Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.29097 del 11/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5900/2014 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI, CLEMENTINA PULLI;

– ricorrenti –

contro

EREDI DI F.A., S.M., S.L., S.G., S.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1012/2013 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 05/03/2013 R.G.N. 7775/2010.

RILEVATO

che:

1. la Corte d’appello di Bari, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, dichiarava che F.A. versava nelle condizioni per godere dell’indennità di accompagnamento sin dall’epoca della domanda amministrativa del 5 dicembre 2007 e condannava l’Inps al pagamento in favore degli eredi dei ratei della stessa dal 1.1.2008 fino alla data del decesso della loro dante causa, oltre accessori come per legge; condannava l’Inps al pagamento alla parte appellante delle spese del doppio grado di giudizio che liquidava per il primo grado in Euro 3.350,00 e per il grado d’appello in Euro 4.020,00 con distrazione in favore del difensore; poneva definitivamente a carico dell’Inps le spese di c.t.u..

2. Per la cassazione della sentenza l’Inps ha proposto ricorso, affidato a due motivi, cui gli eredi di F.A. non hanno opposto attività difensiva.

CONSIDERATO

che:

3. con il primo motivo di ricorso l’Inps deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 c.p.c., comma 2, art. 1 e art. 6, comma 1 delle Tariffe forensi approvate con D.M. n. 127 del 2004, D.L. n. 140 del 2012, artt. 1, 4,5,11, emesso del D.L. n. 1 del 2012, ex art. 9, convertito in L. n. 27 del 2012 e della tabella allegata al citato D.M. n. 140 del 2012.

Lamenta che per il primo grado di giudizio la Corte territoriale abbia condannato l’istituto al pagamento delle spese di giudizio indicando un unico importo senza distinguere tra diritti ed onorari, come avrebbe dovuto fare in applicazione del D.M. n. 127 del 2004, applicabile ratione temporis, e senza indicare la normativa applicabile e i criteri di riferimento.

4. Aggiunge che il collegio giudicante non ha provveduto ad effettuare correttamente la quantificazione delle spese, che si rivela palesemente difforme dallo scaglione di riferimento che è quello da Euro 5200 a Euro 25.900, con riferimento alla somma dovuta che ammonta ad Euro 21.492,49 essendo stata riconosciuta la provvidenza per tre annualità e nove mensilità.

5. Sostiene poi che per il giudizio di appello, applicando alla causa i valori medi di liquidazione previsti dallo scaglione fino a Euro 25.000 per le fasi svolte, la Corte applicando i valori medi di liquidazione non avrebbe potuto riconoscere un importo superiore a Euro 2.520,00.

6. Come secondo motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione del D.M. n. 140 del 2012, artt. 4 e 11, emesso del D.L. n. 1 del 2012, ex art. 9, conv. in L. n. 27 del 2012 e della tabella A allegata al citato D.M. n. 140 del 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene che il giudice di merito avrebbe dovuto procedere ad una riduzione dei valori medi, considerata l’estrema semplicità del giudizio, che non implica alcuna questione giuridica complessa.

7. Il primo motivo non è fondato nella parte in cui si assume che al giudizio di primo grado avrebbe dovuto applicarsi il D.M. del 2004, sia in relazione agli importi previsti che alla necessità di distinguere la liquidazione per diritti e onorari. Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U., n. 17405 del 12/10/2012) hanno infatti chiarito che “In tema di spese processuali, agli effetti del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, il quale ha dato attuazione al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito in L. 24 marzo 2012, n. 27, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorchè tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta quando ancora erano in vigore le tariffe abrogate, evocando l’accezione omnicomprensiva di “compenso” la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera complessivamente prestata”. Nel caso, correttamente dunque la Corte territoriale ha proceduto nel 2013 alla liquidazione dei compensi (anche) per il giudizio di primo grado applicando le Tariffe del 2012.

8. Parimenti infondata è la doglianza secondo la quale la Corte non avrebbe potuto discostarsi dai valori medi previsti, considerato che in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al D.M. n. 55 del 2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione (così Cass. n. 2386 del 31/01/2017, conf. Cass. n. 18167 del 16/09/2015).

9. Le stesse argomentazioni valgono a ritenere l’inammissibilità del terzo motivo, in quanto la determinazione all’interno dei valori di tariffa, così come la valutazione della complessità della controversia ai fini di un’eventuale riduzione, attiene all’attività valutativa demandata al giudice di merito.

10. Il ricorso deve dunque essere rigettato.

11. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva della parte intimata.

12. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto, considerato che l’insorgenza di detto obbligo non è collegata alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. da ultimo ex multis Cass. ord. 16/02/2017 n. 4159).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019

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