LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8514/2015 proposto da:
O.M.G., O.M.R., O.A., OL.AG. tutti nella qualità di eredi di O.P., domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’Avvocato VINCENZO RICCARDI.
– ricorrenti –
contro
RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A. – – Società di Trasporti e Servizi per Azioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CLAUDIO MONTEVERDI 16, presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPE CONSOLO, che la rappresenta e difende.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 134/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 24/03/2015 R.G.N. 4013/2010;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.
RILEVATO
che:
1. Con la sentenza n. 13472014 la Corte di appello di Napoli ha confermato la pronuncia n. 10845/2009, resa dal Tribunale della stessa città, con la quale era stata respinta la domanda proposta da O.M.G., O.M.R., O.A. e Ol.Ag., quali eredi di O.P., nei confronti di Rete Ferroviaria Italiana spa, volta a sentire accertare e dichiarare il riconoscimento della causa di servizio per le patologie che avevano causato il decesso del dante causa con ascrivibilità alla I categoria della tabella A allegata al D.P.R. n. 834 del 1981 e condannare la società al pagamento in loro favore dell’importo di Euro 45.629,91 a titolo di equo indennizzo, oltre accessori.
2. A fondamento della decisione i giudici di seconde cure hanno rilevato un profilo di improponibilità dell’azione giudiziaria, per mancanza del presupposto processuale costituito dalla domanda amministrativa, essendo stata quest’ultima avanzata solo dalla moglie del de cuius e non anche da tutti gli eredi, nonchè un profilo di prescrizione dell’azione perchè, essendo stato già riconosciuta all’ O.P. la dipendenza da causa di servizio della patologia denunziata (avvenuta in data 18.12.1986), con corresponsione dello spettante equo indennizzo con deliberazione n. 295 del 19.4.1990, ai sensi del D.M. n. 1622 del 1983, art. 10, la domanda avrebbe dovuto essere presentata entro i cinque anni successivi.
3. Avverso la sentenza di seconde cure hanno proposto ricorso per cassazione O.M.G., O.M.R., O.A. e Ol.Ag., quali eredi di O.P. affidato a due motivi, illustrati con memoria.
4. Rete Ferroviaria Italiana spa ha resistito con controricorso.
5. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.
CONSIDERATO
che:
1. Con il primo motivo del ricorso per cassazione, in sintesi, si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 533 del 1973, art. 8, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente rilevato la Corte di appello il difetto della domanda amministrativa, inoltrata l’11.6.2002 solo dalla moglie dell’ O. e non anche dagli altri eredi, in quanto, da un lato, ai sensi della L. n. 533 del 1973, art. 8, eventuali vizi della procedura amministrativa non avrebbero potuto avere incidenza nel processo giurisdizionale e, dall’altro, perchè proprio la direzione sanitaria della società, in un primo momento, aveva ritenuto valida la domanda stessa atteso che, in data 24.12.2002, aveva giudicato la morte del de cuius dipendente da fatti di servizio efficienti e determinanti con ascrivibilità alla 1 categoria della predetta Tabella A e successivamente, con lettera del 12.6.2003, anche l’INPS aveva comunicato l’accoglimento della richiesta di pensione privilegiata.
2. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione del D.M. 2 luglio 1983, n. 1622, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 3, per avere la Corte territoriale erroneamente applicato, nel caso in esame, il D.M. n. 1622 del 1983, art. 10, che riguardava l’aggravamento sopravvenuto della menomazione, quando, invece, avrebbe dovuto applicare l’art. 1 del D.M. citato che contempla l’ipotesi in cui l’infermità riconosciuta dipendente da causa di servizio aveva determinato il decesso del lavoratore, ancorchè in quiescenza, con la conseguenza che il termine per presentare l’istanza, anche da parte degli eredi, era quello di sei mesi dal decesso.
3. Preliminarmente occorre evidenziare che la sentenza impugnata risulta ancorata, come sopra riportato, a due distinte rationes decidendi, autonome l’una dall’altra, e ciascuna da sola, sufficiente a sorreggere il dictum: in base alla prima ragione la Corte di appello ha rilevato che la domanda giudiziaria, proposta dagli eredi O., nel caso di specie era improponibile per mancanza del presupposto processuale costituito dalla presentazione di una valida domanda amministrativa; per altro verso è stato rilevato un profilo prescrizionale perchè, essendo stata già riconosciuta al de cuius la dipendenza da causa di servizio della patologia denunziata, con corresponsione dell’equo indennizzo, ai sensi del D.M. n. 1622 del 1983, art. 10, la domanda avrebbe dovuto essere proposta entro i cinque anni successivi.
4. Il secondo motivo, che censura tale ultima ragione della decisione e che può essere esaminato preliminarmente, non è meritevole di accoglimento.
5. Invero, l’assunto dei ricorrenti, secondo cui la fattispecie di cui è processo sarebbe regolata dal D.M. 2 luglio 1983, n. 1622, art. 1, nella parte in cui, se alla data di concessione il dipendente sia deceduto per cause di servizio, gli aventi causa avrebbero potuto presentare apposita istanza nel termine perentorio di sei mesi dall’evento mortale e semprechè fosse stata prodotta la necessaria domanda, non è condivisibile.
6. L’art. 1 del citato D.M. si applica, infatti, qualora il decreto di concessione dell’equo indennizzo non sia stato ancora emanato, ma non nelle ipotesi in cui il dante causa, già beneficiario dell’equo indennizzo, abbia subito un aggravamento della menomazione che lo abbia condotto al decesso.
7. Il dato letterale della disposizione di cui all’art. 1 è chiaro: se non ancora emanato il decreto di concessione, in quel caso gli aventi causa possono dare impulso al perfezionamento della procedura in caso di morte dell’istante.
8. La materia dell’aggravamento è, invece, regolata dal D.M. n. 1622 del 1983, art. 10, ed è soggetta al termine di presentazione della domanda di cinque anni dalla comunicazione del decreto per ottenerne la revisione, per una sola volta, dal dipendente o dai suoi aventi causa.
9. L’ambito applicativo dell’art. 1, riguarda, pertanto, la diversa ipotesi di liquidazione del decreto non ancora emanato, ma non quella in cui si deduca che l’aggravamento della patologia, che aveva già determinato il riconoscimento dell’equo indennizzo, abbia poi condotto alla morte del beneficiario.
10. In tal caso occorreva, come giustamente osservato dalla Corte di merito, che la domanda fosse presentata nel termine sopra indicato ai sensi dell’art. 10 D.M. citato, non potendosi considerare l’evento morte (nel caso de quo per “cardiopatia ischemica”) come nuovo ed autonomo rispetto alla precedente procedura concessoria già svolta, visto che esso rappresentava l’esito drammatico della medesima malattia (“postumi da infarto diaframmatico”) e doveva necessariamente essere posto in correlazione con quanto già richiesto ed ottenuto (in termini vedasi in motivazione Cass. n. 19627/2012).
11. Il rigetto di tale motivo rende inammissibile l’altro, riguardante l’altra ratio decidendi.
12. Invero, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dall’altro, e ciascuno di per sè solo, idoneo a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossigli con l’impugnazione comporta che la decisbne deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio, non o mal censurato, privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cass. n. 4349/2001; Cass. n. 4424/2001; Cass. n. 24540/2009; Cass. n. 22753/2011).
13. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
14. Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
15. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 12 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2019