modificazioni dalla L. 28 febbraio 2009, n. 2, art. 1), “tale voce deve quindi considerarsi validamente pattuita in quanto esattamente determinata in relazione al suo oggetto, alla misura e alla modalità di calcolo”.

1.3. Al mezzo così proposto sulla base di sei motivi, seguiti da memoria, resiste la banca con controricorso e memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.1. Il ricorso – alla cui cognizione non si frappongono le ragioni preclusive fatte valere in via pregiudiziale dalla controricorrente, poichè l’illustrazione dei motivi è specifica ed il ricorso non eccede, considerato anche il numero dei motivi, i limiti di una ragionevole esposizione – assume con il primo motivo l’erroneità dell’impugnata decisione per violazione degli artt. 111,344,81 e 83 c.p.c. non avendo il giudicante proceduto a dichiarare la contumacia della Banca Popolare di Verona e Novara a nome della quale era stata pronunciata l’ingiunzione e a verificare la legittimazione dell’intervenuta Banca Popolare di Verona, San Geminiano e San Prospero, costituitasi tardivamente in appello a mezzo della mandataria Gestione Crediti BP, la legittimazione di questa e del suo procuratore non essendo state prodotte le relative procure notarili.

2.2. Il motivo non ha pregio. Difetta invero l’interesse in capo all’impugnante a farsene proponente, posto che la censura, pur in disparte dal fatto che la dinamica processuale possa aver effettivamente rispecchiato quella che sul piano sostanziale conduce ad identificare nell’attuale resistente il legittimo contraddittore dello Z., non priverebbe comunque quest’ultimo di un contraddittore, dato che se fosse irrita la costituzione dell’appellato o non fosse provata la successione dell’appellato nella posizione del convenuto nel giudizio di primo grado, permarrebbe pur sempre la legittimazione di quest’ultimo, ancorchè non costituitosi in grado di appello; sicchè la censura, lungi dal produrre l’effetto caducatorio sperato, potrebbe essere apprezzata solo in funzione di impugnare la condanna del ricorrente alle spese in favore dell’appellato, e tuttavia, non essendo questo l’esatto proponimento del ricorrente, dato che per mezzo della frase contenuta in chiusa del motivo (“per di più condannando l’appellante alle spese di giudizio nei confronti della stessa intervenuta”) si ha ragione di credere che non è della condanna alle spese che lo Z. si duole, la censura si rivela priva di concreta incidenza processuale, onde ne va dichiarata per questo l’inammissibilità per difetto di interesse.

3.1. Il secondo motivo di ricorso evoca la violazione degli artt. 1362 e 1370 c.c., art. 1350 c.c., n. 13 e art. 117, nn. 1 e 3, TUB sul presupposto della nullità del contratto sotteso all’impugnata ingiunzione non recando la relativa scheda la sottoscrizione della banca e non potendo ritenersi, al contrario dell’avviso espresso dal giudicante di merito, che la dizione “per convalida firme” presente su essa equivalga ad accettazione da parte della banca.

3.2. Il motivo, debitamente sfrondato di ogni inferenza meritale, non ha pregio si come già enunciato da questa Corte, sul filo della lezione nomofilattica dispensata dalle SS.UU. (Cass., Sez. U, 16/01/2018, n. 898), affermando che “in materia di contratti bancari, la omessa sottoscrizione del documento da parte dell’istituto di credito non determina la nullità del contratto per difetto della forma scritta, prevista dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 3. Il requisito formale, infatti, non deve essere inteso in senso strutturale, bensì funzionale, in quanto posto a garanzia della più ampia conoscenza, da parte del cliente, del contratto predisposto dalla banca, la cui mancata sottoscrizione è dunque priva di rilievo, in presenza di comportamenti concludenti dell’istituto di credito idonei a dimostrare la sua volontà di avvalersi di quel contratto” (Cass., Sez. I, 18/06/2018, n. 16070).

4.1. Il terzo motivo argomenta la violazione degli artt. 1362,1370 e 1284 c.c., nonchè dell’art. 117, nn. 4 e 7, TUB in relazione alla ritenuta validità della determinazione convenzionale degli interessi moratori in misura superiore al tasso di legge, quantunque il visto difetto di sottoscrizione della banca rendesse la relativa pattuizione priva di effetto e la distinzione operata al riguardo dal decidente fosse frutto di un’errata interpretazione del documento contrattuale, apparendo in contrasto con la regola ermeneutica dell’art. 1362 c.c. riferire il tasso indicato per il conto unico alle anticipazioni su crediti.

4.2. Il motivo va reputato assorbito in relazione alla prima allegazione per quanto in senso ostativo alla sua concludenza si è osservato scrutinando il secondo motivo di ricorso; va, invece, giudicato inammissibile riguardo al denunciato errore ermeneutico, la doglianza risolvendosi nella mera postulazione di un rinnovato sindacato di merito, essendo noto che “l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito” (Cass., Sez. III, 14/07/2016, n. 14355).

5.1. Il quarto motivo di ricorso allega la violazione degli artt. 117 e 118 TUB in relazione alla ritenuta validità della pattuizione in punto di ius variandi, posto che, onde evitare che per mezzo della relativa previsione figurante nell’art. 9 del contratto fosse consentito alla banca di determinare a proprio arbitrio il tasso degli interessi, l’esercizio di detta facoltà implica necessariamente che il contratto preveda se non gli specifici criteri per la determinazione delle variazioni sfavorevoli quantomeno le circostanze al cui verificarsi la stessa può essere operata, tanto più che in questa direzione si sarebbe in seguito orientato pure il legislatore.

5.2. Il motivo non ha pregio. Nel respingere il gravame sul punto, con la motivazione trascritta in parte narrativa, la Corte di merito si è esattamente attenuta al testuale disposto dell’art. 117 TUB vigente al tempo, in guisa del quale la banca era facoltizzata a variare in senso sfavorevole al cliente il tasso di interesse ed ogni altro prezzo e condizione prevista in contratto qualora questa possibilità fosse stata “espressamente indicata nel contratto con clausola approvata specificatamente dal cliente” (art. 117, comma 5, TUB), Ancorchè nel quadro normativo del tempo la variazione fosse destinata a divenire efficacia nei confronti del cliente solo a condizione che gliene fosse data comunicazione nei modi e nei termini stabiliti dal CICR (art. 118, comma 1, TUB), l’esercizio dello ius variandi da parte della banca, una volta che la relativa clausola fosse stata approvata dal cliente, non era per il resto soggetto a nessuna ulteriore condizione, residuando al cliente la sola possibilità di recedere dal contratto senza penalità e con l’applicazione in sede di liquidazione dei rapporti delle condizioni precedentemente praticate (art. 118, comma 3, TUB). Tantomeno poteva pretendersi che le variazioni, quantunque sfavorevoli al cliente, fossero motivate dalla sussistenza di un giustificato motivo, poichè, ferma l’inapplicabilità alla specie della disciplina prevista a beneficio dei consumatori, non rivestendo all’evidenza siffatta qualità il Z. riguardo all’obbligazione assunta in garanzia contratta da un’impresa, nondimeno si sarebbe potuto argomentare il contrario alla stregua della novellazione dell’art. 118 TUB ad opera del D.L. n. 223 del 2006, art. 10, comma 1, trattandosi di norma priva di natura interpretativa, non applicabile perciò retroattivamente ai rapporti sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore (Cass., Sez. I, 21/05/2008, n. 13051).

6.1. Il quinto motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 120 TUB, nel testo applicabile ratione temporis, nonchè della Delib. CICR 9 febbraio 2000, art. 6 sul duplice rilievo che la delega conferita al CICR a mente del D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25 non avrebbe consentito al medesimo, contrariamene a quanto ravvisato dalla Corte di merito, di derogare al disposto dell’art. 1283 c.c. e di regolamentare anche l’applicazione degli interessi anatocistici sugli interessi maturandi e che la relativa clausola non poteva considerarsi approvata specificatamente per iscritto, come previsto dall’art. 6 della citata Delib., non figurando in essa l’indicazione della periodicità della capitalizzazione, inserita invece in altra parte del contratto non oggetto di approvazione specifica.

6.2. Il motivo non ha pregio, quanto alla prima deduzione, mentre si rivela primamente inammissibile quanto alla seconda.

6.3. Riguardo alla prima, la Corte Cost. con la sentenza n. 341 del 2007, dichiarando infondata la questione di legittimità del D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 2, con cui nell’esercizio della potestà di delega accordata dalla L. 24 aprile 1998, n. 128, art. 1, comma 5, intesa ad adeguare la disciplina degli enti creditizi alle disposizioni della Dir. 89/646 CEE nel rispetto dei principi e criteri direttivi indicati dalla L. 19 febbraio 1992, n. 142, art. 25 si è conferito al CICR il compito di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, si è data cura di spiegare che “l’introduzione nel nostro ordinamento dell’anatocismo bancario ad opera della norma impugnata, in deroga al divieto di cui all’art. 1283 c.c., rientra nel perimetro normativo tracciato dal legislatore delegante, sotto il profilo dell’adeguamento alla citata direttiva, secondo la quale, infatti, gli enti creditizi di tutti gli Stati dell’Unione potevano esercitare in Italia le attività bancarie e gli Stati dovevano vigilare affinchè non vi fossero ostacoli a che le attività ammesse a beneficiare del riconoscimento reciproco potessero essere esercitate allo stesso modo che nello Stato d’origine”; sicchè, essendo negli Stati dell’Unione la disciplina dell’anatocismo bancario diversa da quella prevista nei rapporti di diritto civile, rientrava nel processo di adeguamento al contenuto della Direttiva e di coordinamento del T.U. bancario, precisare se l’anatocismo bancario, una volta caducatane la fonte di legittimazione fondata sull’uso normativo, potesse avere ingresso in Italia e, in caso affermativo, dare una risposta al quesito relativo alla individuazione del soggetto cui spettava determinare il periodo di tempo in cui la capitalizzazione degli interessi doveva avvenire. E, dunque, che l’art. 120, comma 2, TUB nel testo in allora vigente, costituisse, riguardo alle attività bancarie, in materia di anatocismo deroga alla disciplina di diritto comune dell’art. 1283 c.c. è affermazione corretta e largamente condivisa (Cass., Sez. VI-I, 22/02/2018, n. 4374 in motivazione).

6.4. Riguardo alla seconda, la premessa declaratoria è diretta conseguenza della novità della questione, non constando per vero dalla declinazione del relativo motivo di gravame, come riprodotto nel ricorso, che essa abbia formato oggetto di trattazione nelle pregresse fasi di merito, ciò precludendone dunque l’esame di questa Corte, il cui sindacato è esperibile solo sulle questioni già trattate.

7.1. Il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione degli artt. 1362 e 1346 c.c. e art. 117 TUB avendo la Corte di merito, nel respingere il motivo di gravame afferente all’applicazione della commissione di massimo scoperto, erroneamente interpretato il documento contrattuale, che non prevede commissioni riguardo alle operazioni di “castelletto”, ed ignorato l’indeterminatezza della relativa pattuizione, priva di indicazioni riguardo al campo di applicazione (tutto lo scoperto ovvero solo l’affidamento), e la sua nullità, configurando essa un onere occulto in aggiunta agli interessi pattuiti.

7.2. Il motivo è, in tutte le sue diverse orchestrazioni, inammissibile.

Vale rimarcare, quanto alle prime due lagnanze, che l’interpretazione del contratto, come già si è precisato per l’innanzi, implica un tipico accertamento di merito riservato in via esclusiva al giudice che del merito si occupa, sicchè esse postulano una rinnovazione del giudizio che in quella sede ha avuto luogo, chiaramente precluso a questa Corte che non può sostituirsi in ciò al giudice del merito.

Quanto all’ultima lagnanza, essa manca di contenuto specifico, non essendo articolata in modo da evidenziarne la pretesa nullità.

8. Il ricorso va dunque respinto., 9. Spese alla soccombenza e doppio contributo.

PQM

Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 5200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I sezione civile, il 10 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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