LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 19674/2018 proposto da:
A.J., domiciliato in Roma, piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso dall’avvocato Mario Lotti in forza di procura speciale su foglio a parte;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che lo rappresenta e difende ex lege;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2280/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/06/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, A.J., cittadino ghanese, ha impugnato dinanzi al Tribunale di Milano il provvedimento con cui la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.
Il ricorrente, cittadino ghanese, di religione cristiana, nato a ***** e trasferitosi a *****, aveva narrato di aver intrattenuto con una donna di religione musulmana una relazione, tenuta segreta, a causa dell’intransigenza religiosa della famiglia di lei; che la relazione era stata tuttavia scoperta dopo la nascita del secondo figlio della coppia; che era insorto un violento litigio con i fratelli della donna, che gli avevano intimato di convertirsi alla religione musulmana; che egli, aggredito, si era difeso, dopo essere stato colpito all’inguine, e aveva provocato la morte di uno degli aggressori; che era stato ricercato sia dalla polizia con l’accusa di omicidio, sia dai familiari dell’ucciso per vendetta; che aveva perciò lasciato il Paese, approdando in Libia, ove era stato incarcerato e detenuto in condizioni terribili; che era riuscito a evadere, raggiungendo quindi l’Italia; che aveva qui appreso da un compaesano che i parenti della compagna si erano vendicati, uccidendo sua sorella.
Con ordinanza del 21/4/2017 il Tribunale di Milano ha rigettato il ricorso, negando la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione.
2. Avverso la predetta decisione ha proposto appello A.J., senza che il Ministero dell’Interno si sia costituito.
Con sentenza del 8/5/2018 la Corte di appello di Milano ha rigettato l’appello.
3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione A.J., con atto notificato il 26/6/2018, con il supporto di cinque motivi.
L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 30/7/2018, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, anche in riferimento all’art. 2697 c.c..
1.1. La Corte di appello aveva ritenuto non credibile il racconto del richiedente asilo in contrasto con i principi che nella materia governano l’attenuazione dell’onere probatorio; il richiedente aveva reso un racconto completo e credibile, ricco di riscontri e con l’atto di appello aveva dato analiticamente conto delle contraddizioni imputategli dal Tribunale.
1.2. Il motivo è fondato e va accolto.
La valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).
Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).
Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.
Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro allegativo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202).
Nella specie la Corte milanese ha completamente omesso di considerare gli elementi di prova positivi addotti dal ricorrente, a riscontro e corredo della sua narrazione, ossia la ferita all’inguine, giudicata compatibile con una ferita da arma da taglio inferta due anni prima, e l’annuncio funebre relativo all’uccisione (per vendetta) della sorella.
Non ha inoltre valutato le spiegazioni offerte dal ricorrente con l’atto di appello circa le pretese incongruenze e contraddizioni del suo racconto: il fatto che la compagna non era musulmana praticante e non si abbigliava quindi in tal modo; la compatibilità del rinvio della cerimonia del battesimo nella religione cristiano pentecostale; la diversità dei riti e delle convinzioni proprie di quella fede; l’apprensione solo a posteriori della morte del fratello della compagna da lui ferito; l’ignoranza della situazione attuale della compagna, che viveva ad ***** e non a *****, da cui proveniva il compaesano che aveva recato le informazioni sulla morte della sorella.
A fronte di tali lacune, la motivazione della Corte circa la non credibilità e inverosimiglianza della narrazione, che non si confronta con le spiegazioni offerte dal ricorrente con l’atto di appello e con le prove materiali da lui prodotte, si risolve in mera apparenza e in sostanziale elusione del principio legale dell’onere probatorio attenuato, vigente in materia.
2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), anche in riferimento all’art. 2697 c.c., relativamente alla sussistenza del rischio di danno grave, nella forma della condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte o di subire la tortura o trattamenti inumani e degradanti.
Vi era il rischio di condanna alla pena di morte, prevista per il reato di omicidio e le condizioni carcerarie ghanesi erano caratterizzate da evidenti violazioni dei diritti fondamentali, denunciate da numerose fonti.
Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, relativamente alla sussistenza del rischio di danno grave, nella forma della minaccia grave e individuale alla vita e alla persona, derivante da violenza indiscriminata nel Paese di provenienza, al cui proposito la situazione esistente doveva essere stabilita d’ufficio sulla base di informazioni aggiornate.
Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio discusso tra le parti e violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per aver la Corte di appello omesso di valutare le vicende patite in Libia dal ricorrente incarcerato per 4/5 mesi, ripetutamente picchiato e tenuto a digiuno Con il quinto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente denuncia omesso e comunque erroneo giudizio comparativo fra la situazione soggettiva e oggettiva del ricorrente nel Paese di origine, caratterizzato da violazione di diritti fondamentali e estrema precarietà, e il livello di integrazione raggiunto in Italia, e violazione o falsa applicazione con riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, in ordine alla mancata concessione della protezione umanitaria, tenuto conto della buona integrazione lavorativa e sociale e del radicamento in Italia del ricorrente (regolare rapporto di lavoro e apprensione della lingua italiana).
Tutti questi motivi restano assorbiti per effetto dell’accoglimento del primo motivo, con la conseguente correlativa cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Milano anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 25 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019