LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1890-2015 proposto da:
S.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 22, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO FUSILLO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P.A.M., elettivamente domiciliata in TIVOLI, VIA 2 GIUGNO 18, presso lo studio dell’avvocato TULLIO ORATI, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6005/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 01/10/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/06/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato ALESSANDRO FUSILLO.
FATTI DI CAUSA
1. P.A.M. convenne dinanzi al Tribunale di Roma S.S. e C.G., esponendo:
-) di essere erede di P.A.;
-) che P.A. da un lato, S.S. e C.G. dall’altro, stipularono un contratto di rendita vitalizia, in virtù del quale i secondi promisero alla prima, dietro cessione di un capitale di 150 milioni di Lire, la corresponsione di una rendita mensile di 500.000 Lire;
-) il contratto includeva una clausola risolutiva espressa, in virtù della quale il patto si sarebbe automaticamente risolto nel caso di mancato pagamento di tre ratei consecutivi di rendita;
-) i due vitalizianti si erano resi inadempienti nel pagamento dei suddetti ratei;
-) il 23 ottobre 2002 l’avvocato O.S., in nome e per conto di P.A., aveva manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa.
Sulla base dei fatti appena esposti, l’attrice chiese la condanna dei convenuti alla restituzione del capitale ovvero, in subordine, alla restituzione del capitale residuo, detratti i ratei già versati.
2. I convenuti si costituirono ed eccepirono di avere sempre adempiuto le proprie obbligazioni. Dedussero, in particolare, che dopo il ricovero in ospedale della persona vitaliziata, versarono i ratei di rendita su un libretto di deposito bancario intestato al nome della vitaliziata, e ciò fecero su espressa richiesta di quest’ultima.
3. Con sentenza 7 luglio 2008 n. 14730 il Tribunale di Roma rigettò la domanda, non ravvisando alcun inadempimento nella condotta dei convenuti, consistita nel versare i ratei di rendita dovuti alla persona vitaliziata su un libretto di deposito bancario a quest’ultima intestato.
4. La sentenza venne appellata dalla parte soccombente.
La Corte d’appello di Roma con sentenza 1 ottobre 2014 n. 6005 accolse il gravame, e condannò S.S. e C.G., in solido, a restituire ad P.A.M. la somma di Euro 77.468,50, oltre interessi legali dal settembre del 2000.
A fondamento della propria decisione la Corte d’appello ritenne che:
-) la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa era stata validamente manifestata dall’avvocato O.S. in nome e per conto di P.A., essendo il primo un rappresentante volontario della seconda;
-) l’obbligo di versare il rateo dovuto in virtù del contratto di vendita non poteva ritenersi adempiuto dai due convenuti, in quanto essi stessi avevano ammesso che il libretto di deposito sul quale versarono i ratei nell’ultimo periodo di vita della vitaliziata non era stato mai consegnato a quest’ultima.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da S.S. con ricorso fondato su due motivi.
Ha resistito con controricorso P.A.M., la quale ha domandato la condanna della ricorrente per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1350,1388,1392,1456,1704 e 1872 c.c..
Sostiene che il contratto di rendita vitalizia di cui s’è detto non poteva ritenersi risolto, poichè mai P.A. aveva validamente manifestato la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa.
A sostegno di questa affermazione, nell’illustrazione del motivo a ricorrete articola un sillogismo così riassumibile:
-) la procura, per essere valida, deve rivestire la stessa forma richiesta dalla legge per l’atto da compiersi a cura del rappresentante;
-) la manifestazione della volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa deve avvenire per iscritto;
-) di conseguenza anche la procura a manifestare la suddetta volontà doveva essere conferita per iscritto.
Ciò posto in iure, osserva la ricorrente in punto di fatto che l’avvocato O.S., quando comunicò ai vitalizianti la volontà di P.A. di avvalersi della clausola risolutiva espressa, non possedeva alcuna procura scritta, e dunque il suo atto era inefficace.
1.2. Il motivo è inammissibile, per due indipendenti ragioni.
La prima ragione è che la questione ella validità quoad formam della procura spesa dall’avv. O.S. per manifestare la volontà di P.A. è una questione nuova, come correttamente rilevato dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni.
Infatti dalla sentenza impugnata non risulta che tale questione fu decisa dal giudice d primo grado; nè risulta che essa sia stata introdotta in grado di appello come eccezione.
Nè la ricorrente, sulla quale incombeva il relativo onere, giusta la previsione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, ha indicato nel proprio ricorso in quale atto ed in quali termini la questione della sussistenza, in capo all’avv. O.S., di un effettivo potere rappresentativo, entrò a far parte del thema decidendum nei gradi di merito.
1.3. La seconda ragione di inammissibilità del motivo in esame è la sua irrilevanza.
Infatti, in conseguenza della morte di P.A., i diritti e le facoltà esistenti nel patrimonio di questa si sono trasferiti all’odierna controricorrente, P.A.M..
P.A.M., con la propria condotta processuale, sin dall’atto introduttivo del giudizio ha chiaramente manifestato la volontà di ratificare l’operato dell’avvocato O.S..
La ratifica, come noto, ha effetto retroattivo sanando il difetto di rappresentanza (Sez. 1, Sentenza n. 2403 del 08/02/2016, Rv. 638587 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2153 del 31/01/2014, Rv. 629565 01; Sez. 2, Sentenza n. 27399 del 28/12/2009, Rv. 610977 – 01).
Ne consegue che, anche ad ammettere che al momento in cui manifestò la volontà di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa l’avvocato O.S. non avesse un valido mandato, il suo operatò è stato comunque ratificato dall’odierna controricorrente.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 1208 c.c..
Sostiene che essa non poteva essere ritenuta inadempiente agli obblighi assunti col contratto di rendita vitalizia, perchè aveva versato le somme da essa dovute alla persona vitaliziata su un libretto bancario a disposizione di quest’ultima, libretto del quale la beneficiaria era perfettamente a conoscenza, avendone essa stessa richiesto l’apertura.
Secondo la ricorrente questa modalità per il pagamento dei ratei costituiva una offerta non formale ai sensi dell’art. 1208 c.c., e di conseguenza escludeva la loro mora debendi.
2.2. Il motivo è inammissibile.
Questa Corte ha già più volte affermato che l’offerta non formale, essendo un atto del processo di adempimento dell’obbligazione, deve essere fatta con il rispetto delle norme che disciplinano quest’ultimo. Essa, quindi, deve essere seria, tempestiva e completa; deve consistere nella effettiva introduzione dell’oggetto della prestazione dovuta nella sfera di disponibilità del creditore; deve essere compiuta nei luoghi indicati dall’art. 1182 c.c..
E la mancanza anche di una sola di tali caratteristiche impedisce che l’offerta non formale possa produrre i suoi effetti (così già la sentenza capostipite, ovvero Sez. 3, Sentenza n. 610 del 10/03/1970, Rv. 345746 – 01).
Da ciò si è tratta la conseguenza che, se oggetto della prestazione dovuta è una somma determinata di denaro, l’offerta non formale deve essere fatta nel luogo del domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza della obbligazione, secondo la regola posta dall’art. 1182 c.c., comma 3. Ciò vuol dire che è in tal luogo che il debitore deve porre nella disponibilità effettiva del creditore l’oggetto della prestazione dovuta, manifestando contestualmente al creditore medesimo la sua volontà di effettuare un pronto ed esatto adempimento.
Ne discende che non vale ad escludere la mora del debitore il solo fatto del deposito della somma dovuta in un libretto postale, se questo è trattenuto dal debitore presso di sè, nè venga comunicato al creditore l’avvenuto deposito (Sez. 3, Sentenza n. 13405 del – 01; Sez. 2, Sentenza n. 11878 del – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2283 del – 01; Sez. 3, Sentenza n. 971 del – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1770 del 26/03/1981, Rv. 412452 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1187 del 02/04/1975, Rv. 374625 – 01).
L’offerta non formale, se compiuta mediante deposito su un libretto postale o bancario, pertanto, potrà dirsi efficace soltanto se:
a) la somma depositata corrisponda esattamente a quella dovuta;
b) il libretto sia intestato al creditore;
c) il creditore venga informato dell’avvenuto deposito;
d) il libretto venga introdotto nella sfera di disponibilità del creditore, il che avviene sol quando il creditore possa aderire all’offerta senza ulteriori accordi ed ottenere la prestazione limitandosi semplicemente a riceverla (Sez. 3, Sentenza n. 15352 del 06/07/2006, Rv. 591558 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 02/03/2012, Rv. 622019 – 01).
2.3. Ciò posto in diritto, si rileva in punto di fatto che secondo quanto insindacabilmente accertato dalla Corte d’appello “il libretto (su cui venivano depositati i ratei) non fu mai consegnato alla beneficiaria” (così la sentenza, pagina 4, paragrafo 4.2).
A fronte di questo accertamento, la ricorrente ha dedotto nel proprio secondo motivo di ricorso che invece “l’oggetto integrale della prestazione dovuta è stato messo nella disponibilità del creditore” (così il ricorso, pagina 10, ultime due righe).
Il motivo in esame si sostanzia dunque nella contrapposizione d’una propria versione dei fatti a quella accertata dal giudice di merito, e sotto questo aspetto cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).
2.4. Nel corpo del proprio ricorso la ricorrente ha dedotto anche, in punto di fatto, che la materiale consegna del libretto ad P.A. non fu compiuta per due ragioni: sia perchè la vitaliziata, all’epoca in cui sorse la contestata mora dei vitalizianti, era moribonda e non compos sui; sia perchè fu ella stessa a chiedere all’odierna ricorrente di tenere il libretto di risparmio presso di sè, proprio al fine di evitare che se ne impossessasse la nipote ed odierna ricorrente, P.A.M..
Tali deduzioni, in teoria, avrebbero ben potuto escludere la mora debendi, giacchè mora non può esservi se il creditore stesso affida in custodia al debitore le somme dovutegli.
E tuttavia non è questa la sede per la deduzione delle suddette circostanze. Esse infatti, in quanto fatti impeditivi della pretesa attorea, andavano dedotte e dimostrate in sede di merito; nè risulta essere stata censurata in appello, e tanto meno in questa sede, l’eventuale inerzia del giudice di merito nel raccogliere le prove intese a dimostrare le suddette circostanze.
2.5. Con un fugace accenno, la ricorrente soggiunge che la versione dei fatti da essa fornita (secondo cui, per quanto detto, l’oggetto integrale della prestazione dovuta era stato messo nella disponibilità della creditrice) era incontestata tra le parti, e su essa si sarebbe formato il giudicato.
Se, con tale fuggevole passaggio, la ricorrente abbia inteso prospettare una autonoma censura, anch’essa sarebbe tuttavia inammissibile, poichè:
-) se la ricorrente avesse inteso lamentare la violazione del principio di non contestazione, il ricorso non trascrive, nè riassume, i termini in cui la suddetta circostanza venne contestata (o non contestata) dai convenuti nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado, ed è perciò inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6;
-) se la ricorrente avesse inteso lamentare la violazione del giudicato interno, il motivo è infondato, poichè in grado di appello P.A.M. impugnò la sentenza di primo grado proprio nella parte in cui aveva ritenuto adempiute, da parte dei convenuti, le proprie obbligazioni, e ciò bastava ad impedire la formazione del giudicato.
3. Le spese.
3.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.
3.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna S.S. alla rifusione in favore di P.A.M. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.800, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;
(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di S.S. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 3 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019