LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 32089/2018 proposto da:
N.P., elettivamente domiciliato in Roma Via Della Scrofa 59, Studio Tremonti, presso lo studio dell’avvocato Giovanni Piazza Spessa che lo rappresenta e difende in forza di procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno – Commissione Territoriale Riconoscimento Protezione Internazionale, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– resistente –
avverso la sentenza n. 3846/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 17/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/09/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso del D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, N.P., cittadino albanese, ha adito il Tribunale di Milano, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.
Il ricorrente ha riferito che nel 2007 uno dei suoi fratelli aveva ucciso un uomo nel corso di una lite; che le usanze tribali albanesi consentono di applicare la legge del taglione nei confronti dei maschi adulti del clan rivale; di essersi trasferito, per paura della minacciata rappresaglia da Lac a Durazzo, mentre i suoi fratelli erano andati a Tirana; di essere quindi partito nel 2014 per l’Italia.
Con ordinanza del 18/8/2017 il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso, ritenendo la non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.
2. L’appello proposto dal N. è stato rigettato dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 17/8/2018.
3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso N.P. con atto notificato il 19/10/2018, svolgendo due motivi.
L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con memoria ai soli fini della partecipazione ad eventuale udienza di discussione orale in data 7/1/2019.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 13,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e dell’art. 115 c.p.c..
1.1. Il ricorrente lamenta che la Corte di appello non abbia preso in considerazione le prove da lui addotte per dimostrare l’attualità del pericolo prospettato in caso di suo rientro in Albania (sentenza di condanna del tribunale distrettuale di Puke nei confronti di N.Y. per l’omicidio in data ***** di G.B.; dichiarazione del 20/3/2014 del capo villaggio di Mesul-Puke circa il conflitto fra le famiglie N. e G.; dichiarazione 8/3/2014 del Comitato di riconciliazione di Tirana).
La Corte, pur non negando credibilità al racconto e ammettendo che la situazione fosse astrattamente meritevole di protezione umanitaria, ha escluso l’attualità del pericolo, non considerando gli elementi probatori addotti che invece attestavano l’esistenza della faida ancora nel 2014 e le dichiarazioni del ricorrente circa la lungolatenza di tali vendette.
La Corte di appello inoltre non si era pronunciata sulla sua censura con cui aveva lamentato il mancato esercizio da parte del Giudice dei poteri officiosi al fine di ricevere elementi di riscontro circa la effettiva applicazione in Albania della c.d. “legge del Kanun”.
1.2. Il motivo è inammissibile perchè non pertinente e focalizzato sulla reale ratio decidendi della sentenza impugnata.
La Corte di appello, dopo aver espresso serie riserve circa la credibilità del racconto del richiedente asilo circa la propria vicenda (definita “priva di riferimenti fattuali credibili, fortemente contraddittoria e confusa”), ha fondato in via principale la propria decisione negativa sul fatto che la vicenda atteneva a un contrasto fra gruppi familiari privati e che la persecuzione non proveniva da autorità statuali o da organismi esercitanti un controllo di fatto sul territorio.
In tal caso occorreva la dimostrazione della non volontà o dell’incapacità da parte delle autorità statuali di assicurare congrua protezione contro la minaccia proveniente da agente privato, mentre il ricorrente neppure aveva dedotto di essersi rivolto alle forze dell’ordine per ottenere tutela contro la temuta vendetta.
Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, prevede infatti che ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, i responsabili della persecuzione o del danno grave possano essere lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio ma anche soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lett. a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi.
L’art. 6, comma 2, dello stesso Decreto dispone che la protezione statuale debba essere effettiva e non temporanea e consistere nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e nell’accesso da parte del richiedente a tali misure.
Tale ratio non risulta censurata in modo pertinente e specifico da parte ricorrente, con conseguente inammissibilità del motivo mal diretto.
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 115 c.p.c., per omesso esame della situazione lavorativa del richiedente attestata dai documenti prodotti in causa (comunicazione di assunzione in data 23/9/2016, doc. 8).
Il motivo è inammissibile, in primo luogo perchè sotto le spoglie della denunciata violazione di legge processuale introduce censura di merito circa la valutazione delle prove. La scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all’apprezzamento discrezionale, ancorchè motivato, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge (Sez. 1, n. 21603 del 20/09/2013, Rv. 627523-01).
In secondo luogo la Corte ha negato rilievo all’integrazione lavorativa addotta dal ricorrente perchè basata su di una mera promessa di assunzione, peraltro di pochi giorni antecedente all’udienza.
In terzo e dirimente luogo, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01); non può invece essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Sez. 6-1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648-01; Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01).
3. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.
Nulla sulle spese in difetto di rituale costituzione dell’Amministrazione.
PQM
La Corte:
dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 27 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2019