Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24400 del 30/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29762/2018 proposto da:

T.O., elettivamente domiciliato in Roma Via Sesto Rufo n. 23 presso lo studio dell’avvocato Bruno Taverniti che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Mastrangelo Vincenzo giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – Commissione Territoriale per il Riconoscimento Della Protezione Internazionale Di Ancona;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositato il 07/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/07/2019 dal Consigliere, Dott.ssa Paola GHINOY.

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di L’Aquila rigettava la domanda di protezione internazionale proposta da T.O..

2. Il Tribunale riferiva che la parte ricorrente, cittadino gambiano, aveva raccontato di essere stato costretto a lasciare il proprio paese a seguito delle minacce di morte subite da parte di alcuni notabili della sua comunità, volte far sì che la piccola sorella del medesimo e dal medesimo accudita subisse una pratica di infibulazione, alla quale egli si era opposto. Le minacce avrebbero suggerito l’opportunità di una fuga con la sorellina che sarebbe avvenuta prima in Senegal e poi in Libia, dove i due sarebbero stati separatamente incarcerati e dove la sorella era deceduta. Il Tribunale argomentava che le motivazioni addotte dal ricorrente non risultavano idonee a determinare riconoscimento dello status di rifugiato in quanto per sua stessa dichiarazione la sorella destinataria della pratica di infibulazione risultava deceduta. Non risultavano quindi neppure sussistenti requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), mentre in relazione alla lett. c) richiamava i siti internazionali (***** e-magazine del marzo 2017, ***** 2017), che riferiscono della situazione in progressivo miglioramento per effetto della elezione del nuovo presidente A.B., che ha promesso “tolleranza zero” sulla violazione dei diritti umani e la riforma dei servizi di sicurezza con rilascio di tutte le persone detenute senza processo.

3. Neppure sussistevano i requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria, considerata l’assenza di una situazione di vulnerabilità e il fatto che il contratto di lavoro ottenuto era stagionale come bagnino con scadenza al *****.

4. T.O. ha proposto ricorso per la cassazione del decreto, affidato a sei motivi, cui il Ministero dell’interno non ha opposto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Come primo motivo di ricorso il richiedente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 6, 7 e 8, e art. 5 e Convenzione di Ginevra e ribadisce di essere stato costretto ad abbandonare il Gambia per proteggere la sua sorellina, deceduta in Libia.

6. Come secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e sostiene che la propria vicenda non avrebbe carattere privato in quanto egli era stato perseguitato non per un fatto attinente alla propria sfera privata ma in maniera oggettiva, in quanto chiunque trovandosi al suo posto sarebbe stato minacciato di morte per il solo fatto di non aver acconsentito all’infibulazione della sorellina e chiunque in Gambia oggi come allora tenti di sottrarre qualcuno a tale medievale pratica è discriminato.

7. Come terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 35 del 2008, art. 35 bis, comma 9 e vizio di motivazione e sostiene che il Tribunale non avrebbe valutato i reports più aggiornati dai quali si rileva che la situazione in Gambia e tutt’altro che normalizzata e la svolta democratica è a tutt’ora irrealizzata.

8. Come quarto motivo denuncia la manifesta illogicità in relazione alla valutazione delle fonti internazionali richiamate.

9. Come quinto motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Lamenta che il giudice di primo grado abbia ignorato alcune prove documentali prodotte nel corso del giudizio che dimostrano la perfetta integrazione nel tessuto italiano quali le dichiarazioni positive del datore di lavoro che ha rinnovato il contratto come bagnino nelle stagioni balneari *****.

10. Come quinto motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 514 e lamenta che il Tribunale non abbia valorizzato la circostanza che gli provenisse dalla Libia.

11. Come sesto motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e lamenta che il Tribunale abbia esaminato esclusivamente la situazione politica dell’attuale Gambia senza valutare la situazione dei diritti civili e della libertà in senso lato con particolare riguardo alla questione del tentativo di alcune etnie di imporre l’infibulazione.

12. Il primo, secondo, terzo, quarto e settimo motivo di ricorso sono inammissibili.

13. La domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018). Il ricorso al Tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale. In difetto di allegazioni circa la sussistenza di ragioni tali da comportare – alla stregua della normativa sulla protezione internazionale – per il richiedente un pericolo di un grave pregiudizio alla persona, in caso di rientro in Patria, la vicenda narrata deve considerarsi di natura strettamente privata, come tale al di fuori dai presupposti per l’applicazione, sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) (cfr. Cass. 15/02/2018, n. 3758).

14. Nel caso, l’istante ha allegato di essersi opposto alla infibulazione della sorella, per cui il Tribunale ha motivatamente escluso il rischio di una persecuzione attuale essendo ella deceduta, una volta fuggiti in Libia. I motivi si sostanziano in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal giudice territoriale, riproponendo circostanze già da questi esaminate, e sono perciò inammissibili, considerato che il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico desunto da un vaglio rigoroso delle risultanze di causa.

15. Per quanto concerne la protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione generalizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base ad un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Cass., 28/06/2018, n. 17075; Cass., 12/11/2018, n. 28990). Al fine di ritenere adempiuto tale onere, inoltre, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass., 26/04/2019, n. 11312). Tali accertamenti, una volta effettuati, danno luogo ad un apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità (Cass., 12/12/2018, n. 32064). Nel caso concreto, il Tribunale ha utilizzato informazioni tratte da fonti internazionali aggiornate citate nel decreto impugnato, ed i motivi cercano di sovvertire gli accertamenti di fatto operati, riproponendo questioni di merito.

16. Anche il quinto e sesto motivo (protezione umanitaria), sono inammissibili, in quanto prospettano questioni di merito già affrontate dal Tribunale, che ha ritenuto insufficiente – in conformità all’orientamento di questa Corte – a fondare la domanda di protezione umanitaria la mera allegazione di un contratto di lavoro stagionale, mentre è stata esclusa la sussistenza di una situazione di violazione dei diritti umani nel Paese di origine dell’istante.

17. Nessuna rilevanza può, infatti, attribuirsi di per sè al contratto lavoro e all’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria. Questa Corte ha infatti chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

18. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072).

19. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.

20. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva del Ministero.

21. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater, risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019

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