Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.26530 del 17/10/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4466-2018 proposto da:

C.M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA BODRITO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il provvedimento del TRIBUNALE di GENOVA, depositato il 02/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ORICCHIO ANTONIO.

RILEVATO

che:

è stata impugnata da C.M.M. il provvedimento del Tribunale di Genova di revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio in data 30/12/2017 relativo alla causa R.G. 2038/2010).

Il ricorso è fondato su due ordini di motivi.

Parte intimata non ha svolto attività difensiva.

Parte ricorrente ha inviato memoria.

CONSIDERATO

che:

1. – Deve, innanzitutto, rilevarsi che la succitata memoria risulta pervenuta in data 11 febbraio 2019 e, quindi, essendo fuori termine non può essere esaminata.

2. – Col primo motivo del ricorso si censura il vizio di violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 76 e 79, in punto di limiti reddituali ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

3. – Col secondo motivo del ricorso si deduce “la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 76 e 79 in punto di asserita condotta processuale defatigatoria” ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Con tale gravame si precisa, poi, di voler contestare, in particolare, un preteso errore motivazionale nella individuazione della causa legittimante la revoca.

4. – I motivi vanno trattati congiuntamente e non possono essere accolti.

In primo luogo deve rilevarsi che nulla viene decisivamente addotto dalla parte ricorrente al fine di confutare, in punto di diritto, l’esattezza della decisione gravata.

Al riguardo va ribadito il principio per cui ” in materia di procedimento civile, nel ricorso per cassazione, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, giusto il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena di inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni di diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse” (Cass. n. 1317/2004).

Tanto con la conseguenza che spetta alla parte ricorrente l’onere (nella fattispecie non adempiuto) di svolgere “specifiche argomentazioni intese a dimostrare come e perchè determinate affermazioni contenute nella sentenza gravata siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità” (Cass. n. 635/2015).

Quanto alla doglianza relativa alla parte motiva della decisione gravata in cui si contesta meramente il riferimento ad una “asserita condotta processuale defaticatoria” va rilevato che la parte ricorrente utilizza il parametro normativo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 al fine improprio di una contestazione tutta tesa ad un aspetto della parte motiva, peraltro neppure decisiva e nel contesto di una motivazione compiuta.

Quanto al resto, ovvero al secondo motivo di ricorso, va – poi- più specificamente ancora osservato quanto segue.

La revoca disposta del Tribunale genovese appare conforme a legge e risulta aver fatto corretta applicazione delle norme e dei principi applicabili nella materia.

In particolare il decisum del provvedimento gravato si fonda su una non oppugnabile, nè cointestata affermazione: “a seguito della vendita dell’immobile oggetto del giudizio di divisione, la convenuta (ovvero l’odierna ricorrente C.) ha percepito l’importo netto di Euro 98.366,60”.

Il gravato provvedimento ha fondatamente ritenuto che per effetto della percezione dell’importo di cui innanzi erano “venute meno le condizioni reddituali ” per l’ammissione al citato beneficio, riservato -come è noto- ai non abbienti e che andava, quindi, revocato.

L’accenno, pure contenuto in ricorso (e di cui prima si è detto), relativo alla condotta processuale della difesa della C. non assume carattere di decisività, essendo – viceversa- la ratio del provvedimento gravato incentrata sull’anzidetto venir meno della condizione di ammissibilità al gratuito patrocinio.

Sono, quindi, del tutto inammissibili le mere argomentazioni della parte ricorrente tendenti ad una rivalutazione della situazione di fatto reddituale di cui in ipotesi.

Al riguardo va affermato il principio per cui “in ogni caso non può ammettersi, anche attraverso la formale e strumentale deduzione di vizio di violazione di legge, una revisione in punto di fatto del giudizio di merito già svolto”, giacchè “il controllo di logicità del giudizio di fatto non può equivalere e risolversi nella revisione del “ragionamento decisorio” (Cass. civ., Sez. L., Sent. 14 no novembre 2013, n. 25608), specie quando non ricorre – come nella fattispecie- l’ipotesi di “un ragionamento del giudice di merito dal quale emerga una totale obliterazione di elementi” (Cass. civ., S.U., Sent. 25 ottobre 2013 n. 24148).

5. – Entrambi i motivi e il ricorso, nel suo complesso, sono, in definitiva, inammissibili.

6. – Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte:

dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 14 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2019

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