LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 26394/2017 R.G. proposto da:
C.G., rappresentata e difesa dall’Avv. Davide Bruno, con domicilio eletto in Roma, via Alessandro Torlonia, n. 9, presso lo studio dell’Avv. Massimiliano Barberini;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno e Comitato di Solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania, n. 1523/2017, pubblicata il 3 agosto 2017;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11 aprile 2019 dal Consigliere Emilio Iannello;
udito l’Avvocato Dario Spatafora, per delega;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Sgroi Carmelo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catania, in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda con cui C.G. aveva chiesto il riconoscimento del proprio diritto di accesso al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di tipo mafioso in relazione agli danni non patrimoniali subiti a causa dell’omicidio del padre F., per motivi di mafia, come accertato con sentenza penale del Tribunale di Siracusa.
Ha infatti ritenuto che l’accertata appartenenza della vittima a clan mafioso costituisse ragione ostativa alla chiesta elargizione:
– sia ai sensi della L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 2, (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata);
– sia ai sensi del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, art. 2-quinquies convertito con modificazioni dalla L. 28 novembre 2008, n. 186;
– sia, in ogni caso, ai sensi della L. 22 dicembre 1999, n. 512, art. 4, comma 3, istitutiva del Fondo di rotazione predetto, come modificato dalla L. 7 luglio 2016, n. 122, art. 15, comma 1, lett. c), (c.d. Legge Europea 2015-2016): norma quest’ultima dichiarata espressamente applicabile, nel comma 3 del medesimo articolo, “alle istanze non ancora definite alla data di entrata in vigore della presente legge”.
2. Avverso tale sentenza C.G. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui resistono il Ministero dell’Interno e il Comitato di Solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso depositando controricorso.
Chiamata all’udienza pubblica dell’11/4/2019, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo non constando la notifica del relativo avviso all’Avvocatura Generale dello Stato, non comparsa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con i primi due motivi la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione, rispettivamente, della L. 20 ottobre 1990, n. 302, artt. 1 e 4 e del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, art. 2-quinquies convertito con modificazioni dalla L. 28 novembre 2008, n. 186, per avere la Corte d’appello fatto riferimento a tali norme per regolare fattispecie, quale quella in esame, non compresa nel loro ambito applicativo, ma piuttosto soggetta alla diversa disciplina dettata dalla legge istitutiva del Fondo di rotazione, L. n. 512 del 1999.
2. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. 7 luglio 2016, n. 122, art. 15, commi 1, lett. c) e art. 3, nonchè dell’art. 11 preleggi, per avere la Corte d’appello fatto applicazione retroattiva della stessa a fattispecie anteatta, quale quella in esame.
Sostiene che, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata, “istanze non ancora definite” (alle quali secondo la citata norma transitoria è applicabile la nuova disciplina) non possono considerarsi quelle che, come l’istanza da essa proposta nel 2012, anteriormente alla entrata in vigore della legge di conversione, siano state definite in sede amministrativa con Delib. di rigetto, ancorchè poi impugnata.
3. I motivi, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono infondati.
Il ragionamento della Corte d’appello, svolto sulla base di una ricognizione del testo delle norme richiamate, appare in iure pienamente corretto e condivisibile in tutti i passaggi attraverso i quali si articola.
Questi possono così sintetizzarsi:
a) la L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), nel prevedere il diritto alla “elargizione fino a Lire 150 milioni” in favore di “chiunque subisca un’invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di atti di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico” (comma 1) nonchè in favore di chiunque tali pregiudizi subisca “in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di fatti delittuosi commessi per il perseguimento delle finalità delle associazioni di cui all’art. 416-bis c.p.” (comma 2), subordina detta provvidenza a talune condizioni negative, tra le quali quello dell’essere il soggetto leso “del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali” (comma 2, lett. b);
b) la stessa condizione negativa è prevista per l’elargizione prevista in favore dei superstiti del soggetto deceduto a seguito dei crimini in questione (giusta espressa previsione del D.L. 2 ottobre 2008, n. 151, art. 2-quinques, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 28 novembre 2008, n. 186, a mente del quale i benefici previsti per i superstiti dalla L. n. 302 del 1990, art. 4 sono concessi a condizione che “il beneficiario risulti essere del tutto estraneo ad ambienti e rapporti delinquenziali, ovvero risulti, al tempo dell’evento, già dissociato dagli ambienti e dai rapporti delinquenziali cui partecipava”; condizione negativa che, peraltro, secondo la Corte di merito, già poteva per implicito trarsi, anche prima del detto intervento del legislatore del 2008, dalla L. n. 302 del 1990, stesso art. 4 dal momento che tale norma, nel prevedere tale elargizione, richiama i casi di cui all’art. 1);
c) secondo la Corte territoriale i criteri dettati dalle norme citate “valgono in via generale per tutte le provvidenze erogate dallo Stato, essendo insiti nella stessa ratio legis, che è appunto quella di indennizzare le vittime, intendendosi per tali, necessariamente, i soggetti del tutto estranei agli ambienti malavitosi e non coloro che ne fanno parte, i quali, a ragionare diversamente, riceverebbero, del tutto irragionevolmente, aiuti di Stato per avere scelto la via del crimine piuttosto che quella della legalità”;
d) l’esposta condizione negativa è peraltro espressamente richiesta dalla L. 22 dicembre 1999, n. 512, art. 4, comma 3, come modificato dalla L. 7 luglio 2016, n. 122, art. 15, comma 1, lett. c), attraverso il rimando alle “condizioni di cui alla L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 2, lett. b)”;
e) il caso in questione rientra a pieno titolo nella norma transitoria di cui alla L. n. 122 del 2016, stesso art. 15, comma 3 (a mente della quale “la disposizione di cui al comma 1, lettera c), si applica alle istanze non ancora definite alla data di entrata in vigore della presente legge”), dato che “la domanda amministrativa è stata respinta, il procedimento di primo grado era in corso al momento dell’entrata in vigore della L. n. 122 del 2016 e la pronuncia di accoglimento non è passata in giudicato per effetto della… impugnazione”.
2. Questo essendo l’excursus argomentativo sviluppato in sentenza, appare evidente anzitutto l’infondatezza dei primi due motivi di ricorso.
Essi invero postulano erroneamente che la Corte abbia inteso fare applicazione diretta delle norme di cui alla L. n. 302 del 1990 che prevedono l’erogazione di indennizzi in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata o dei loro superstiti, essendo evidente piuttosto – alla stregua in particolare dell’argomento sopra riportato sub lett. c) – che a dette disposizioni la Corte d’appello abbia inteso attribuire una valenza sistematica per trarne il convincimento che le condizioni ivi previste per l’erogazione degli indennizzi, e in particolare quella negativa dell’estraneità all’ambiente e ai contesti criminali dai quali origina il fatto lesivo, costituisce requisito immanente allo scopo e, in definitiva, alla stessa ragion d’essere non solo di quel particolare beneficio ma di ogni provvidenza in favore delle vittime di quei reati.
3. Tale lettura appare peraltro pienamente corretta ed è condivisa da questa Corte.
L’estraneità agli ambienti di mafia del soggetto che chieda l’accesso al Fondo di rotazione ex lege 22 dicembre 1999, n. 512 (la cui istituzione persegue, come noto, lo scopo di rendere effettivo e concreto il diritto al risarcimento del danno riconosciuto giudizialmente a favore delle vittime di tale specifica tipologia di reati, attribuendone l’onere in via sussidiaria per l’appunto al Fondo), allo stesso modo che quella richiesta per i soggetti che chiedano l’indennizzo previsto dalle L. n. 302 del 1990, costituisce invero condizione immanente allo scopo stesso della legge, tale per cui essa contraddirebbe sè stessa e la funzione per cui il Fondo è stato istituito ove se ne ammettesse l’applicazione anche in favore di soggetti intranei al contesto criminale da cui originano i fatti lesivi.
Scopo mediato ma evidentemente prioritario perseguito dalla legge istitutiva del Fondo è pur sempre, infatti, quello di contrastare i fenomeni d’infiltrazione mafiosa, nella ragionevole convinzione che la concreta solidarietà in favore di coloro che hanno subito danni materiali alle proprie attività economiche (per il coraggio di essersi sottratti al regime deprimente della mafia) possa consentire agli stessi di trarre benefici oggettivi dal diritto concreto al risarcimento dei danni patiti, così al tempo stesso contrastando quelle situazioni di debolezza, isolamento e inferiorità economica e sociale nel quale attecchisce e si fortifica il fenomeno mafioso.
Si otterrebbe invece, evidentemente, il risultato opposto se tale beneficio si riconoscesse nel caso in cui il beneficiario (o il congiunto dalla cui lesione origini il diritto al risarcimento riconosciuto giudizialmente) risulti appartenere al contesto criminale che ha dato ragione e origine al fatto lesivo; tali soggetti – come nota efficacemente il giudice a quo – riceverebbero in tal caso la provvidenza pubblica non per essersi coraggiosamente allontanati e opposti al contesto mafioso ma, al contrario, paradossalmente, proprio per avervi fatto parte.
4. Ne discende l’infondatezza anche del terzo motivo.
E’ evidente infatti, per quanto detto, che, anche prima dell’entrata in vigore della norma di cui alla L. 7 luglio 2016, n. 122, art. 15, comma 1, lett. c), – che, come detto, ha introdotto, nella L. n. 512 del 1999, art. 4, comma 3, l’espressa previsione della condizione in discorso, attraverso il richiamo alla L. n. 302 del 1990, art. 1, comma 2, lett. b), – tale condizione doveva necessariamente sussistere per il riconoscimento del beneficio, dovendosi dunque attribuire alla norma introdotta nel 2016 valore non innovativo ma puramente chiarificatore di un requisito comunque immanente allo scopo stesso della legge istitutiva.
E’ mal posta dunque la questione circa la corretta interpretazione di “istanza non ancora definita” cui la disposizione transitoria della L. n. 122 del 2016, art. 15, comma 3 dice applicabile detta norma.
Alla luce di quanto sopra detto alla norma può attribuirsi il solo scopo di rimarcare l’intangibilità di provvedimenti che, pur nell’eventuale erroneo misconoscimento del requisito di cui s’è detto, abbiano erogato il requisito in parola, ove gli stessi non siano più suscettibili nemmeno di sindacato giurisdizionale, non certo quello di individuare il discrimine nell’esaurimento del solo iter amministrativo, per il che non si troverebbe del resto alcun supporto testuale o sistematico.
5. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
L’attuale condizione della ricorrente di ammessa al patrocinio a spese dello Stato esclude, allo stato, la debenza del raddoppio del contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater (Cass. 22/03/2017, n. 7368; Cass. 02/09/2014, n. 18523).
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019