LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23674/2018 proposto da:
H.M.Z., elettivamente domiciliato in Roma Piazza dei Consoli 62 presso lo studio dell’avvocato Inghilleri Enrica che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Paolinelli Lucia;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 106/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 01/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/06/2019 dal Consigliere FALABELLA MASSIMO.
FATTI DI CAUSA
1. – H.M.Z. proponeva appello contro l’ordinanza pronunciata nei propri confronti dal Tribunale di Ancona e domandava gli venissero riconosciuti, in via gradata, lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e quella umanitaria.
Con sentenza del 1 febbraio 2018 la Corte marchigiana respingeva il gravame, ritenendo insussistenti le condizioni per il riconoscimento delle diverse forme di protezione internazionale che erano state invocate.
2. – Contro tale sentenza H.M.Z. ricorre per cassazione; l’impugnazione si articola in due motivi. Resiste con controricorso il Ministero dell’interno.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Col primo motivo sono denunciati: violazione e falsa applicazione dell’art. 1 Convenzione di Ginevra, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 11, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008 cit., art. 32; vizio di motivazione. Assume il ricorrente che la propria vicenda era stata erroneamente interpretata dalla Corte di appello, la quale avrebbe valutato in modo improprio le ipotesi normative della persecuzione e del danno grave; rileva, inoltre, come la sentenza impugnata abbia omesso di verificare se in concreto gli episodi di violenza generalizzata presenti in tutto il Bangladesh avessero assunto il livello di intollerabilità denunciata con la domanda di protezione internazionale. Si duole, in particolare, del fatto che la Corte di merito abbia escluso la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), senza aver acquisito le necessarie informazioni sulla situazione del paese di origine di esso richiedente. Il motivo investe anche la decisione vertente sul denegato riconoscimento della protezione umanitaria: viene rilevato che il rimpatrio porrebbe esso ricorrente “in una situazione di concreto pericolo per l’incolumità personale, di estrema difficoltà economica e sociale, sostanzialmente imponendogli condizioni di vita del tutto inadeguate”; è inoltre spiegato che lo stesso istante risulta ben inserito nel contesto della città di residenza e che dal 2017 dispone di un contratto di lavoro a tempo determinato.
Il secondo motivo oppone l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Rileva il ricorrente che nella sentenza impugnata si sarebbe omesso di considerare “gran parte delle informazioni fornite dal richiedente, decontestualizzate e menzionate senza riferimento alle circostanze di tempo e di luogo in cui si sono svolte”; inoltre non sarebbe stato operato alcun accertamento sulla corrispondenza della situazione rappresentata, nella quale sarebbe maturato il quadro persecutorio e il rischio per la vita e l’incolumità fisica del richiedente, con quella effettivamente esistente nel paese: viene rimarcata, in proposito, la gravità delle condizioni di sicurezza del Bangladesh, descritte come particolarmente precarie.
2. – I due motivi vanno disattesi e il ricorso deve essere respinto.
La vicenda narrata dal richiedente, portata all’esame della commissione e dei giudici di merito, verte sul fatto che lo stesso H. simpatizzante, in Bangladesh, di un partito di opposizione, fosse stato convinto dal padre ad espatriare dopo la scomparsa di un proprio amico che era attivista nello stesso partito. La Corte di merito ha ritenuto che la narrazione dell’odierno ricorrente fosse generica e che il rischio di persecuzione politica fosse inverosimile (rilevando, a quest’ultimo proposito, che l’appellante aveva riferito di un suo coinvolgimento politico che appariva del tutto marginale e osservando, inoltre, come l’espatrio avesse avuto luogo su consiglio del padre, dopo ben sei mesi dalla scomparsa dell’amico).
Ciò posto, il ricorso sembra confondere in più punti le connotazioni delle diverse forme di protezione che qui vengono in gioco.
La vicenda descritta assumeva innegabilmente rilievo ai fini dello scrutinio delle domande dirette al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 351 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Sul punto, la conclusione cui è pervenuta la Corte di merito, che ha ritenuto di fatto insussistente il rischio, in capo ad H., di essere oggetto di una persecuzione motivata da ragioni politiche in considerazione del ruolo del tutto marginale da lui svolto nel partito per cui simpatizzava – conclusione fondata su precise evidenze, ritenute rappresentative dell’insussistenza del rischio paventato -, non appare sindacabile nella presente sede, giacchè è espressione di un giudizio di fatto riservato al giudice del merito. In più, va valorizzata la circostanza per cui il racconto del richiedente è stato ritenuto generico (evenienza, questa, che assume autonomo rilievo anche nella prospettiva dell’apprezzamento del “danno grave” di cui all’art. 14 cit., richiamate lett. a) e b)). Va infatti ricordato, in proposito, che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente, che è prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27503).
Le domande aventi ad oggetto il riconoscimento dello status di rifugiato politico e di protezione sussidiaria ex art. 14 cit., lett. a) e b), in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (cfr. Cass. 20 marzo 2014, n. 6503; Cass. 20 giugno 2018, n. 16275), sono state dunque correttamente disattese.
Per quel che concerne la protezione sussidiaria di cui all’art. 14 cit., lett. c), erra, poi, l’istante a dolersi della mancata spendita, da parte dei giudici del merito, dei doveri di cooperazione istruttoria contemplati in tema di protezione internazionale. La Corte di appello ha infatti dato atto che in base a quanto documentato dal report 2017 di Amnesty International il Bangladesh non è interessato a una “situazione di conflitto armato nel senso richiesto dalla legge”. La censura risulta oltretutto connotata da assoluta genericità e appare, per conseguenza, priva di decisività: il ricorrente omette infatti di indicare quali siano le fonti conoscitive che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso. Deve peraltro sottolinearsi che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui all’art. 14, lett. c) cit., implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass. 21 novembre 2018, n. 30105): sicchè il ricorrente non può di certo pretendere di rimettere in discussione, con l’impugnazione proposta, il giudizio espresso dalla Corte di appello sulla scorta delle informazioni da essa acquisite.
Pure da respingere sono le doglianze sollevate a fronte del denegato riconoscimento della protezione umanitaria. Il giudice del merito ha negato, nella sostanza, che esistesse alcun reale fattore di vulnerabilità: ciò detto, la condizione di vulnerabilità deve essere sempre correlata a elementi legati alla vicenda personale del richiedente, apprezzata nella sua individualità e concretezza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455), onde non si vede come, nella conclamata assenza di allegazioni e di riscontri riferiti alla condizione individuale dell’istante, la Corte distrettuale potesse reputare fondata la domanda relativa alla nominata forma di protezione.
3. – Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della la Sezione Civile, il 14 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019