Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24389 del 30/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25563/2018 proposto da:

H.A.M., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Alessandrini, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 451/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 11/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/06/2019 dal Consigliere Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata la sentenza della Corte di appello di Ancona, pubblicata l’11 aprile 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da H.A.M. avverso l’ordinanza pronunciata ex art. 702 ter c.p.c. dal Tribunale di Ancona. La nominata Corte ha escluso che al nominato richiedente spettasse il riconoscimento dello status di rifugiato, il diritto alla protezione sussidiaria e il diritto a quella umanitaria.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su tre motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo oppone violazione o falsa applicazione degli artt. 4 e 8 dir. 2004/83/CE, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 della dir. 2005/85/CE, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 27, comma 1 bis. Le censure investono l’asserita errata applicazione, da parte della Corte del merito, della speciale disciplina dell’onere probatorio nella materia della protezione internazionale e il prospettato mancato impiego, da parte del giudice di appello, dei poteri officiosi di indagine che gli competono.

Il secondo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Viene dedotto che la Corte distrettuale avrebbe escluso che il Bangladesh fosse interessato a fenomeni di violenza indiscriminata derivanti da conflitto armato ex art. 14, lett. c) – fenomeni di contro attestati da varie fonti – e che la stessa avrebbe inoltre mancato di procedere ai necessari accertamenti sulla situazione generale del paese.

Il terzo motivo lamenta violazione o falsa applicazionedel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 e art. 5, comma 6. L’istante si duole del fatto che la Corte di Ancona, nell’assumere la decisione sul punto della protezione umanitaria, abbia trascurato di procedere a una valutazione comparativa tra il grado di integrazione raggiunta dal richiedente nel nostro paese e la situazione in cui lo stesso si trovava in Balgladesh.

3. – I primi due motivi sono fondati nei termini che si vengono a esporre.

La Corte di appello ha rilevato come il narrato del richiedente fosse generico e non circostanziato, tanto da risultare inverosimile. Con particolare riguardo ai contrasti politici in cui sarebbe stato coinvolto il ricorrente (che ha assunto di aver aderito, nel paese di origine, a una formazione politica di minoranza, invisa a un gruppo terroristico: gruppo terroristico che avrebbe posto in atto una aggressione ai danni degli esponenti del detto partito tra cui lo stesso h.), il giudice del gravame ha evidenziato come la famiglia del richiedente non si fosse allontanata dal luogo di abituale dimora e come non fosse stata censurata l’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, con cui era assegnato all’odierno ricorrente un ruolo di scarso rilievo all’interno dell’organizzazione; la stessa Corte ha motivato la non credibilità del racconto del richiedente rilevando come avanti alla Commissione lo stesso avesse espresso preoccupazioni di natura economica che ben si sarebbero spiegati, ad avviso del giudice di appello, “con la scelta di lasciare la famiglia di origine in loco e con l’abbandono del paese di origine per la ricerca di un lavoro”.

Come è noto, in tema di protezione internazionale, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lett. da a) ad e) della citata norma (Cass. 29 gennaio 2019, n. 2458; Cass. 10 luglio 2014, n. 15782; in precedenza Cass. 18 febbraio 2011, n. 4138, secondo cui ove il richiedente non abbia fornito prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova devono essere ritenuti comunque veritieri se ricorrano le richiamate condizioni). Nel caso in esame il giudice del merito ha però motivatamente escluso che le dichiarazioni del richiedente potessero ritenersi sufficientemente circostanziate e plausibili, come invece è richiesto dall’art. 3, comma 5, lett. a) e c) cit.. D’altro canto, la valutazione di non credibilità del racconto costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, al quale, oltretutto, compete di svolgere tale accertamento solo in presenza di dichiarazioni munite di adeguata specificità (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27503). Ne discende che, sotto il profilo che qui interessa, retta mente la Corte del merito ha ritenuto che non ricorressero le condizioni per l’accoglimento delle domande dirette, rispettivamente, al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, con particolare riguardo alle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Con riguardo ad esse viene infatti in discorso – seppure in diverso grado – una personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (cfr. Cass. 20 marzo 2014, n. 6503; Cass. 20 giugno 2018, n. 16275) che pone al centro dell’indagine la situazione individuale del richiedente. Ciò spiega come, con riferimento alle menzionate forme di protezione non vi sia ragione di attivare i poteri di istruzione officiosa se questi siano finalizzati alla verifica di fatti o situazioni di carattere generale che, in ragione della genericità o non credibilità della narrazione del richiedente, non è possibile riferire alla vicenda personale di questo.

L’accertamento della situazione del Bangladesh risulta peraltro non correttamente eseguito nel quadro dello scrutinio della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Deve qui premettersi che tale forma di protezione è accordata per il sol fatto che il richiedente provenga da territorio interessato da una situazione di violenza indiscriminata: situazione in cui il livello del conflitto armato in corso è tale che l’interessato, rientrando in quel paese o in quella regione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (Corte giust. 17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji, richiamata da Corte giust. 30 gennaio 2014, C-285/12, Diakitè; per la giurisprudenza nazionale cfr. pure, di recente: Cass. 13 maggio 2018, n. 13858; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25083; Cass. 21 luglio 2017, n. 18130). Come è stato efficacemente rilevato, quando il cittadino straniero che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel paese straniero di origine dell’istante si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Cass. 28 giugno 2018, n. 17069).

Il giudice distrettuale ha richiamato la situazione del paese di origine del ricorrente menzionando un sito internet – il “*****” – da cui si desumerebbe essere sconsigliato l’accesso alle zone di frontiera del Bangladesh per l’esistenza di contrasti tra le diverse etnie. La Corte di appello non ha invece preso in considerazione la documentazione che il ricorrente ha dedotto essere stata prodotta.

Reputa il Collegio che tale accertamento si esponga a censura.

Anzitutto, il provvedimento impugnato non precisa se tra le regioni di frontiera interessate ai nominati conflitti fosse ricompresa l’area di provenienza dell’istante.

In secondo luogo, la Corte di appello mostra di trascurare la necessità di avvalersi delle fonti indicate dal ricorrente: laddove il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, comma 1 bis chiarisce che l’acquisizione officiosa, da parte del giudice, delle informazioni relative al paese di origine opera quale “integrazione del quadro probatorio prospettato dal richiedente”. Sicchè è certo che il giudice stesso non possa elidere dal novero degli elementi probatori da scrutinare tali informazioni: soluzione, questa, che sarebbe del resto palesemente contraria al principio del diritto alla prova che trova espressione nell’art. 115 c.p.c..

4. – Il terzo motivo rimane assorbito.

5. – La sentenza è cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Ancona, la quale statuirà pure sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie i primi due motivi di ricorso e dichiara assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima Civile, il 14 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019

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