LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 30044/2018 proposto da:
F.C., elettivamente domiciliato in Oria (BR) Vico Torre S. Susanna 18 presso l’avv. Antonio Almiento;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 913/2018 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 20/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/09/2019 da Dott. RUSSO RITA.
RILEVATO
CHE:
1.- F.C. ha presentato istanza di protezione internazionale che è stata definitivamente rigettata in data 18.12.2009. Nel maggio 2015 ha nuovamente proposto l’istanza e, sentito dalla Commissione, dopo essersi riportato ai motivi della fuga già illustrati, ha raccontato del suo percorso di integrazione in Italia: espone, in particolare, di essere attualmente pastore di una chiesa evangelica a ***** e di essersi sposato con una connazionale ed in attesa (all’epoca) di un figlio.
2.- Il ricorso è stato rigettato dalla Commissione; proposto ricorso al Tribunale territorialmente competente, il giudice di primo grado ha rigettato la domanda. La Corte d’appello di Lecce, con sentenza depositata in data 20.9.2018, ha rigettato l’appello del richiedente.
3.-Propone ricorso per cassazione il F., affidandosi a cinque motivi. Non si è costituito il Ministero dell’interno.
RITENUTO
CHE:
4.- Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 29008, art. 8. Secondo il ricorrente, è stato violato l’obbligo di cooperazione istruttoria per non avere la Corte provveduto ad un nuovo ascolto dell’istante.
Il motivo è infondato.
Il richiedente asilo è stato ascoltato in Commissione, e il verbale della sua audizione è stato messo a disposizione del giudice. La reiterazione in grado di appello della audizione del ricorrente non è automatica, ma subordinata ad una valutazione di rilevanza da parte del giudicante (Cass. civ. n. 24544/2011). Nella fattispecie, la parte non ha evidenziato alcuna utile finalità nella ripetizione dell’ascolto, e non indica quali circostanze egli avrebbe potuto aggiungere, rettificare o chiarire, tali da risultare necessarie all’esame della domanda. L’imprescindibile diritto alla difesa ed il rispetto della direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 impongono, invero, di procedere ad un esame completo delle circostanze di fatto e di diritto della situazione del richiedente, comprese le informazioni contenute nel colloquio personale svolto nella fase amministrativa, ma non necessariamente di reiterarne l’audizione senza che ve ne sia una reale necessità ovvero alcuna rilevanza. In questo senso si è espressa anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea evidenziando che il giudice nazionale non deve necessariamente procedere all’audizione del richiedente, a condizione che, in occasione della procedura di primo grado, gli sia stata data facoltà di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, e che il verbale o la trascrizione di tale colloquio, qualora quest’ultimo sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo (CGUE 26 luglio 2017 nella causa C- 348/16).
5.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la nullità della sentenza e del procedimento per violazione del potere-dovere officioso del giudice di acquisire informazioni e documenti rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Il giudice non avrebbe acquisto informazioni sulle condizioni di pericolo in Nigeria.
Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 14. Secondo il ricorrente, il giudice non ha acquisito informazioni e non ha valutato il rischio correlato alla zona di provenienza del richiedente asilo mentre, di contro, la semplice provenienza da *****, avrebbe giustificato la protezione sussidiaria.
Questi due motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono entrambi inammissibili.
Si tratta della reiterazione di una domanda di asilo, già a suo tempo rigettata, oggi fondata sulla allegazione dell’inserimento socio familiare in Italia. Trattandosi di fatti nuovi asseritamente maturati nel contesto italiano e non di prove che non era stato possibile produrre in precedenza (in arg. v. Cass. 5089/2013), il giudice non deve riesaminare le questioni sulle quali si è ormai formato il giudicato, specie una volta che è stato escluso dalla Corte di merito, con accertamento in fatto, che i documenti e i fatti nuovi dedotti dimostrino l’insorgenza di un rischio che in precedenza era stato escluso, da valutare – in ipotesi – come sopravvenute ragioni di divieto di espulsione ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19 (Cass. 7572/2009).
6.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19. La Corte non avrebbe valutato la particolare condizione di vulnerabilità del soggetto, legata alla permanenza in Italia da oltre dieci anni e il rischio derivante dallo sradicamento, ai fini di riconoscere la protezione umanitaria, anche in questo caso senza valutare la condizione del paese di origine.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 in relazione all’art. 3 CEDU, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo.
Il ricorrente censura – alla luce delle fonti nazionali ed internazionali – che la Corte di merito non abbia dato alcun peso, ai fini della protezione umanitaria, alla sua integrazione sociale in Italia, ritenendola indimostrata, nonchè alla permanenza in Libia senza operare alcuna comparazione tra le condizioni del ricorrente e quelle del paese di origine al fine di verificare se tra la attuale integrazione e le condizioni di vita nel paese di origine sussiste una sproporzione tale da potersi configurare la condizione di vulnerabilità, citando i principi espressi da Cass. n. 4455/2018.
I motivi possono essere esaminati congiuntamente, e sono entrambi inammissibili – ciò che rende superflua la sospensione del procedimento in attesa della decisione delle sezioni unite di questa Corte sulle questioni sollevate con le ordinanze interlocutorie nn. 11749, 11750, 11751 del 2019, depositate il 3 maggio 2019 (v. Cass. n. 22851/2019).
In primo luogo si osserva che è inammissibile la generica censura di non aver dato peso alla “permanenza in Libia”, posto che la parte non specifica neppure se detta permanenza costituisca un fatto passato non dedotto nel precedente processo, e in tal caso per quale ragione viene evidenziato solo in questa sede, o se si tratta di vicende nuove, e cioè di un soggiorno in Libia avvenuto dopo il rigetto della prima domanda, allegazione che tuttavia contrasterebbe non poco con la deduzione di essersi positivamente radicato in Italia.
Come si è detto, si tratta di una domanda reiterata dopo un precedente rigetto, fondata sull’allegazione di elementi nuovi, in questo caso da intendersi come fatti nuovi sopravvenuti, idonei -nella prospettazione della parte – a dimostrare una sua personale condizione di vulnerabilità e il radicamento in Italia. Secondo quanto dispone il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 29 la domanda è inammissibile se non sono addotti nuovi elementi in merito alle condizioni personali del richiedente o alla situazione del suo Paese di origine e ciò significa che anche in questo caso sussiste un onere di circostanziare e documentare la domanda medesima (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3); onere tanto più stringente quanto più si tratti di elementi sui quali non interferiscono, ai fini della possibilità di procurarsi la prova, le criticità del paese di origine e le vicissitudini della fuga, ad esempio le vicende che si sviluppano in Italia durante il soggiorno in questo paese, quali l’integrazione sociale, familiare, economica.
Il richiedente aveva quindi l’onere non solo di allegare il fatto nuovo dedotto, ma anche di provarlo, perchè si tratta di vicende agevolmente dimostrabili, che attengono alla quotidianità della vita in questo paese e all’inserimento socio – familiare (relazioni familiari, nascita di un figlio, impegno in una congregazione religiosa). La Corte d’appello, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha ritenuto le allegazioni del richiedente “sfornite di qualunque supporto probatorio”. Manca quindi il dato della attuale condizione di vita – che il ricorrente avrebbe dovuto provare – da confrontare con quella che il soggetto avrebbe nello Stato d’origine.
Le censure in ricorso sono quindi generiche perchè, pur rimproverando alla Corte d’appello di non aver assunto informazioni sulle condizioni di vita nel paese d’origine, non offrono riscontro probatorio sulla attuale condizione di vita, e quindi manca in concreto il dato con il quale la Corte avrebbe dovuto comparare i dati e le informazioni acquisite tramite i poteri officiosi.
Il ricorso è quindi da rigettare.
Nulla sulle spese in difetto di costituzione della controparte.
Il richiedente è ammesso al patrocino a spese dello Stato e pertanto non è tenuto è tenuto al versamento del contributo unificato, stante la prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 11 e 131 e, di conseguenza, neppure dell’ulteriore importo di cui all’art. 13, comma 1- quater Decreto citato (cfr. Cass. 7368/2017; n. 32319 del 2018), se ed in quanto l’ammissione non risulti revocata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019