Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.25369 del 09/10/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16954-2014 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. società di cartolarizzazione dei crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati LELIO MARITATO, ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, GIUSEPPE MATANO e EMANUELE DE ROSE;

– ricorrenti –

contro

D.N.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO VITOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato CARLO CORSINOVI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 697/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 19/06/2013, R.G.N. 467/2012.

RILEVATO

che, con sentenza del 19 giugno 2013, la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Firenze, accoglieva l’opposizione proposta da D.N.R. nei confronti dell’INPS, in proprio e quale procuratore speciale della Società di Cartolarizzazione dei Crediti INPS – S.C.C.I. S.p.A. avverso le cartelle esattoriali con le quali le era stato richiesto il versamento dei contributi alla gestione commercianti presso l’INPS per gli anni dal 2005 al 2010 nella sua qualità di socia della “Argenteria D.N. di D.N.G. & C.” s.n.c. con sede in *****;

che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto/insussistente la pretesa azionata dall’INPS in relazione all’accertata circostanza, non smentita dall’Istituto medesimo, per cui la Società, cessata l’attività nel *****, era rimasta iscritta alla Camera di Commercio al solo fine di gestire la locazione dell’immobile in proprietà onde trarne il necessario per estinguere il mutuo che sullo stesso gravava, circostanza idonea ad escludere il carattere commerciale della Società, non derivando questo, come ritenuto dal Tribunale, dal suo essere formalmente costituita in società in nome collettivo, ma dall’attività svolta, nella specie limitata, nel periodo successivo alta totale dismissione della sua propria produzione, alla mera gestione della locazione dell’immobile in proprietà, senza ulteriori servizi gestionali o amministrativi, e, dunque, come mero riflesso del proprio diritto di godimento del bene medesimo;

che per la cassazione di tale decisione ricorre l’INPS, affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui resiste, con controricorso, la D.N.;

che l’Istituto ricorrente ha poi presentato memoria.

CONSIDERATO

che, con l’unico motivo, l’Istituto ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 202, 203 e 208, lamenta l’incongruità logica e giuridica del convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine alla natura non commerciale dell’attività di gestione immobiliare consistente nella locazione di immobili in proprietà, svolta, con sistematicità ed abitualità, in forma di impresa;

che il motivo deve ritenersi infondato alla luce dell’orientamento accolto da questa Corte (cfr., da ultimo, Cass., sez. VI, ord. 24.5.2018, n. 12981) per cui, laddove l’attività della società sia limitata alla mera riscossione dei canoni di un immobile dato in locazione a terzi, risolvendosi perciò in una mera comunione di godimento dei canoni medesimi, quell’attività non può qualificarsi come commerciale, derivandone l’insussistenza di uno dei presupposti, in relazione ai quali l’onere probatorio è a carico dell’INPS, cui la legge ricollega l’obbligo di iscrizione e il versamento della contribuzione alla gestione commercianti che, pertanto, il ricorso va rigettato, con liquidazione delle spese in base alla soccombenza nei termini di cui al dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 26 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2019

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