Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.28828 del 08/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2368-2016 proposto da:

D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, V.BALDO DEGLI UBALDI 66, presso lo studio dell’avvocato SIMONA RINALDI GALLICANI, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO MONTAGNANI;

– ricorrente –

contro

AICE EMILIA ROMAGNA – ASSOCIAZIONE ITALIANA CONTRO L’EPILESSIA ONLUS, in persona del presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIALOJA, 6, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO OTTAVI, rappresentata e difesa dall’avvocato DANIELE COLIVA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1728/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/10/2019 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MONTAGNANI ROBERTO;

udito l’Avvocato COLIVA DANIELE.

FATTI DI CAUSA

1. Avendo A.I.C.E. Emilia Romagna Associazione Italiana contro l’Epilessia Onlus convenuto davanti al Tribunale di Bologna D.A. per “accertare se del caso l’intervenuta risoluzione di un contratto di subcomodato oneroso d’azienda” stipulato tra le parti in data 28 aprile 2005 “per inadempimento de La Stalla di D.A.” con conseguente condanna al pagamento dei canoni non versati e al risarcimento dei danni, ed essendosi il D. costituito resistendo e proponendo domande riconvenzionali di restituzione dei beni lasciati nei locali o pagamento del loro valore, nonchè di pagamento della indennità per la perdita dell’avviamento, il Tribunale, con sentenza n. 2195/2014, dichiarava risolto il contratto per inadempimento del subcomodatario, condannando quest’ultimo a pagare all’attrice la somma di Euro 65.298, oltre interessi; condannava altresì l’attrice a restituire a controparte beni lasciati o a pagarli nella misura di Euro 67.294 oltre interessi; compensava infine le spese.

A.I.C.E. proponeva appello, cui resisteva il D.; la Corte d’appello di Bologna lo accoglieva parzialmente, condannando l’appellato a pagare all’appellante la somma complessiva di Euro 104.067,18 titolo di canoni di locazione non pagati, oltre interessi legali, e condannando l’appellante a restituire a controparte i beni lasciati, ad eccezione di quelli già restituiti, o a rimborsarne il controvalore nella misura di Euro 56.544 oltre interessi; condannava infine la appellata a rifondere all’appellante le spese processuali dei due gradi nella misura della metà, per il resto compensando.

2. Ha presentato ricorso, fondato su due motivi, il D.; A.I.C.E. si è difesa con controricorso: il ricorrente ha depositato anche memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

3.1 In primo luogo deve darsi atto che il ricorso, in una premessa non del tutto chiara, adduce che la controversia riguarda un contratto di “subcomodato oneroso” d’azienda stipulato il 28 aprile 2005 da A.I.C.E. con un altro soggetto al quale il ricorrente sarebbe subentrato “nell’autunno 2008”, in ordine al mancato pagamento da parte dell’attuale ricorrente di diversi “canoni di affitto”. In particolare, viene posta in discussione la “entità dei canoni di affitto, che per espressa previsione contenuta nell’art. 4 del contratto dovrebbero essere corrisposti “al netto delle imposte dirette e/o indirette dovute dall’associazione sul corrispettivo pattuito” “; e il Tribunale, a fronte della domanda di A.I.C.E. cui aveva resistito il D. – sostenendo tra l’altro che “il versamento di un importo conteggiato come preteso da controparte, in sostanza comprensivo delle eventuali imposte dovute da A.I.C.E., costituiva comunque un corrispettivo tassabile, sul quale conteggiare le imposte dovute, e così via all’infinito” -, nella sua sentenza riteneva “nulla la pattuizione afferente il corrispettivo dei canoni al netto delle imposte, in quanto darebbe luogo ad un canone indeterminabile”. Abbastanza dettagliata è invece, poi, la descrizione del giudizio di secondo grado.

Le insufficienze della premessa dovrebbero, a questo punto, colmarsi mediante l’illustrazione dei motivi, e, in particolare, per il suo contenuto come si vedrà ora, del primo motivo.

3.2.1 Il primo motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, senza peraltro indicare quali sarebbero le norme di diritto non rispettate dalla corte territoriale. Neanche in questo motivo, peraltro, viene riportato integralmente l’art. 4 del contratto. Risulta richiamato soltanto un passo della motivazione della sentenza impugnata (tratto dalla sua pagina 3), che pare riportarne una parte attraverso la seguente trascrizione: “il corrispettivo della concessione della azienda, comprensivo del canone relativo ai locali ove è installato l’esercizio ed al netto delle imposte dirette ed indirette dovute dall’associazione sul corrispettivo percepito, viene pattuito nel seguente modo: Euro 18.000 all’anno per i primi (due) anni, Euro 24.000 il terzo anno, Euro 30.000 per il quarto anno, Euro 32.000 per il quinto anno ed Euro 36.000 annui dal sesto sino al termine del contratto… oltre l’aggiornamento Istat in caso di proroga e di rinnovo del contratto stesso”.

Le argomentazioni che seguono prendono le mosse dalla definizione della clausola contrattuale come “quantomeno ambigua” e, “per giunta”, nulla. Per sorreggerne e determinarne l’addotta nullità non vengono peraltro indicate norme violate, bensì si argomenta che “appare nullo il patto in base al quale a Tizio sia corrisposto un compenso di 100 con l’obbligo di Caio di farsi carico del relativo onere tributario”: e dunque si ipotizza che Tizio riceva da Caio sia il compenso di 100 sia il relativo onere tributario. Se ne deduce che in tal modo il reddito complessivo imponibile di Tizio “verrebbe determinato tenendo conto di 100, quando in realtà è superiore”; e si sostiene che la somma su cui Tizio dovrà pagare le imposte dovrebbe essere 100 più l’importo delle imposte che graverebbero un reddito di 100. Infatti “il reddito complessivo imponibile di Tizio” è superiore a 100.

La “illegittimità” della clausola contrattuale sarebbe stata “vista dal giudice di prime cure”, che per eliminarne le illegittime conseguenze avrebbe osservato (e questo passo è l’unico relativo al contenuto della motivazione della sentenza del Tribunale): “Diversamente opinando, la pattuizione darebbe luogo ad un canone indeterminabile, e sarebbe quindi nulla, dal momento che le somme corrispondenti al debito d’imposta costituirebbero una parte del canone e sarebbero a loro volta assoggettate ad imposta, che dovrebbe essere pagata dal subcomodatario integrerebbe (sic) a sua volta il canone, in una progressione all’infinito”.

3.2.2 Peraltro, ciò non significa che la norma violata sia l’art. 1346 c.c. in combinato disposto con l’art. 1418 c.c., comma 2, ovvero che l’asserita nullità trovi fondamento nella indeterminatezza o nella indeterminabilità dell’oggetto contrattuale.

A questo punto, infatti, il motivo definisce il problema “più vasto e complesso”, nonchè attinente “al meccanismo dell’accollo d’imposta”, invocando la L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, per poi affermare che il richiamo rinvenibile in quest’ultima norma all’istituto dell’accollo nella forma dell’accollo cumulativo limita l’applicazione di tale norma dello Statuto del contribuente “ai soli negozi che presentano tutti i tratti qualificanti dell’accollo”; e ciò non ricorrendo nel caso in esame, la clausola è nulla.

Dopo un riferimento alla giurisprudenza relativa alla c.d. terza via (di cui fin d’ora si può rilevare che non è comprensibile la pertinenza, non emergendo dalla vicenda processuale profili riconducibili all’art. 101 c.p.c., comma 2), si conclude la censura affermando che, dovendosi attribuire un qualche effetto alle clausole contrattuali ex art. 1367 c.c., “l’unico senso possibile è quello indicato dal Tribunale”, e non quello indicato dal giudice d’appello, per cui occorrerebbe cassarne la sentenza.

3.2.3 Questa descrizione del contenuto del motivo nella sua evidente sequenza consente di ben comprendere la sua inadeguata conformazione.

Anzitutto, non è comprensibile sulla base di quali norme si adduca la nullità della clausola negoziale rappresentata dall’art. 4 del contratto, clausola che, peraltro, come già si notava, non è stata neppure riportata integralmente. Invero, la L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, non prevede una fattispecie di nullità (così semplicemente recita: “E’ ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario”); e la questione della indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto contrattuale che avrebbe posto il primo giudice a fondamento della nullità, dapprima ventilata, viene poi abbandonata nel motivo per introdurre argomenti, non perspicui, relativi comunque all’accollo cumulativo, che nulla hanno a che fare con l’oggetto determinato/determinabile del contratto; a quest’ultimo, però, si ritorna implicitamente nella conclusione del motivo.

Il motivo, pertanto (anche a prescindere dal fatto che non integra la premessa in modo tale da raggiungere il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, esigenza già sopra rimarcata) non raggiunge l’ammissibilità, in quanto non lascia intendere quali siano le norme di cui esso, in riferimento al mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (e non vi è spazio, visto quanto si è riassunto in ordine al suo contenuto, per la sua riqualificazione – sulla scorta di S.U. 24 luglio 2013 n. 17931 e della giurisprudenza successiva – in un altro mezzo), denuncerebbe la violazione e/o la falsa applicazione: non sono indicate nella rubrica, dalla esposizione del motivo si comprende soltanto che riguarderebbero una nullità della clausola, ma tale esposizione, come si è visto, non è sufficiente comunque a renderle evincibili in modo inequivoco, vale a dire a identificare la species dell’ampio genus nullità che verrebbe denunciata.

3.2.4 Meramente ad abundantiam, a questo punto, si osserva altresì che – ut supra già accennato – l’art. 4 del contratto, che patirebbe la nullità, non è stato integralmente trascritto; e, parimenti ad abundantiam, si rammenta che la questione della contrattuale translatio tributaria è stata recentemente risolta, per l’affine contratto locatizio commerciale, da S.U. 8 marzo 2019 n. 6882 come segue: “La clausola di un contratto di locazione (nella specie, ad uso diverso), che attribuisca al conduttore l’obbligo di farsi carico di ogni tassa, imposta ed onere relativo ai beni locati ed al contratto, manlevando conseguentemente il locatore, non è affetta da nullità per contrasto con l’art. 53 Cost. – configurabile quando l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito ma da un soggetto diverso, obbligatosi a pagarla in vece e conto del primo – qualora essa sia stata prevista dalle parti come componente integrante la misura del canone locativo complessivamente dovuto dal conduttore e non implichi che il tributo debba essere pagato da un soggetto diverso dal contribuente, trattandosi in tal caso di pattuizione da ritenersi in via generale consentita in mancanza di una specifica diversa disposizione di legge.”. E che nel caso in esame si fosse o meno nell’ambito del canone non è possibile accertare, in quanto, come già si è visto, nè il motivo nè la premessa del ricorso apportano integralmente l’art. 4 del contratto, e in nessuna di queste due fonti di conoscenza per il giudice di legittimità è reperibile, d’altronde, alcunchè in ordine alle altre clausole negoziali riconducibili alla determinazione del canone, per cui non contribuisce neppure il secondo motivo che si verrà ora ad esaminare: il che significa carenza di autosufficienza, ovvero inammissibilità sotto ulteriore profilo.

3.3.1 II secondo motivo viene rubricato come denunciante omesso esame di fatto decisivo e discusso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Viene riportato uno stralcio della motivazione della sentenza impugnata in cui si fa riferimento al documento n. 3 del fascicolo di controparte, da cui secondo la corte territoriale risulterebbe che “il D. non ha mai contestato di dover pagare all’associazione un canone che tenesse conto delle imposte dovute dalla concedente”.

Criticando quindi tale passo, si afferma che il suddetto documento, proveniente dalla stessa controparte, “fa riferimento ai canoni impagati conteggiati al netto delle imposte”, onde non potrebbe costituire il riconoscimento da parte del D. di dovere “un canone che tenesse conto delle imposte dovute dalla concedente”. Viene qui inserita la fotocopia di quello che sarebbe il documento in questione, aggiungendo poi che “la Corte d’Appello… ha omesso totalmente di considerare che il sig. D., fin dalla sua prima difesa, ha contestato i criteri di calcolo contenuti nel contratto” (sul punto si trascrive uno stralcio della memoria di costituzione davanti al primo giudice). Si aggiunge altresì che il giudice d’appello avrebbe “omesso di considerare che la quantificazione delle somme dovute dal sig. D. (Euro 103.507,18), effettuata da AICE, non è corroborata da alcun criterio logico (risultando il computo cervellotico), oltre che da fondamento giuridico, e ha superato “elegantemente” il problema asserendo che trattasi di somme per le quali non c’è stata contestazione quanto alla loro entità. La contestazione invece c’è stata eccome”: al riguardo si trascrive un passo della memoria difensiva in appello e si inserisce nel motivo dapprima la pagina 8 del ricorso di primo grado della controparte e poi la pagina 15 del ricorso in appello sempre di controparte, così concludendo: “Come abbia potuto la Corte d’Appello considerare non contestati e validi gli astrusi conteggi di cui sopra, fra loro peraltro in palese contraddizione (la differenza fra la somma richiesta in primo grado e quella richiesta in appello è di Euro 24.700,00), appare inspiegabile”, per cui il ragionamento della suddetta corte “appare viziato e meritevole di essere cassato”.

3.3.2 Il motivo, ictu oculi, si colloca sul piano direttamente fattuale per contestare quanto in effetti il giudice ha esaminato ma in modo secondo il ricorrente non condivisibile, anche in relazione alle modalità di calcolo, perseguendosi in tal modo, dal giudice di legittimità, un terzo grado di merito su questo accertamento, come manifesta – e conferma – inequivocamente l’inserimento della fotocopia di un documento prima e, successivamente, di due pagine di atti difensivi di controparte, una estratta dal ricorso di primo grado e una dal ricorso in appello.

Invero, il motivo censura la valutazione della corte territoriale sulla determinazione del canone, e non rientra pertanto, per la sua fattualità, nel paradigma tassativo dell’art. 360 c.p.c.; nè l’asserto relativo al difetto di contestazione valutato come sussistente dalla corte territoriale svincola dalla stessa diretta fattualità (preclusa sarebbe, al riguardo, pure l’impugnazione straordinaria di cui all’art. 395 c.p.c., n. 3, proprio in quanto “la pronunzia del giudice, che si assuma erronea, sull’esistenza di uno o più fatti ritenuti pacifici per difetto di contestazione, costituisce frutto non di un errore meramente percettivo, ma di un’attività valutativa, nel senso che il giudice stesso, postasi la questione della mancanza di contestazioni in ordine all’esistenza di uno o più fatti determinati, l’ha risolta affermativamente all’esito di un giudizio, di per sè incompatibile con l’errore di fatto e non idoneo, quindi, a costituire motivo di revocazione a norma dell’art. 395 c.p.c., n. 4”, come insegna Cass. sez. 2, 31 marzo 2011 n. 7488).

La natura radicalmente fattuale, dunque, conduce anche questo motivo alla inammissibilità.

4. Il ricorso, in conclusione, risulta inammissibile. Considerata la difformità delle pronunce di merito, e tenuto pure in conto che l’intervento delle Sezioni Unite in ordine alla translatio degli oneri tributari al conduttore – questione affine a quella che il primo motivo, seppur in modo inadeguato per raggiungerne l’ammissibilità, si potrebbe supporre che intendesse presentare -, si stima equo compensare integralmente le spese processuali.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art., comma 1 bis.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso compensando le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019

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