LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna – rel. Consigliere –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18294/018 proposto da:
H.U., rappresentato e difeso dall’avvocato Elena Petracca del foro di Rovigo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno;
– intimato –
averso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, n. 1152 depositata l’8/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 13/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA GIOVANNA SAMBITO.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza dell’8.5.2018, la Corte d’Appello di Venezia ha confermato il rigetto delle istanze volte al riconoscimento della protezione internazionale, avanzate da H.U., cittadino del Pakistan, il quale aveva narrato di essere espatriato perchè doveva testimoniare unitamente al proprio padre nel processo per l’omicidio di un suo cugino contro l’assassino, il quale aveva poi ucciso il proprio padre e ferito un suo amico. La Corte riteneva il racconto non credibile, e comunque insussistenti i presupposti per le tutele richieste. Lo straniero ha proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di tre motivi. L’Amministrazione non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 ed D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, per non avere la Corte adottato criteri suppletivi nella valutazione delle dichiarazioni rese e per non avere applicato il principio dell’onere della prova attenuato. Il ricorrente lamenta il difetto di istruttoria, l’insufficienza della motivazione, e l’omessa verifica circa la situazione generale del Paese di origine.
2. Col secondo motivo, si deduce la violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) b) e c) e della L n. 241 del 1990, art. 3. La Corte, lamenta il ricorrente, non ha riconosciuto i presupposti di alcuna forma di protezione, prescindendo dalla situazione politica del Paese di provenienza e dalle difficoltà da parte dei cittadini di ottenere protezione contro i soprusi dei gruppi criminali, che, profittando delle criticità e tensioni che interessano il Paese, vivono indisturbati facendosi giustizia da sè, col rischio di danno grave. Inoltre, prosegue il ricorrente, la situazione del Punjab pakistano è connotata da forti criticità, secondo quanto documentato da reports internazionali, che danno conto di attentati terroristici, uccisioni mirate e rapine, e dunque di un quadro di insicurezza ed instabilità che lo Stato – incapace di fronteggiare la corruzione e di assicurare la regolarità dei processi ed i diritti civili – non è in grado di contrastare. La Corte ha omesso, ancora, di valutare la documentazione probatoria offerta o di motivarne l’irrilevanza.
3. I motivi vanno congiuntamente esaminati e rigettati.
A parte che il ricorrente confonde e sovrappone il momento della valutazione di credibilità soggettiva col dovere di cooperazione istruttoria, questa Corte deve rilevare che, in relazione alla massima protezione ed ai casi disciplinati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), di “condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte” o “tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente”, la valutazione di credibilità soggettiva costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento: le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono, infatti, alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018), salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri. Rilevato, poi, che il ricorrente neppure indica i documenti che sarebbero stati erroneamente non considerati, va osservato che la Corte è pervenuta ad un giudizio di non credibilità soggettiva evidenziando le intrinseche incongruenze e le contraddittorietà del racconto, e la relativa indagine implica un giudizio di fatto che non può essere ulteriormente valutato in questa sede di legittimità.
4. Ancorchè, poi, il racconto dello straniero – incentrato sulla testimonianza che avrebbe dovuto rendere – non faccia alcun cenno alle ipotesi di cui alla lett. c) del menzionato art. 14, va rilevato che la Corte, pur ponendo l’accento sulla non credibilità del richiedente, ha dato ugualmente conto, in ottemperanza al disposto di cui all’invocato del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, che le COI aggiornate includevano la provincia di Gujrat, di provenienza del ricorrente, “fra quelle interessate da tensioni a sfondo religioso”; il quadro accertato, pure considerato il clima di insicurezza sociale e precarietà, non può, tuttavia, esser sussunto in quella situazione di violenza generalizzata in conflitto armato interno o internazionale, di intensità tale che un civile, per il solo fatto di trovarsi in quel Paese o in quella zona, corra il rischio di un danno grave, situazione che, al lume dei principi affermati dalla Corte di Giustizia UE (17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07 e 30 gennaio 2014, Diakitè, C-285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018), può dar luogo alla tutela richiesta.
5. L’enunciazione tra le disposizioni violate della L. n. 241 del 1990, art. 3, che il ricorrente formula, anche, nel successivo motivo, integra una censura inammissibile: la disposizione invocata, che pone l’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo, esula totalmente dall’ambito delle questioni dibattute nel presente e terzo motivo, nè la doglianza risulta in alcun modo esplicata o svolta.
5. Con il terzo motivo, si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e della L. n. 241 del 1990, art. 3, per non avere la Corte territoriale riconosciuto i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, evidenziando che al concetto di vulnerabilità si deve dare un’interpretazione estensiva e che si tratta di una misura residuale.
6. Il motivo è infondato. Il ricorrente omette del tutto di indicare sue specifiche ragioni di vulnerabilità, condizione, che deve riguardare la persona del singolo richiedente e non anche la condizione generale del Paese di origine, senza dire che il difetto di credibilità soggettiva si riflette, negativamente, anche, in relazione al titolo di soggiorno in esame.
7. Deve, da ultimo, rilevarsi che il richiedente non spiega quale connessione vi sia tra il transito dalla Libia ed il contenuto della propria domanda di protezione nè se abbia esposto alcunchè al riguardo in sede di merito, il che rende quella parte di vicenda effettivamente irrilevante.
8. Non va provveduto sulle spese, data la mancata costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
Così deciso in Roma, il 13 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019