Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.24402 del 30/09/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 22650/2018 proposto da:

T.S., elettivamente domiciliato in Roma Via Torino n. 7, presso lo studio dell’avvocato Barberio Laura che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Vitale Gianluca, con procura speciale in calce al ricorso,

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., elettivamente domiciliato in Roma alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione;

– intimato –

avverso la sentenza n. 120/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 15/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/07/2019 dal Consigliere, Dott. CAIAZZO ROSARIO.

RILEVATO

che:

T.S., cittadino minorenne del Mali, impugnò innanzi al Tribunale di Torino il provvedimento della Commissione territoriale, che negò il riconoscimento della protezione internazionale e di quella umanitaria, con ricorso che fu respinto con ordinanza del 6.2.17, sulla scorta dell’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente. La Corte d’appello di Torino, con sentenza del 15.12.17, rigettò l’appello, osservando che: era da condividere la motivazione del Tribunale in ordine alla non credibilità del generico racconto reso dal ricorrente, per le relative contraddizioni e l’inverosimiglianza della vicenda narrata; non sussistevano i presupposti della protezione sussidiaria in quanto in Mali non si registrava una situazione di violenza indiscriminata e diffusa su tutto il territorio, ma solo in una ristretta zona nel nord del Paese, mentre i segnalati episodi di banditismo e criminalità comune, nonchè gli attentati di matrice islamica, non rappresentavano un conflitto armato, anche in considerazione della reazione delle autorità maliane; era da escludere anche la protezione umanitaria in quanto il ricorrente non correva rischi di danno grave in caso di rimpatrio, pur tenendo conto della situazione di insicurezza derivante prevalentemente dagli attentati terroristici.

Il T. propone ricorso in cassazione affidato a quattro motivi. Resiste il Ministero con controricorso.

RITENUTO

che:

Con il primo motivo è denunziata violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1bis, D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 6 e art. 16 direttiva UE n. 32/13, per aver la Corte d’appello escluso la credibilità del ricorrente senza alcuna analisi delle informative relative al contesto di provenienza dello stesso ed essendo stato omesso ogni approfondimento istruttorio circa la situazione interna del Mali nonchè la menzione delle fonti contrarie alle COI indicate nel ricorso.

Con il secondo motivo è denunziata la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g), D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5,D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. b) e art. 15 direttiva UE n. 95/2011, per non aver la Corte d’appello attribuito rilievo al pericolo di danno grave alla persona derivante da soggetti non statuali e all’impossibilità di protezione interna.

Con il terzo motivo è denunziata la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, avendo la Corte territoriale, in ordine alla protezione umanitaria, omesso del tutto l’indagine istruttoria e il giudizio comparativo riguardo alla situazione che si verificherebbe in caso di rientro in Patria che, peraltro, determinerebbe anche l’interruzione del percorso d’integrazione sociale del ricorrente.

Con il quarto motivo è denunziata la violazione del D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35bis, comma 17 e D.P.R. n. 105 del 2002, art. 136, per aver il giudice d’appello revocato l’ammissione al gratuito patrocinio, poichè la domanda del ricorrente non era stata ritenuta inammissibile o manifestamente infondata.

I primi due motivi – esaminabili congiuntamente poichè tra loro connessi – sono inammissibili.

La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce, invero, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – e censurabile solo nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 – il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), (Cass. n. 3340/2019), escludendosi, in mancanza, la necessità e la possibilità stessa per il giudice di merito laddove non vengano dedotti fatti attendibili e concreti, idonei a consentire un approfondimento ufficioso – di operare ulteriori accertamenti.

Invero, in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona. Qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine (Cass. n. 16925/2018; Cass. n. 28862/2018).

Nel caso concreto, la Corte d’appello ha diffusamente ed adeguatamente (pp. 6 e 7) motivato in ordine alle ragioni per le quali la narrazione dell’istante non è credibile, quanto al nucleo centrale delle sue dichiarazioni, concernente il presunto pericolo di essere sottoposto ad un sacrificio umano (mancata indicazione delle modalità del rituale, dello scopo del sacrificio, fatta eccezione per il dato del tutto irrilevante del nome del capo del villaggio che avrebbe celebrato il rito; contraddizioni ed inverosimiglianze, compresa la dedotta impossibilità di ottenere tutela dalla polizia, che invece reprime severamente la pratica dei sacrifici umani).

Ne consegue che la censura tende a scardinare tale motivato giudizio di fatto, mediante deduzioni di merito inammissibili in questa sede.

Pertanto, la non credibilità del richiedente esclude in radice la possibilità di riconoscere al medesimo la protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b), espressamente censurata, oltre che lo status di rifugiato. Il terzo motivo, riguardante la protezione umanitaria, è inammissibile. Al riguardo, la Corte territoriale ha, invero, fondato la decisione sulla insussistenza – desunta da fonti internazionali aggiornate, citate nella decisione – di situazioni di pericolo per i diritti umani fondamentali dei civili, essendo gli attentati di matrice jiadista concentrati sulle forze internazionali o postazioni dell’esercito, più raramente sui luoghi di ritrovo e, comunque, solo su quelli frequentati da stranieri.

Pertanto, il motivo è diretto al riesame dei fatti ed è, peraltro, fondato su allegazioni generiche circa il regime giuridico della misura di protezione in esame che ineriscono a valutazioni di merito.

Il quarto motivo è inammissibile. La revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato adottata – come nella specie – con la sentenza che definisce il giudizio di appello, anzichè con separato decreto, come previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, non comporta, invero, mutamenti nel regime impugnatorio che resta quello, ordinario e generale, dell’opposizione del citato D.P.R., ex art. 170, dovendosi escludere che la pronuncia sulla revoca, in quanto adottata con sentenza, sia, per ciò solo, impugnabile immediatamente con il ricorso per cassazione, rimedio previsto solo per l’ipotesi contemplata dal D.P.R. citato, art. 113 (Cass., n. 29228/17; Cass., n. 3028/18; Cass., n. 32028/18).

Le spese seguono la soccombenza. Dato che il procedimento riguarda soggetto minorenne, non s’applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 2100,00 oltre alla maggiorazione del 15% per rimborso forfettario delle spese generali.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2019

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