LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22870/2018 proposto da:
E.O.D., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Antonino Ciafardini, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 554/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 30/04/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/06/2019 dal Consigliere Dott. FALABELLA MASSIMO.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. – E.O.D. ha impugnato per cassazione la sentenza della Corte di appello di Ancona, pubblicata il 30 aprile 2018, con cui è stata respinto il gravame da lui proposto avverso l’ordinanza del Tribunale del capoluogo marchigiano in tema di protezione internazionale.
2. – Il ricorso si basa su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo denuncia la nullità della sentenza di appello ex art. 134 c.p.c., n. 2 per motivazione contraddittoria o apparente. Assume l’istante che la sentenza impugnata non avrebbe dato ragione dell’asserita sua non credibilità e che il giudice del merito avrebbe dovuto avvalersi dei propri poteri istruttori officiosi.
Il secondo mezzo lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5 per non avere la Corte di merito “applicato nella specie il principio dell’onere probatorio attenuato” e “per non aver valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5”. Sostiene l’istante che dovevano ritenersi “validi” i motivi addotti dal ricorrente a fondamento della sua fuga dal paese di origine (le persecuzioni subite ad opera del proprio padre e dal suo gruppo religioso e le gravi e ripetute aggressioni e minacce di morte, in un contesto sociale connotato da vendette private che il sistema giudiziario nigeriano non era in grado di contrastare); rileva, inoltre, che il Tribunale prima e la Corte di appello poi avrebbero dovuto impiegare i propri poteri istruttori officiosi acquisendo “le informazioni necessarie a suffragare le dichiarazioni dell’interessato”.
Col terzo motivo l’istante si duole della violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere la Corte di appello riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da situazione di violenza indiscriminata. La censura è declinata sostenendo che nella fattispecie ricorrevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, in presenza del danno grave che andava correlato a forme di violenza indiscriminata e al rischio di comportamenti inumani e degradanti. L’istante evoca, al riguardo, le tensioni a sfondo religioso causate da attacchi terroristici del gruppo ***** e “la corruzione dilagante delle forze di polizia e dei politici locali”.
Il quarto mezzo prospetta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. La censura investe la decisione impugnata nella parte in cui ha escluso ricorressero le condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria ed è incentrata sul rilievo per cui nel paese di origine non sarebbero assicurate all’istante condizioni di vita accettabili: condizioni di contro esistenti in Italia, in cui lo stesso richiedente si sarebbe affrancato da una situazione di grave povertà.
2. – Il ricorso è nel complesso infondato.
Il primo motivo omette di considerare che la Corte di appello ha spiegato le ragioni poste a fondamento del giudizio di non credibilità della narrazione del richiedente (sulla cui esatta identità, ha aggiunto il giudice del gravame, sussistevano dubbi); la Corte distrettuale ha infatti evidenziato, per quanto qui rileva, che l’istante aveva riferito di essere stato perseguitato dal padre per il proprio rifiuto di prestare adesione alla setta degli *****, i quali, però, non appartenevano al gruppo etnico dello stesso richiedente; ha inoltre rilevato che andavano condivise le considerazioni del giudice di primo grado per cui la versione dei fatti fornita, oltre a ricalcare stereotipi diffusi su internet, era disseminata da particolari confusi, contraddittori e poco coerenti con la realtà territoriale di riferimento. Il lamentato vizio quindi non sussiste, giacchè è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).
Quanto al mancato uso dei poteri di istruzione officiosa, la deduzione appare del tutto generica, non essendo stato precisato quale attività di indagine avrebbe omesso di compiere il giudice del merito. Peraltro, l’esistenza di atti persecutori o l’esposizione dello straniero al rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti deve sempre rivestire un certo grado di individualizzazione (cfr. Cass. 20 marzo 2014, n. 6503): il che, nel caso in esame, è mancato, dal momento che la vicenda narrata dal richiedente è stata ritenuta non credibile, onde i pericoli che sarebbero correlati alle condotte descritte dall’istante risultano essere del tutto privi di concretezza. Ne discende che, sotto questo profilo, un approfondimento della conoscenza delle condizioni del paese di origine sarebbe risultato, comunque privo di rilevanza.
Nè può ritenersi che la Corte di appello abbia disatteso i criteri fissati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. Questa Corte ha precisato che in tema di protezione internazionale, ai sensi della norma citata, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lett. da a) ad e) della citata norma (Cass. 29 gennaio 2019, n. 2458; Cass. 10 luglio 2014, n. 15782; in precedenza Cass. 18 febbraio 2011, n. 4138, secondo cui ove il richiedente non abbia fornito prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova devono essere ritenuti comunque veritieri se ricorrano le richiamate condizioni). Nel caso in esame, il giudice del merito ha però motivatamente escluso, come si è visto, che le dichiarazioni del richiedente potessero ritenersi coerenti e plausibili, come invece è richiesto dall’art. 3, comma 5, lett. c cit.. Sotto tale profilo la decisione della Corte di merito appare dunque ineccepibile.
La censura di cui al terzo motivo è, poi, radicalmente inammissibile. Il ricorrente svolge deduzioni sul punto del mancato riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), senza precisare se avanti al giudice di appello fosse stata puntualmente allegata l’esistenza delle condizioni atte a giustificare tale forma di tutela: pure in tema di protezione internazionale dello straniero trova del resto applicazione il principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336). Vero è, poi, che la Corte di merito ha preso posizione sull’azione terroristica di ***** in Nigeria (pag. 3 della sentenza impugnata): ma anche a voler ricavare da ciò il dato della pregressa allegazione, da parte dell’odierno ricorrente, di una situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, occorrerebbe notare che lo stesso giudice del gravame ha negato che tale azione interessasse la regione di provenienza del ricorrente; e tale giudizio, inerendo a una questione di fatto, si sottrae, come è evidente, al sindacato di legittimità.
Da ultimo, non appaiono concludenti le deduzioni svolte dall’istante sul punto della protezione umanitaria. Come questa Corte ha avuto modo di precisare, la protezione umanitaria impone di verificare che “ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili”. La violazione di tali diritti nel paese di provenienza “deve inoltre necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455). Nel caso in esame la Corte del merito ha motivatamente escluso di poter -avvisare specifiche condizioni di vulnerabilità in capo al richiedente e il ricorso si attesta su di una presa d’atto del generale livello delle condizioni socio-economiche e sanitarie del paese di origine, finendo così per conferire rilievo a profili che non sono individualizzati e che, per quanto detto, risultano privi di decisività.
3. -Nulla va ovviamente disposto in punto di rifusione delle spese processuali.
PQM
LA CORTE rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima Civile, il 14 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019