LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15157/2018 proposto da:
F.L. O L., elettivamente domiciliato in Roma Viale Manzoni n. 81 presso lo studio dell’avvocato Emanuele Giudice che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5267/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 15/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09/07/2019 dal Consigliere Dott.ssa Paola GHINOY.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Milano confermava il rigetto della domanda di protezione internazionale proposta da F.L., cittadino senegalese, disposto dal Tribunale di Milano.
2. La Corte riferiva che il richiedente aveva esposto alla Commissione di essere nato in Senegal, nella regione di Casamance, in un villaggio vicino alla città di *****, di avere perso entrambi i genitori, uccisi da banditi guerriglieri del 2002, e di essere fuggito con il fratello di soli 10 anni in Guinea da dove sarebbero poi rientrati nel territorio di *****. Si sarebbe poi separato in malo modo dal fratello nel 2005, lasciando il Senegal nel 2014; il fratello dopo la morte dei genitori sarebbe diventato aggressivo nei suoi confronti picchiandolo, in una circostanza con un pezzo di legno e in un’altra minacciando di ucciderlo con un coltello, ma lui non si sarebbe rivolto alla polizia perchè “dopo qualche giorno che ci hanno messo in carcere ci liberano” ed avrebbe preferito lasciare il paese dove non rientrerebbe per paura del fratello. Riteneva la Corte che le dichiarazioni fossero scarsamente attendibili e del tutto non riscontrabili, e che in ogni caso facessero riferimento ad una vicenda strettamente familiare e per nulla collegata, se non per l’avvenuta uccisione dei genitori avvenuta ormai oltre 10 anni fa, con la generale situazione dello stato di provenienza.
3. Aggiungeva che il Senegal è uno Stato che secondo quanto risulta da fonti internazionali di riconosciuta attendibilità non registra alcun conflitto armato di livello così elevato e diffuso da far ritenere che l’appellante al suo rientro per la sua sola presenza sul territorio correrebbe il rischio effettivo di essere soggetto ad una minaccia grave individuale alla persona o alla sua vita, in quanto il rapporto annuale sulle libertà religiosa del Dipartimento di Stato statunitense dell’agosto 2018 riferisce che la Costituzione senegalese garantisce la libera pratica dei credo religiosi e l’autoregolamentazione da parte di tutti i gruppi religiosi senza l’interferenza del governo, purchè venga mantenuto l’ordine pubblico. Era stata inoltre implementata una legge del 2005 volta a proibire l’accattonaggio forzato dei minori, nè sono segnalate situazioni di conflitto armato diffuso nel territorio dello Stato che è impegnato in una vasta opera di contrasto al terrorismo.
4. Negava infine la protezione umanitaria, neppure essendo dedotta una situazione di particolare vulnerabilità.
5. Per la cassazione della sentenza F.L. ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Come primo motivo di ricorso il richiedente deduce violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 288 del 1998, art. 5, comma 6. Il motivo lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, come configurata anteriormente allo ius superveniens costituito dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, conv. in L. n. 132 del 2018. Il ricorrente sostiene che la Corte non avrebbe valorizzato la valutazione comparativa tra la situazione del Senegal, che non risulta affatto rassicurante, non essendo cessata la situazione di microconflittualità interna, con la stabilità lavorativa e reddituale che è riuscito a costruire a Milano (quale risulta dal contratto di lavoro prodotto dalle buste paga).
7. Come secondo motivo deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e ribadisce che un eventuale ritorno non volontario in Senegal comporterebbe la perdita di opportunità apprezzabili sotto un profilo etico e giuridico, avendo egli ben più di un serio interesse ad integrarsi nel territorio e essendo proiettato verso aspettative di vita diverse da quelle cui potrebbe aspirare del proprio paese di origine.
8. I due motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili.
9. L’attendibilità della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, la situazione oggettiva del paese d’origine deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente, la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi (Cass. 4455/2018). La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – e censurabile solo nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), costituente un parametro di attendibilità della narrazione. Il vizio di violazione di legge consiste, invece, nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, e come tale è inammissibile in subiecta materia (Cass. 3340/2019). In mancanza di credibilità dell’istante, deve, di conseguenza, escludersi la necessità e la possibilità stessa per il giudice di merito – laddove non vengano dedotti fatti attendibili e concreti, idonei a consentire un approfondimento ufficioso – di operare ulteriori accertamenti.
10. Nel caso concreto, la Corte d’appello ha ritenuto – con adeguata e logica motivazione – che le dichiarazioni del ricorrente siano “scarsamente attendibili e del tutto non riscontrabili”, e che, inoltre, le stesse abbiano fatto esclusivo riferimento ad una vicenda familiare, che esula dai presupposti per la protezione in parola, essendo risultate ambigue e contraddittorie anche le spiegazioni fornite circa il fatto che il medesimo non si sia rivolto alla polizia per ovviare alle minacce provenienti dal fratello. Il motivo si sostanzia invece in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dalla Corte d’appello ed in tal senso risulta inammissibile, considerato che il vizio di motivazione rappresentato dal travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
11. Occorre poi ribadire che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. ord. n. 17072 del 28/06/2018, Cass. sent. n. 4455 del 23/02/2018), non solo l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, affermata dai giudici di merito, costituisce ragione sufficiente per negare anche la protezione di cui trattasi, ma la riscontrata non individualizzazione dei motivi umanitari non può essere surrogata dalla situazione generale del Paese di provenienza, perchè, altrimenti, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma, piuttosto, quella del suo Stato d’origine in termini del tutto generali ed astratti. Nel caso di specie, dunque, mentre la decisione del giudice di merito, ove ha escluso la sussistenza di individualizzate ragioni ostative al rimpatrio, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, la censura spiegata sul punto dal ricorrente è del tutto generica, limitandosi essa a replicare quanto dedotto circa l’insicurezza del paese e della zona di origine, che comporterebbe minaccia di un grave danno alla persona derivante dal forzato rientro.
12. Nessuna rilevanza può, infatti, attribuirsi di per sè al contratto lavoro e all’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria. Questa Corte ha infatti chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.
13. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072).
14. Il ricorso è dunque inammissibile.
15. Le spese seguono la soccombenza.
16. Ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, non risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15 e alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 luglio 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019