Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.26141 del 16/10/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. TINARELLI FUOCHI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO Maria Giulia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso iscritto al numero 3032 del ruolo generale dell’anno 2015, proposto da:

Garindo s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore e Smeraldo Verde s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difese, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avv.to Porru Daniele, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv.to Ruggieri Francesco, in Roma, Via Paolo Emilio n. 34;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di cassazione, n. 15661/2014, depositata in data 9 luglio 2014, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5 aprile 2019 dal Relatore Cons. Putaturo Donati Viscido Maria Giulia di Nocera;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Pedicini Ettore che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. La Garindo s.r.l. e la Smeraldo Verde s.r.l., entrambe consociate di un gruppo imprese avente come capofila la GUNAD s.r.l., impugnarono, con separati ricorsi, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma le rispettive cartelle di pagamento (la prima la n. ***** e la seconda la n. *****) con le quali l’Agenzia delle entrate aveva, per quanto di ragione, iscritto a ruolo il debito Iva (1997) risultante dalla liquidazione di gruppo facente capo alla società controllante. La CTP di Roma, con sentenze n. 160/47/2004 e n. 60/05/2005, accolse i ricorsi.

1.2.Avverso le sentenze di primo grado, l’Agenzia delle entrate propose separati appelli dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che, previa riunione dei ricorsi, con sentenza n. 128/35/2007, depositata in data 6 aprile 2008, li accolse parzialmente, confermando la legittimità di quanto preteso nelle impugnate cartelle per l’imposta principale, con esclusione delle sanzioni.

1.3. Avverso la sentenza di secondo grado, le società contribuenti proposero ricorso per cassazione che, con sentenza n. 15661 del 2014, depositata in data 9 luglio 2014, lo rigettò.

1.4. Avverso la richiamata sentenza della Corte di cassazione, la contribuente propone ricorso per revocazione affidato a un motivo, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Con l’unico motivo di ricorso, Garindo s.r.l. denuncia l’errore revocatorio, ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, da parte di questa Corte nella sentenza n. 15661 del 2014 laddove, nel rigettare il quarto motivo di ricorso, aveva escluso, al punto 4.1. della detta pronuncia, la configurabilità nel giudizio di appello del litisconsorzio necessario del concessionario della riscossione, pur avendo quest’ultimo partecipato regolarmente al giudizio di primo grado, sulla base dell’errato presupposto che l’impugnazione della cartella di pagamento avesse avuto ad oggetto solo vizi riguardanti la sfera di competenza dell’Agenzia delle entrate (la tardività della notifica della cartella) mentre, al successivo punto 4.2., aveva dato atto che tale impugnazione riguardava anche vizi propri di questa (quale l’omessa indicazione dell’autorità presso cui potere promuovere il riesame in sede di autotutela), di competenza esclusiva del concessionario della riscossione.

2. Va premesso che la Corte al punto 4.2. della sentenza n. 15661 del 2014 ha affermato che ” (…) quella censurata non è tanto l’attività propria del concessionario, quanto la correttezza dell’amministrazione attiva del fisco nel definire i modelli ai quali i concessionari si devono attenere.”.

3. La complessiva censura così proposta si rivela, comunque, inammissibile.

4. In essa, infatti, vengono del tutto trascurati o male intesi i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’ipotesi di revocazione di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c..

Invero tale ipotesi sussiste se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita.

Secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’istanza di revocazione implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (cfr, ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 4413 del 2016; Cass. civ. sentt. nn. 13915 del 2005 e 2425 del 2006, v. anche Cass. civ. SS.UU. sent. n. 9882 del 2001).

La Corte ha, quindi, evidenziato che “in generale l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa” (tra le ultime v. Cass. n. 14656 del 2017).

In tema di revocazione delle sentenze della Cassazione, si è inoltre precisato che “Non sussiste pertanto il suddetto errore di fatto nell’ipotesi in cui esso riguardi norme giuridiche atteso che, mentre l’art. 395 c.p.c., n. 4, concerne l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, la falsa percezione di norme che contemplino la rilevanza giuridica di quegli stessi fatti integra gli estremi dell’error juris sia nel caso di obliterazione delle norme medesime (riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione), sia nel caso di distorsione della loro effettiva portata (riconducibile all’ipotesi della violazione)” (Cass., sez. L, Ord., 10/06/2009, n. 13367; Cass., sez. 6 – 5, Ord, 29/12/2011 n. 29922; v. nello stesso senso, con riguardo al giudicato, Cass. sez. 3 -, 05/05/2017 n. 10930; Cass., sez. 6 – 5, Ord. 13/01/2015 n. 321).

Ne consegue l’enunciazione del seguente principio di diritto: “L’errore di fatto, quale motivo di revocazione della sentenza, non sussiste allorchè la parte abbia denunciato l’erronea presupposizione dell’inesistenza di un litisconsorzio necessario, poichè la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di fatto, ma attiene all’interpretazione delle norme giuridiche”.

Ciò posto, con l’unico motivo di gravame è denunciato un errore di fatto ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4), risultante dalla stessa sentenza impugnata, assumendosi che in essa questa Corte avrebbe commesso l’errore precettivo nell’escludere la configurabilità nel giudizio di appello del litisconsorzio necessario laddove i vizi della cartella denunciati riguardavano non solo la sfera di competenza dell’Agenzia ma anche quella esclusiva del concessionario della riscossione. Da un lato, dunque, inammissibilmente il vizio revocatorio emergerebbe dalla stessa sentenza impugnata e non già dagli atti e documenti processuali, e dall’altro, riguarderebbe la violazione di norme giuridiche processuali.

5. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

6. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna Garindo s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, e Smeraldo Verde s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Cosi deciso in Roma, il 5 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2019

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