Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.24071 del 26/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9555/2015 proposto da:

B.A., M.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE SANTO 27, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI MERLA, rappresentati e difesi dall’avvocato MARIO PETRELLA;

– ricorrenti –

contro

P.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell’avvocato LORETO ANTONELLO CHIOLA, rappresentata e difesa dall’avvocato CALLISTO TERRA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1180/2014 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 18/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/01/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

RAGIONI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE

Rilevato:

che la corte d’ appello de L’Aquila, con la sentenza n. 1180/14, ha confermando la sentenza di primo grado del tribunale di Avezzano che aveva:

– rigettato la domanda proposta dai sigg.ri B.A. e M.M. nei confronti della sig.ra P.R. per sentir dichiarare il loro acquisto per usucapione di due vani contraddistinti nel N. C.E.U. di Carsoli al foglio *****, part. *****, *****, facenti parte di più ampio edificio sito in *****;

– accolto la domanda riconvenzionale di condanna degli attori al rilascio dei suddetti vani, proposta dalla convenuta sig.ra P., quale proprietaria dei medesimi in qualità di erede del defunto marito B.B., al quale i suddetti vani erano pervenuti, uno per successione legittima al padre B.A. e l’altro per successione testamentaria allo zio B.L.;

che la corte abruzzese ha condiviso il giudizio del primo giudice sulla mancata dimostrazione del possesso ad usucapionem da parte degli attori sui vani de quibus;

che i sigg.ri B.A. e M.M. hanno proposto ricorso per la cassazione di sentenza della corte abruzzese sulla scorta di tre motivi;

che con il primo motivo di ricorso, rubricato con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., con conseguente nullità dell’intero giudizio, per la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari B.M. e F., fratelli del dante causa della convenuta, B.B.; che infatti, si argomenta nel mezzo di impugnazione, entrambi tali fratelli concorrevano con B.B. nella successione legittima al comune B. concorreva con B. padre A. e, inoltre, B.F. anche nella successione legittima al comune zio L.; cosicchè il giudizio sulla domanda di usucapione proposta dagli odierni ricorrenti doveva essere necessariamente celebrato nel contraddittorio di costoro;

che con il secondo motivo di ricorso, rubricato con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in cui la corte territoriale sarebbe incorsa ritenendo che i vani in questione sarebbero stati nel possesso di B.L. (quindi non degli odierni ricorrenti) per averne costui disposto con la scrittura privata del 10.2.82 e, successivamente, con testamento olografo; in tal modo, argomentano i ricorrenti, la corte territoriale si sarebbe fondata sulla presunzione, non adeguatamente giustificata nella motivazione della sentenza e non supportata dai presupposti della gravità, precisione e concordanza, che essi fossero a conoscenza della scrittura e del testamento di B.L.;

con il terzo motivo di ricorso, rubricato con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, si denuncia il mancato esame di punti decisivi della controversia, con riferimento:

a) al travisamento della deposizione del teste m.a., in ordine alla esecuzione dei lavori di ristrutturazione dell’immobile per cui è causa;

b) alla natura del possesso esercitato dai ricorrenti in riferimento al vano già in proprietà di B.A., avendo entrambi i giudici di merito motivato soltanto in ordine al possesso sul vano di B.L.;

che P.R. ha presentato controricorso; che la causa è stata chiamata all’adunanza di camera di consiglio del 18.1.19, per la quale solo i ricorrenti hanno depositato una memoria illustrativa;

ritenuto:

che ragioni di ordine logico, legate alla valutazione di ammissibilità del primo motivo sotto il profilo della sussistenza dell’interesse a ricorrere, impongono di esaminare previamente il secondo ed il terzo motivo di ricorso;

che il secondo motivo di ricorso va disatteso, in quanto esso non coglie la ratio decidendi e la progressione del percorso logico-decisionale della sentenza impugnata;

che, infatti, la corte territoriale non ha fondato la propria decisione su alcuna presunzione, bensì sul convincimento che gli attori non avessero offerto la prova, di cui erano gravati, di aver posseduto l’immobile per cui è causa;

che, al riguardo, la corte abruzzese ha giudicato insufficiente la prova “del fatto materiale, puro e semplice, di aver iniziato ad occupare due vani di casa sin dagli anni 1981 1982” (pag. 4, penultimo capoverso, della sentenza) in considerazione del rilievo che alla permanenza dei coniugi B. – M. in detti vani “non sembra essersi associata nel tempo, in modo non equivoco, la volontà degli appellanti di comportarsi come proprietari in via esclusiva, in opposizione al B.L.” (pag. 5, secondo rigo, della sentenza);

che l’unica rilevazione di fatto che la corte territoriale ha tratto dalla scrittura privata olografa di B.L. del 10.2.1982 è stata “quella delle signoria uti dominus del B.L. sui vani dell’immobile per cui è causa”; rilevazione, peraltro, non sorretta da alcun ragionamento presuntivo, ma autonomamente supportata dall’affermazione che detta “signoria uti dominus del B.L.” risultava “riferita e quindi riscontrata dai testi Ma. e m.” (pag. 5, secondo capoverso, della sentenza);

che il terzo motivo va pur esso disatteso, in entrambe le doglianze in cui esso si articola;

che, in particolare, la doglianza sub a) – concernente l’omesso esame del fatto, riferito dal teste ma., che i ricorrenti avevano commissionato a costui lavori edili sull’immobile per cui è causa – va giudicata infondata, in quanto la corte non ha omesso l’esame delle risultanze testimoniali ma, con giudizio di fatto non censurabile in questa sede di legittimità, le ha giudicate inidonee a supportare la pretesa degli attori (vedi pag. 5, secondo capoverso, della sentenza, laddove si giudicano “del tutto irrilevanti quei “comportamenti” posti in essere dagli appellanti, riferiti dei testimoni, ma non di portata tale da far superare la rappresentazione che la disponibilità dell’immobile da parte degli appellanti non avvenne in opposizione al B.L.);

che la doglianza sub b), relativa all’omesso esame della domanda di usucapione sul vano dello zio A., non indica fatti storici muniti del carattere della decisività il cui esame sia stato omesso, risolvendosi in sostanza in una denuncia di omessa motivazione, inammissibile perchè formulata in difformità dal paradigma fissato dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5;

che, alla luce del rigetto del secondo e terzo motivo di ricorso, può procedersi all’esame del primo motivo, il quale pone la questione della nullità della sentenza gravata, e dell’intero giudizio, per la non integrità del contraddittorio nei confronti di tutti i comproprietari (jure successionis) del bene oggetto della domanda di usucapione proposta dagli odierni ricorrenti;

che al riguardo il Collegio ritiene di dover preliminarmente ribadire il fermo indirizzo di questa Corte secondo cui la domanda diretta all’accertamento della usucapione di un bene richiede la presenza in causa di tutti i comproprietari in danno dei quali l’usucapione si sarebbe verificata (da ultimo, tra le tante, Cass. 15619/18);

che, tuttavia, l’affermazione che precede non è di per sè risolutiva del problema che il Collegio deve risolvere per pronunciarsi sul primo mezzo di ricorso, giacchè tale mezzo pone la ulteriore e diversa questione se sia ammissibile l’impugnazione con cui la parte che abbia agito in giudizio senza convenirvi tutti contraddittori necessari (e senza sollecitare, al riguardo, l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice) chieda dichiarasi la nullità della sentenza di rigetto della sua domanda per essere stata la stessa resa a contraddittorio non integro;

che, in proposito, è opportuno precisare immediatamente che, ai fini della soluzione della suddetta questione, non è dirimente il richiamo al disposto dell’art. 157 c.p.c., u.c., giacchè il Collegio non vede ragioni per dissentire dal costante orientamento di questa Corte (dal quale risulta essersi discostata solo la remota ed isolata sentenza n. 12608/97) alla cui stregua la regola dettata dall’art. 157 c.p.c., comma 3, secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, si riferisce solo ai casi nei quali la nullità non possa pronunciarsi che su istanza di parte, e non riguarda, perciò, le ipotesi in cui, invece, questa debba essere rilevata d’ufficio, con la conseguenza che essa non trova applicazione quando, come nel caso di mancata integrazione del contraddittorio in causa inscindibile, la nullità si ricolleghi ad un difetto di attività del giudice, al quale incombeva l’obbligo di adottare un provvedimento per assicurare il regolare contraddittorio nel processo (da ultimo, tra le tante, Cass. 3855/14);

che, tuttavia, nemmeno questa seconda affermazione è di per sè stessa risolutiva della questione posta dal primo mezzo di ricorso;

che, infatti, il Collegio ritiene che tale questione vada messa a fuoco attraverso il prisma dell’interesse ad agire (e ad impugnare), cristallizzato nell’art. 100 c.p.c., come illuminato dal principio della ragionevole durata del processo, cristallizzato nell’art. 111 Cost. e dal principio dal divieto di abuso del processo, cristallizzato nell’art. 88 c.p.c.;

che, in particolare, la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i comproprietari di un bene oggetto di domanda di usucapione è funzionale, in primo luogo, alla tutela dei comproprietari, onde consentire loro di difendersi in un giudizio di accertamento di una situazione giuridica confliggente con quella preesistente (cfr. Cass. 5559/94); in secondo luogo, alla tutela dello stesso attore, onde impedire che, all’esito del giudizio, la sentenza che riconosca il diritto dal medesimo azionato risulti inutiliter data, in quanto inopponibile ai litisconsorti necessari pretermessi;

che, a fronte di una sentenza di secondo grado che abbia rigettato la domanda di usucapione, non può ritenersi sussistente alcun interesse alla rinnovazione del giudizio in contraddittorio con i comproprietari pretermessi, nè in capo a questi ultimi, nè in capo all’attore; che, quanto ai comproprietari pretermessi, la suddetta sentenza non pregiudica in alcun modo i loro diritti, giacchè essi, in sostanza, sono virtualmente vittoriosi nel giudizio in cui sono stati pretermessi;

che, quanto all’attore, per costui è irrilevante, in ragione del contenuto della sentenza (di accertamento negativo del suo diritto), la non opponibilità della stessa ai litisconsorti necessari pretermessi; nè, d’altra parte, gli odierni ricorrenti deducono, nel mezzo di ricorso in esame, che la mancata partecipazione al giudizio dei litisconsorti pretermessi abbia recato una qualsivoglia limitazione al pieno dispiegamento del loro diritto di difesa ed al loro diritto al contraddittorio nel primo e nel secondo grado di merito;

che quindi, in definitiva, l’unico interesse alla ripetizione del processo riconoscibile in capo ai ricorrenti è individuabile non nella esigenza di rimediare ad un vulnus recato al loro diritto di difesa ed al loro diritto al contraddittorio dalla mancata partecipazione al giudizio dei litisconsorti necessari pretermessi, ma nella speranza che un nuovo giudizio si concluda con esito diverso da quello già celebrato;

che il suddetto interesse non è meritevole di tutela, nè trova copertura nell’art. 100 c.p.c., dovendosi anzi ritenere che – poichè nella stessa narrativa del mezzo di ricorso si riferisce che la esistenza di altri coeredi di B.A. e B.L. (i sigg.ri B.M. e F.) emergeva già dalla comparsa di costituzione della convenuta P.R. nel giudizio di primo grado – la scelta processuale degli odierni ricorrenti di trascurare la questione dell’integrità del contraddittorio per i due gradi di merito (non provvedendo alla chiamata in causa di tali ulteriori coeredi, nè sollecitando, al riguardo, l’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice), salvo sollevarla dopo la sentenza di secondo grado secundum eventum litis, si traduca in un abuso del processo (vedi, per l’affermazione del principio di autoresponsabilità della parte, seppure in altro campo, SSUU 21260/16: “L’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto, in quanto non soccombente su tale, autonomo, capo della decisione”);

che, del resto, la reiterazione del giudizio in assenza di qualsivoglia lesione della posizione giuridica dei litisconsorti pretermessi e di qualsivoglia pregiudizio patito dal diritto di difesa degli attori (e dei convenuti, integralmente vittoriosi) risulterebbe contraria alle esigenze di economia processuale strumentali all’attuazione del principio della ragionevole durata del processo sancito dal novellato art. 111 Cost., comma 2, u.p., che impone un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni del codice di rito in chiave ancora più accentuatamente funzionale e antiformalistica;

che, in coerenza con tale lettura sistematica del principio della ragionevole durata del processo, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 26373/08, hanno affermato che, nel caso di evidente inammissibilità del ricorso per cassazione, è superflua la concessione di un termine per la notifica, omessa, del medesimo alla parte totalmente vittoriosa in appello, chiarendo che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti; conf. Cass. 18410/09 (che, sulla scorta dei medesimi principi, ha ritenuto irrilevante, in un giudizio in materia di locazione, l’omessa citazione di uno dei conduttori in appello e nel giudizio di cassazione, rilevata d’ufficio, atteso che le problematiche concernenti la risoluzione del contratto di locazione non costituivano più in concreto oggetto del processo, mentre quelle concernenti i rapporti di dare e avere, per canoni non corrisposti, migliorie e risarcimento danni, oggetto del ricorso per cassazione, non comportavano l’inscindibilità delle cause), nonchè Cass. 2723/10, Cass. 6826/10 e altre (da ultimo Cass. 12515/18);

che non pare altresì superfluo sottolineare come nella menzionata sentenza n. 26373/08 le Sezioni Unite abbiano aggiunto al principio sopra riportato l’ulteriore notazione che, nel caso al loro esame, la concessione del richiesto termine per il rinnovo della notifica del ricorso per cassazione “avrebbe significato avallare un comportamento contrario al principio di lealtà e probità processuale (art. 88 c.p.c.), atteso che gli istanti erano già in precedenza consapevoli della necessità della stessa”;

che peraltro – per l’infondatezza delle altre censure mosse dai ricorrenti alla sentenza impugnata, che ha portato al rigetto del secondo e del terzo mezzo di ricorso – il presente giudizio non è destinato a proseguire in sede di rinvio, cosicchè alla fattispecie risulta attagliarsi perfettamente il principio espresso in Cass. 2461/09, dove si afferma “l’inammissibilità per difetto di interesse del motivo di ricorso per cassazione con il quale la parte soccombente si dolga della mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorzi necessari, quante volte essa non avrebbe potuto trarre alcun vantaggio dalla partecipazione al giudizio dei litisconsorti pretermessi, per essere risultate infondate tutte le altre censure mosse alla sentenza impugnata e per non potersi neppure astrattamente ipotizzare, in relazione all’atteggiarsi delle singole situazioni, che la partecipazione al giudizio dei litisconsorti sarebbe stata suscettibile di risolversi in una decisione di contenuto diverso e favorevole alla stessa parte soccombente” (pag. 19, ultimo capoverso);

che, pertanto, in definitiva, il primo mezzo di ricorso va giudicato inammissibile per carenza di interesse;

che, in conclusione,il ricorso non può trovare accoglimento;

che le spese seguono la soccombenza;

che deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti a rifondere alla contro-ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019

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