LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –
Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. D’OVIDIO Paola – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23395-2C15 proposto da:
L.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEL CORSO 160, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRINI RAFFAELLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SIGNINI CLAUDIO;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI VESPOLATE, elettivamente domiciliato in ROMA VIA TACITO 23, presso lo studio dell’avvocato DE MICHELI CINZIA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato POLLASTRO PIERO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 660/2015 della COMM. TRIB. REG. di TORINO, depositata il 17/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/2019 dal Consigliere Dott. D’OVIDIO PAOLA.
RILEVATO
Che:
1. Con ricorso proposto alla Commissione tributaria provinciale di Novara, L.G. impugnava una cartella esattoriale iscritta a ruolo dal Comune di Vespolate a titolo di TARSU per gli anni 2010 e 2011, di complessivi Euro 678,88, in relazione ad un immobile sito nel territorio comunale, in via *****, del quale il contribuente è proprietario non residente.
Il ricorrente eccepiva in via preliminare l’illegittimità costituzionale della normativa di riferimento; in subordine chiedeva l’annullamento della cartella esattoriale per intervenuta decadenza dell’iscrizione a ruolo e, in ulteriore subordine, chiedeva l’annullamento della medesima cartella per non essere stato posto nelle condizioni (quale non residente nel Comune) di poter usufruire del servizio (in quanto organizzato dal Comune con la regola del “porta a porta” secondo giorni prestabiliti per i diversi tipi di rifiuti), previa disapplicazione del regolamento comunale di Vespolate perchè ritenuto contrario alla legge nella parte in cui prevedeva una riduzione solo del 10% per coloro che usufruivano di abitazioni tenute a disposizione per uso stagionale o discontinuo.
Il Comune di Vespolate si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso.
2. Con sentenza n. 62/3/14 la Commissione tributaria provinciale adita, in parziale accoglimento del ricorso, annullava l’iscrizione a ruolo inerente l’anno 2010 per intervenuta decadenza, respingendo le ulteriori domande.
3. Avverso tale pronuncia proponeva appello il contribuente ribadendo le proprie contestazioni ed evidenziando che l’Ufficio tecnico del Comune di Vespolate, nonostante le sue richieste, non gli aveva fornito indicazioni su come comportarsi per poter usufruire del servizio. Il Comune appellato presentava controdeduzioni.
4. Con sentenza n. 660/36/15, pronunciata il 12 maggio 2015 e depositata il 17 giugno 2015, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale di Torino respingeva l’appello condannando l’appellante al pagamento delle spese processuali.
5. Avverso tale sentenza il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso il Comune di Vespolate. Il ricorrente ha depositato a sua volta memoria di replica.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la “violazione delle Tabelle Parametri Forensi allegate al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, emanato in attuazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6, della sulla professione forense – art. 360 c.p.c., n. 3”.
Il ricorrente, nel censurare la condanna disposta dalla sentenza impugnata al pagamento delle spese processuali, afferma in primo luogo che nella specie vi erano “abbondanti ragioni” per pervenire ad una compensazione delle spese di lite, atteso che le motivazioni addotte con il primo motivo di appello non erano manifestamente infondate, che avrebbe dovuto essere considerato anche il comportamento complessivo tenuto dal Comune (in particolare per non aver mantenuto la promessa di ricercare una modalità di smaltimento dei rifiuti che consentisse al ricorrente di conferire l’umido prodotto nel fine settimana senza dover tornare a Vespolate a metà settimana) e che le questioni trattate presentavano profili di assoluta novità.
L’illustrazione del motivo prosegue quindi evidenziando la violazione dei massimi tariffari, atteso che, a fronte di un valore iniziale della causa di Euro 678,88 (importo della cartella impugnata), poi ridotto ad Euro 404,00 in appello, erano state liquidate Euro 1.500,00, mentre nella specie l’importo massimo liquidabile doveva quantificarsi in Euro 370,00, tenendo conto che: – la disposizione che prevede l’aumento sino ad un terzo non sarebbe applicabile nella fattispecie, non essendo presente nella sentenza impugnata alcuna motivazione in ordine alla circostanza che le difese del Comune erano manifestamente fondate, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55l, art. 4, comma 8 – nella specie non era dovuto il compenso per la fase cautelare nè quello per la fase decisoria, non essendo state svolte tali fasi. L’importo massimo liquidabile era dunque pari ad Euro 370,00 (Euro 170,00 per studio, Euro 100,00 per la fase introduttiva ed Euro 100,00 per la fase istruttoria).
1.1. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
E’ inammissibile il profilo con il quale il ricorrente lamenta il mancato esercizio del potere di compensazione delle spese processuali da parte della CTR in ragione della asserita sussistenza di “abbondanti ragioni” in tal senso (doglianza peraltro esplicitata solo nell’illustrazione del motivo e non nella sua intitolazione), atteso che, come da consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (Cass., sez. 5, 31/03/2017, n. 8421, Rv. 643477 – 02; Cass., sez. 6-3, 17/10/2017, n. 24502, Rv. 646335 – 01).
Il motivo è invece infondato in relazione alla dedotta violazione del D.M. n. 55 del 2014 per l’asserito superamento dei massimi tariffari.
In proposito, va premesso che deve aversi riguardo al primo scaglione previsto dalla tabella richiamata, relativo alle cause di valore sino ad Euro. 1.100,00, sicchè risulta irrilevante la avvenuta riduzione del valore della causa tra il primo ed il secondo grado di giudizio (da Euro. 678,88 ad Euro 404,00), pur evidenziata dal ricorrente, atteso che essa non ha in ogni caso modificato lo scaglione di riferimento.
Deve inoltre considerarsi che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, nella specie risulta dovuto anche il compenso per la fase decisoria, avendo il Comune di Vespolate allegato e dimostrato di aver depositato le memorie D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32, comma 3 e art. 62 (v. allegato n. 2 al controricorso), delle quali peraltro dà atto anche la sentenza impugnata.
Per l’attività svolta risulta pertanto liquidabile l’importo di Euro 540,00, quale totale risultante calcolando i valori medi delle tabelle allegate al D.M. citato in relazione alle fasi compiute (pari ad Euro 170 per la fase di studio, + Euro. 100 per la fase introduttiva + Euro 100, per la fase istruttoria + Euro. 170 per la fase decisionale); tale importo, inoltre, può essere aumentato, in applicazione dei parametri generali, sino all’80 per cento per le fasi di studio, introduttiva e decisoria, mentre, per la fase istruttoria, l’aumento è di regola fino al 100 per cento, come previsto dal D.M. n. 55 del 2014, art. 4, comma 1.
Ciò comporta un possibile aumento sino ad Euro 992,00 (Euro 306,00+ Euro 180,00 + Euro 200,00 + Euro 306,00), a sua volta incrementabile sino ad un terzo, ai sensi dello stesso art. 4, comma 8 cit., e così sino ad Euro 1.322,00 ((Euro 408 + Euro 240 + Euro 266 + Euro 408).
L’applicazione di tali aumenti rientra nella valutazione discrezionale del giudice, insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui al vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (non denunciato nel caso in esame); peraltro, per gli aumenti previsti dal D.M. cit. neppure è richiesta apposita e specifica motivazione, la quale è invece necessaria solo nella diversa ipotesi in cui il giudice eserciti la facoltà di scendere al di sotto o salire al di sopra dei limiti risultanti dall’applicazione delle massime percentuali di scostamento rimesse dalla norma alla sua discrezionalità (Cass., sez. 6-2, 14/05/2018, n. 11601, Rv. 648532 – 01).
Ai sensi del cit. D.M., art. 8, comma 2, inoltre, era dovuta anche una somma per rimborso spese forfettarie, quantificate di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, risultando così un importo complessivo di Euro 1.520,00 (pari al 15% di Euro 1.322,00).
In conclusione, l’importo complessivo liquidato dalla CTR in Euro 1.500,00 risulta contenuto nei limiti massimi tariffari, e ciò anche senza tener conto dell’ulteriore compenso dovuto per l’attività del procuratore domiciliatario, pure evidenziata dal controricorrente. Ne deriva l’infondatezza della doglianza sul punto alla luce dei principi sopra richiamati.
2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la “violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59. Violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 (Statuto dei diritti del contribuente)”.
Il ricorrente, premesso che nel Comune di Vespolate è stato istituito il servizio “porta a porta”, con eliminazione di tutti i cassonetti e la previsione di una raccolta differenziata per giorni in relazione al tipo di rifiuto (organico, secco, plastica, ecc.), si duole di non poter utilizzare il servizio in quanto, fruendo dell’immobile in questione solo nei fini settimana, non può lasciare in strada tutti i sacchi di rifiuti previsti per la settimana (in particolare dell’umido, la cui raccolta è calendarizzata il mercoledì ed il sabato).
Precisa inoltre di aver ripetutamente chiesto al Comune i suggerimenti del caso, ricevendo risposta solo dopo tre anni con una proposta inadeguata e non collaborativa, in quanto invitava il ricorrente a servirsi del Centro di Conferimento, che tuttavia è chiuso sia la domenica che il lunedì, e d’inverno anche il martedì.
Richiama poi la previsione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, nella parte in cui fa obbligo ai Comuni di stabilire nel regolamento le distanze massime di collocazione dei contenitori nonchè le relative capacità minime: tale disciplina era stata in effetti inserita nel regolamento del Comune di Vespolate che, all’art. 2, prevedeva un tributo ridotto al 40% se il servizio di raccolta non viene svolto o è effettuato in grave violazione delle prescrizioni del medesimo regolamento in tema di distanze e capacità dei contenitori; era altresì previsto che nelle zone interne al centro abitato in cui il servizio fosse limitato a determinati periodi stagionali, l’importo dovuto per i periodi di mancato servizio era fissato nel 40% se il più vicino punto di raccolta non superava i 500 metri, e nel 20% se superava tale distanza.
Tale articolata disciplina, ricorda ancora il ricorrente, è stata tuttavia eliminata dal successivo art. 2 del regolamento comunale del 2004, a causa del fatto che nel frattempo era stato istituito il servizio “porta a porta”, con eliminazione di tutti i cassonetti.
Per tali motivi il ricorrente, non avendo il Comune trovato soluzioni alternative, ritiene di non dover pagare neppure in parte la tassa in questione.
In via subordinata, invoca l’applicazione analogica del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, commi 2 e 3, a mente del quale, quando l’immobile è situato fuori della zona perimetria di raccolta in cui sono collocati i cassonetti, gli utenti sono comunque tenuti ad utilizzare il servizio provvedendo al conferimento dei rifiuti urbani interni ed equiparati nei contenitori viciniori, ma la tassa è dovuta in misura non superiore al 40%, da determinare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita.
2.1. Il motivo è infondato e, quanto alla subordinata, inammissibile.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato, ancorchè con riferimento al servizio di smaltimento rifiuti organizzato con la dislocazione di cassonetti sul territorio, che, sulla base del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, artt. 62 e 64, i Comuni devono istituire una apposita tassa annuale su base tariffaria che viene a gravare su chiunque occupi o conduca i locali, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui i servizi sono istituiti e che tale tassa “è dovuta indipendentemente dal fatto che l’utente utilizzi il servizio”, salva l’autorizzazione dell’ente impositore allo smaltimento dei rifiuti secondo altre modalità, “purchè il servizio sia istituito e sussista la possibilità della utilizzazione; ciò, peraltro, non significa che, per ogni esercizio di imposizione annuale, la tassa è dovuta solo se il servizio sia stato esercitato dall’ente impositore in modo regolare, così da consentire al singolo utente di usufruirne pienamente” (Cass. sez. 6-5, 24/07/2013, n. 18022, Rv. 628088 – 01; conf. Cass. sez. 5, 26/01/2018, n. 1963, Rv. 646899 – 01).
Ciò in quanto l’irregolare o insufficiente svolgimento del servizio nella zona in cui è ubicato l’immobile non comporta l’esenzione ma solo la riduzione tariffaria D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, ex art. 59, atteso che tale tassa è dovuta purchè il servizio sia stato istituito, a prescindere dal suo corretto funzionamento e dalla sua utilizzazione da parte dell’utente (Cass., sez. 6-5, 13/07/2015, n. 14541, Rv. 635868 – 01).
Ed è stato ulteriormente precisato dalla giurisprudenza di legittimità che, ove il Comune abbia istituito e attivato il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti nella zona nella quale si trova l’immobile del contribuente e quest’ultimo, tuttavia, abbia provveduto a gestire direttamente gli stessi, indipendentemente dalle ragioni per le quali ciò sia avvenuto, la tassa è egualmente dovuta – essendo finalizzata a consentire all’amministrazione locale di soddisfare le esigenze generali della collettività e non di fornire, secondo una logica commutativa, prestazioni riferibili a singoli utenti – ma in misura ridotta ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, comma 4 (Cass. sez. 5, 11/05/2018, n. 11451, Rv. 648509 – 01).
La debenza del tributo di cui si discorre, secondo la disciplina di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, sussiste dunque ogni qualvolta ricorra il presupposto oggettivo dell’avvenuta istituzione del servizio di raccolta dei rifiuti, ed anche nel caso in cui tale servizio sia stato oggettivamente svolto in modo irregolare ed insufficiente, restando irrilevante il dato soggettivo della mancata utilizzazione da parte dell’utente.
Tali principi, che per la loro portata generale possono trovare applicazione anche con riferimento al servizio svolto “porta a porta”, sono stati correttamente applicati dalla sentenza impugnata, che ha respinto la domanda di annullamento della cartella esattoriale di cui è causa affermando che le ragioni addotte dal ricorrente – fondate sulla circostanza che la modalità di raccolta “porta a porta”, ripartita nei diversi giorni della settimana, con onere dell’utente di porre i rifiuti fronte strada nel giorno della raccolta prevista per ciascuna tipologia di rifiuti, escludevano di fatto la possibilità per lo stesso ricorrente di usufruire di gran parte del servizio – “sono del tutto soggettive e non sono considerate tali da escludere la tassabilità… la effettiva obiettiva generalizzata prestazione del servizio a favore della comunità rende irrilevante ogni scelta volontaria o soggettiva condizione di non concreta utilizzazione dello stesso da parte del singolo contribuente …”.
Con riferimento alla richiesta, formulata in via subordinata nell’illustrazione del motivo di ricorso in esame, di riduzione della tassa al 40% applicando in via analogica il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, commi 2 e 4, va dichiarata l’inammissibilità di tale richiesta atteso, da un lato, che la stessa non si rapporta alla sentenza impugnata, non spiegando in alcun modo in quale parte e con quali affermazioni la CTR avrebbe violato le norme invocate, e, dall’altro, che essa risulta costituire domanda nuova, come eccepito dal Comune controricorrente e come può desumersi sia dalla sentenza impugnata (che non dà alcun conto della proposizione di una tale domanda) che dalla narrativa in fatto svolta nello stesso ricorso, là dove si afferma che la domanda proposta in via ulteriormente subordinata atteneva (solo) alla “non debenza della tassa in quanto il Comune di Vespolate non aveva messo il ricorrente nella condizione di poter fruire del servizio” (p. 2 del ricorso).
Peraltro, la pretesa risulta anche infondata nel merito, considerato che le norme invocate, in quanto volte a derogare alla regola generale di debenza del tributo, sono di stretta interpretazione e non suscettibili di applicazione analogica, e che la riduzione ivi prevista si fonda esclusivamente su presupposti oggettivi, quali la omessa attivazione della raccolta in determinate zone (art. 59, comma 2, cit.) oppure il mancato svolgimento del servizio, sebbene istituito ed attivato, nella zona di residenza o di dimora nell’immobile a disposizione ovvero di esercizio dell’attività dell’utente o, ancora, il suo espletamento in grave violazione delle prescrizioni del regolamento di cui al comma 1, relative alle distanze e capacità dei contenitori ed alla frequenza della raccolta, (art. 59, comma 4, cit.).
La situazione dell’utente che non sia anche residente, attiene invece ad una situazione meramente soggettiva, peraltro nella specie espressamente contemplata dal regolamento comunale, che prevede per tali casi una riduzione del 10% della tassa.
Inammissibile, infine, è la censura relativa alla dedotta violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, che si assume derivare dal comportamento del Comune per aver effettuato, dopo anni dalla relativa richiesta, una proposta inadeguata e non collaborativa, invitando il ricorrente a servirsi del Centro di Conferimento, che tuttavia è chiuso sia la domenica che il lunedì, e d’inverno anche il martedì.
In primo luogo, infatti, il ricorrente non correla la censura alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata, nè precisa in quale atto processuale ed in che termini avesse svolto la relativa domanda. Inoltre, va rilevato che la proposta del Comune, della quale si lamenta la contrarietà ai principi della collaborazione e della buona fede di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 1, era contenuta in una lettera del 20.5.2014, come riferito dallo stesso ricorrente, sicchè tale questione risulta irrilevante ai fini della debenza del tributo del 2011 di cui si discorre in questa sede, nè risulta che il ricorrente abbia proposto anche una autonoma domanda volta all’accertamento della illegittimità del comportamento dell’Ente, circostanza peraltro contestata dal controricorrente e, comunque, neppure dedotta in ricorso.
3. Con il terzo motivo di ricorso viene dedotto il vizio di “omesso esame di/ totale 117C111C(1111 di motivazione circa/ documenti decisivi e capaci di ribaltare la decisione; violazione dell’art. 115 c.p.c. – art. 360 c.p.c., n. 3”.
Il ricorrente lamenta che la CTR non avrebbe tenuto conto della raccomandata del 20/5/2014, con la quale il Comune di Vespolate gli aveva offerto di smaltire l’umido presso il Centro di Conferimento, negli orari di apertura. A prescindere dalla bontà dell’offerta, secondo il ricorrente tale lettera implicitamente ammetteva che la tassa non era dovuta per tutte le annualità pregresse, in quanto riconosceva l’esistenza degli ostacoli al godimento dell’intero servizio, e, pertanto, unitamente alla risposta dello stesso ricorrente inviata il 16/4/2015, “trattavasi di documenti capaci di risolvere il giudizio”.
3.1. Il motivo è inammissibile.
L’articolazione del motivo è confusa e sovrappone diverse tipologie di vizi denunciabili con ricorso per cassazione, in quanto, da un lato viene richiamata la violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento all’art. 115 c.p.c., dall’altro si denuncia un omesso esame (che evoca il diverso vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5), ovvero una totale mancanza di motivazione (riconducibile al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4).
Già tale modalità di formulazione determina l’inammissibilità del motivo in applicazione del principio secondo il quale “è inammissibile la mescolan. za e la sovrapposkione di mefzzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizi di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle alle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contradizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al line di decidere successivamente su di esse” (Cass., sez. 1, 23/10/2018, n. 26874, Rv. 651324 – 01).
L’inammissibilità sussiste, in ogni caso anche ove fosse possibile esaminare singolarmente le diverse fattispecie di vizio desumibili dal motivo.
Deve infatti trovare applicazione il principio, cui il Collegio intende dare continuità, secondo il quale, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ancorchè i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4: tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. (Cass., sez. 3, 12/10/2017 n. 23940, Rv. 645828 – 01; Cass., sez. 6-3, 25/09/2018, n. 22598, Rv. 650880 – 01).
Con particolare riferimento alla lamentata totale mancanza di motivazione – che, come rilevato, si traduce in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dà luogo a nullità della sentenza (cfr., tra molte, Cass., sez. 6-3, 25/09/2018, n. 22598, Rv. 650880 – 01; Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940, Rv. 645828 – 01) – va ulteriormente osservato che il ricorrente sembra aver sussunto tale vizio nelle fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, anzichè in quella di cui al n. 4 del medesimo articolo, senza fare alcun riferimento alle conseguenze (nullità del procedimento e della sentenza) derivanti dall’errore sulla legge processuale. Ne deriva l’inammissibilità della censura, dovendo trovare applicazione il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui in questa ipotesi, pur non essendo indispensabile la formale ed esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, è peraltro necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dal vizio denunciato, dovendosi reputare inammissibile il gravame che si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. U, 24/07/2013, n. 17931, Rv. 627268 – 01; v. anche Cass. 17/09/2013, n. 21165, Rv. 628248 – 01, e, più recentemente, Cass. 28/09/2015, n. 19124; Cass., sez. 2, 07/05/2018, n. 10862, Rv. 648018 – 01).
Ove, invece la censura debba intendersi prospettata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, applicabile Tallone temporiJ), va osservato che tale vizio attiene all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., sez. 2, 29/10/2018, n. 27415, Rv. 651028 – 01).
Nella specie, il fatto il cui esame è stato omesso (corrispondenza intercorsa con raccomandate del 20.5.2014 e del 16.4.2015) è intervenuto in corso di causa, addirittura dopo il deposito dell’atto di appello (come riferisce lo stesso ricorrente a p. 25 del ricorso), sicchè esso non è stato verosimilmente oggetto di discussione tra le parti, nè del resto il ricorrente precisa, come era suo onere, quando ed in che termini ciò sia avvenuto.
Parimenti è inammissibile la censura formulata in riferimento all’art. 115 c.p.c., atteso che la stessa (così come quella dell’art. 116 c.p.c.) non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali ed è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 2, 30/11/2016, n. 24434, Rv. 642202 – 01; Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940, Rv. 645828 – 02), nella specie non proposto o, comunque inammissibilmente proposto per i motivi di cui sopra.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
Poichè il presente ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-qualer, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
PQM
La Corte:
– rigetta il ricorso;
– condanna il ricorrente a pagare alla controparte le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro. 918,00 per compensi, oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, dalla 5 sezione civile della Corte di cassazione, il 18 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2019