LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10019-2018 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
V.F., domiciliato in ROMA presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLETTA CORRERA;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 510/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 23/01/2018 R.G.N. 2391/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO PAOLA che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato ALESSANDRO GIOVANNINI per delega verbale dell’Avvocato ARTURO MARESCA.
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di Appello di Napoli, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, con sentenza del 23 gennaio 2018, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato il licenziamento per motivo oggettivo intimato il 19 gennaio 2016 a V.F. da Poste Italiane Spa, condannando la società alla reintegrazione del dipendente ed al pagamento della retribuzione globale di fatto dal recesso nella misura massima di 12 mensilità, oltre contributi e accessori.
2. La Corte ha ritenuto viziato il recesso sia per insussistenza del giustificato motivo indicato dalla società nella comunicazione del dicembre 2015, atteso che “i motivi del licenziamento non sono da ricondursi alla inidoneità del V., bensì al calo dei volumi di corrispondenza”, sia perchè la società “non ha neanche provato la impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione lavorativa”.
La Corte, in punto di tutela applicabile, ha affermato che “l’illegittimità del licenziamento – connessa alla mancata prova sia della residualità e marginalità della prestazione del lavoratore sia dell’inesistenza di altre mansioni cui adibirlo – comporta l’applicazione dell’art. 18, comma 4 nella sua formulazione modificata dalla L. n. 92 del 2012”.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Poste Italiane Spa con 2 motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio a mente dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 2 “per avere la Corte di Appello erroneamente individuato i motivi posti a base del licenziamento, risultanti dalla lettera di licenziamento”.
Si sostiene che “del tutto illogica, oltre che distaccata dall’evidenza fattuale, è la conclusione della Corte di Appello, che non ha tenuto conto che la capacità residuale del lavoratore è divenuta inservibile a causa del processo di meccanizzazione dello smistamento”.
Si evocano le “affermazioni dei testi” in base alle quali risulterebbe che “il lavoratore, in relazione alla capacità lavorativa residua, aveva svolto, al momento del licenziamento, una prestazione oggettivamente di tipo marginale e non apprezzabile, e quindi, in definitiva, non suscettibile di fruizione da parte del datore di lavoro”.
Sempre “la prova per testi” avrebbe dimostrato “che non esistono posizioni lavorative compatibili con le capacità residue del ricorrente”.
3. La censura è inammissibile.
Innanzitutto perchè tende ad una rivalutazione della quaestio facti – anche concernente l’interpretazione della lettera di licenziamento che invece “è rimessa, al pari di tutti gli atti di natura privata, all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile se congruamente motivato e corretto sotto il profilo logico-giuridico” (tra le altre: Cass. n. 31496 del 2018) – violando, mediante il riferimento alle risultanze probatorie, gli enunciati posti dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. nn. 8053 e 8054 del 2014) quanto all’art. 360 c.p.c., novellato n. 5; in secondo luogo perchè la declaratoria di illegittimità del licenziamento si fonda, secondo i giudici d’appello, sia sulla mancanza del giustificato motivo di recesso indicato dalla società, sia sulla violazione del cd. obbligo di repechage e quest’ultimo aspetto non viene adeguatamente censurato da parte ricorrente, se non con riferimento ad una diversa inammissibile valutazione del materiale istruttorio, per cui l’illegittimità del licenziamento resterebbe comunque ferma, non consentendo la cassazione della decisione impugnata.
4. Il secondo motivo denuncia “violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4, 5 e 7”, perchè “la Corte di Appello, all’esito dell’istruttoria, non avendo ritenuto raggiunta la prova della impossibilità di ricollocare il lavoratore, non avrebbe potuto concludere che il giustificato motivo fosse “manifestamente” insussistente, pertanto, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, avrebbe dovuto comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro con la corresponsione di un indennizzo al lavoratore”.
5. Il motivo, come formulato, non può trovare accoglimento.
Esso è stato prospettato riflettendo la tesi – che ha avuto ampio riscontro in dottrina – secondo cui la violazione del cd. obbligo di repechage non consentirebbe l’operatività della tutela reintegratoria nel regime previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
Come noto l’assunto non è stato condiviso da questa Corte che, con la sentenza n. 10435 del 2018, ha sancito, risolvendo la relativa “questione di particolare rilevanza… in funzione nomofilattica”, che “la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”.
Nella specie la Corte territoriale, chiarito in premessa che “i motivi del licenziamento non sono da ricondursi alla inidoneità del V., bensì al calo dei volumi di corrispondenza” (e quindi ad una ragione economica), ha ritenuto che non fosse stata in alcun modo provata “la impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione lavorativa”: di qui la evidente e facilmente verificabile assenza di uno dei presupposti che ha condotto la Corte all’applicazione della tutela reintegratoria.
Secondo l’arresto di questa Corte in precedenza richiamato l’apprezzamento che, sul piano probatorio, registri l’assenza di uno dei presupposti giustificativi del licenziamento tale da indurre il convincimento circa “la chiara pretestuosità del recesso, (è) accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità” (Cass. n. 10435/2018 cit.; v. poi Cass. n. 32159 del 2018).
6. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte deliu. ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2019