Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.28896 del 08/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18835/2018 proposto da:

J.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Carlo Poma, 4 presso lo studio dell’avvocato Francesca Finizio e rappresentata e difesa dall’avvocato Daniela Vigliotti in forza di procura speciale allegata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 871/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/06/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, J.M. cittadino pakistano, ha impugnato dinanzi al Tribunale di Milano il provvedimento con cui la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva raccontato che lavorava nel suo paese come autista di mini-pullman e che nell’ottobre del 2013 era stato investito, mentre si trovava alla guida, da un motociclista, che gli aveva tagliato la strada; che l’investitore era morto; che, temendo di essere linciato dalla folla, si era rifugiato prima dalle sorelle e poi da un amico; che il morto era figlio di un funzionario del partito MQM e che i membri del partito lo cercavano per ucciderlo; che già nell’aprile del 2013, costoro, persone molto crudeli e molto note, avevano ucciso suo fratello; che la polizia non avrebbe potuto proteggerlo contro costoro; che aveva pertanto lasciato il Pakistan nell’aprile del 2014.

Con ordinanza del 22/5/2017 il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso, negando la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione.

2. Avverso la predetta decisione ha proposto appello J.M., a cui ha resistito il Ministero dell’Interno.

Con sentenza del 19/2/2018 la Corte di appello di Milano ha rigettato l’appello, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.

3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione J.M., con atto notificato il 27/6/2018, con il supporto di tre motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 7/8/2018, chiedendo il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), con riferimento alla sussistenza di una minaccia grave alla vita del deducente in relazione alla generale situazione socio politica del Paese di provenienza, alla luce delle pronunce “Elgafaj” e “Diakitè” della Corte di Giustizia Europea in tema di conflitto armato interno.

Il motivo è infondato.

La Corte di appello ha valutato la situazione generale del Pakistan, sulla base di informazioni provenienti da fonti istituzionali e da organismi internazionali affidabili (EASO agosto 2017), escludendo con riferimento alla specifica area di provenienza dell’interessato una situazione di pericolo generalizzato, in ragione della presenza efficace di una forza paramilitare dipendente dal Ministero dell’Interno con base a *****, impegnata a garantire il rispetto della legalità, capace di indebolire l’ala armata del partito MQM e di limitare le reti criminali.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, per non aver la Corte di appello assolto all’onere di cooperazione istruttoria su di essa incombente.

Il quadro descritto in sentenza non corrispondeva a quello attuale del Paese, come risultava dalle COI, dal sito dell’Ansa, dal rapporto di Amnesty International del 2017-2018.

Il ricorrente, lungi dal rappresentare una violazione di legge consumata dalla Corte di appello di Milano, per aver omesso di informarsi sulla situazione socio politica e sulla stabilità del Paese di provenienza, manifesta il proprio dissenso nel merito dal quadro tracciato dalla sentenza impugnata, invocando a tal fine una serie di fonti pubbliche, citate oltremodo genericamente, delle quali non risulta in alcun modo che siano state prodotte in giudizio e sottoposte al contraddittorio.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione con riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, in ordine alla mancata concessione della protezione umanitaria, tenuto conto della buona integrazione lavorativa e sociale e del radicamento in Italia del ricorrente (rapporto di lavoro domestico e buste paga prodotte).

La censura non coglie il segno.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’integrazione sociale e lavorativa non costituisce elemento di per sè sufficiente al riconoscimento della protezione c.d. umanitaria.

Non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Sentenza CEDU 8/4/2008 Ric. 21878 del 2006 Caso Nyianzi c. Regno Unito). (Sez. 6-1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648-01).

Viceversa il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01).

4. Il ricorso deve quindi essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese a favore del controricorrente, liquidate come in dispositivo.

Poichè risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, liquidate in Euro 2.100,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019

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